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10-9-2014

 

Del testo di Severino Fondamento della contraddizione a noi interessano il primo e il secondo capitolo, che sono quelli in cui parla espressamente del testo di Łukasiewicz sul principio di contraddizione. È un testo del 2005, quindi due anni dopo l’uscita in italiano del testo di Łukasiewicz. Il senso autentico della contraddizione e contenuto della contraddizione, questo è un tema al quale i miei scritti continuano a rivolgersi eccetera, questa distinzione tra contraddizione e contenuto della contraddizione è uno dei grandi temi della storia del pensiero filosofico ma a quest’ultimo sfugge inevitabilmente il senso autentico di tale distinzione, il senso cioè che appartiene al destino della necessità e della verità che da sempre manifesto accoglie e circonda l’accadimento del mortale e della forma culminante di esso che è costituita dal nichilismo dell’occidente. Si ritiene di solito che in ambito consistente del pensiero filosofico dell’occidente ad esempio nella tradizione aristotelico tomistica o nelle ricerche logiche di Husserl, il principio di non contraddizione sia inteso come il principio che afferma sì che il contenuto contraddittorio della contraddizione è assolutamente inesistente ossia è nulla, ma che non afferma certo l’inesistenza e l’esser nulla della contraddizione, (cioè del contraddirsi, la differenza che faceva prima fra contraddizione e contenuto della contraddizione, contraddizione è un atto mentre il contenuto della contraddizione è ciò che questo atto dice). Si rileva questa contrapposizione (sempre tra contraddizione e contenuto della contraddizione) non già nel senso che Aristotele intendeva affermare che il contenuto contraddittorio della contraddizione possa essere esistente e differire dal nulla bensì nel senso che questo testo aristotelico non solo afferma l’inesistenza cioè la nullità e l’impossibilità di tale contenuto ma afferma anche l’inesistenza, l’impossibilità, la nullità dello stesso contraddirsi, l’impossibilità della contraddizione, sì che impossibile non è solo l’errore ma anche l’errare e l’errante, questo teorema aristotelico per lo più in ombra salvo che nell’eccezione di Tommaso d’Aquino che però non ne coglie la portata diventa ancor più rilevante se non si perde di vista Platone che aprendo la strada procede già nella direzione di Aristotele. Ma se, secondo quanto pensa Aristotele, non solo il contenuto contraddittorio della contraddizione ma la contraddizione stessa è l’impossibile, l’inesistente, il nulla, come è possibile che il nichilismo sia positività che domina questa storia? (Per Severino il nichilismo è il fondamento del pensiero occidentale per via del fatto che tutto il pensiero occidentale è impiantato sull’idea del divenire: le cose vengono dal nulla e tornano nel nulla. Per Severino è l’essenza del nichilismo e tutto il pensiero occidentale è impiantato su questo: se una cosa “diviene” questo comporta che “divenendo” diventi altro da sé, cioè non sia più se stessa, questo è il paradosso oltre che del nichilismo di tutto il pensiero occidentale. La tesi di Severino invece consiste nel considerare che le cose “non divengono” letteralmente, non c’è un “divenire”, lui fa l’esempio famoso della legna che bruciando diventa cenere, e diventando cenere a un certo punto accade che la legna diventa prima più rossa, poi più rossa ancora, poi fiammeggia, poi la fiamma si abbassa diventa più scura finché diventa cenere. Chiamiamo questi passaggi L1 L2 L3 eccetera e non c’è il momento in cui cessa di essere legna, è sempre legna però è anche cenere, ora questo per Severino non è possibile perché qualcosa è ciò che non è, la legna sarebbe cenere, quindi la legna è ciò che non è. Ciascuno di questi istanti che noi osserviamo, in cui la legna diventa cenere, è un “eterno”, non sono fatti di elementi che cambiano perché se un elemento cambia è simultaneamente se stesso e altro da sé, mentre ciascun elemento è sempre se stesso. Per cui dice che l’“eterno” è l’apparire dell’esser sé degli essenti. In questa sequenza di elementi, per quanti possano essere, comunque ciascuno di essi non può che essere identico a sé e cioè “essere sé” dell’essente, dell’ente. Questo comporta che non c’è di fatto un divenire perché non diviene, ciascun elemento è “eterno” nel senso che è sempre se stesso. Il “divenire” secondo lui è il prodotto o l’effetto di una cattiva lettura di questo processo che osserviamo, cioè della legna che diventa cenere nel suo esempio, ma di fatto non c’è questo “divenire” si tratta soltanto di momenti ciascuno dei quali è assolutamente identico a sé, questo è appunto l’“apparire” ciò che appare dell’esser sé dell’ente o dell’essente. Ecco questo in due parole ciò su cui insiste Severino. Ora prosegue): l’essenza del nichilismo più sopra richiamato risponde a questa domanda mostrando insieme in che senso il teorema aristotelico a cui ci si sta riferendo sia per altro inaggirabile, inaggirabile nel contesto di un discorso che testimoniando il destino della necessità scorge il carattere nichilistico del modo in cui il pensiero di Aristotele e in generale dell’occidente ha inteso il principio di non contraddizione, inaggirabile dunque una volta che il senso della contraddizione e della sua negazione appaia al di fuori della dimensione nichilistica in cui l’occidente lo avvolge (semplicemente sta dicendo che l’inaggirabilità del principio di non contraddizione lo si può vedere molto facilmente quando ci si pone fuori del nichilismo del discorso occidentale e cioè del problema del “divenire” quando cioè non lo si considera più un elemento del divenire. E adesso vedremo perché): nel 1910 Łukasiewicz pubblica invece un saggio solo di recente tradotto per la prima volta in italiano eccetera dove viene radicalmente criticata l’intera dottrina aristotelica dei principi primi del sapere. Dunque e innanzi tutto viene respinto quel teorema che nel IV libro della Metafisica afferma l’impossibilità del contraddirsi oltre che della contraddittorietà. Nel saggio Łukasiewicz sostiene contro Aristotele e con Husserl che il contraddirsi è esistente e non qualcosa di impossibile, ma sostiene anche e questa volta in opposizione a Husserl che non esiste e non può esistere alcuna prova incontrovertibile dell’esistenza del contenuto contraddittorio della contraddizione. (Vi ricordate cosa diceva Łukasiewicz? Qui Severino incomincia ad affrontare il testo di Łukasiewicz e mostrare che le tesi che il polacco espone non sono attendibili. Incomincia a occuparsi di questo): Il diorisms essenziale della bebaiotate archè.(Il “diorisms” sarebbe la proprietà essenziale del principio di non contraddizione, “bebaiotátē ark” quello che i latini chiamavano “principio omnium firmissimum” cioè il principio più saldo di tutti): Prima di considerare le critiche rivolte da Łukasiewicz al principio di Aristotele è opportuno rimettersi di fronte al testo aristotelico /…/ per essere il più saldo di tutti il principio deve avere una certa “proprietà” che mostra che in che consiste la saldezza del principio, “diorisms” è la parola che Aristotele introduce per indicare questa proprietà, “caratteristica” o “determinazione” essenziale. Il testo presenta sotto vari aspetti il “diorisms” essenziale del primo principio ma essi sono tutti aspetti di un unico tratto centrale l’impossibilità di trovarsi in errore rispetto alla “bebaiotátē ark” e cioè la necessità che si è sempre compiuto l’opposto dell’errare cioè l’essere nella verità, questa è la proprietà del principio di non contraddizione, l’impossibilità dell’errare. (su questo Severino insiste molto. Ora vi ricordate che una delle argomentazioni di Łukasiewicz verteva sulla dimostrazione che tenta di fare Aristotele nel derivare il principio di non contraddizione psicologico da quelli ontologico e logico. Perché i primi due li poneva come dati di fatto acquisititi, mentre quello psicologico “che nessuno può avere una convinzione sulla stessa cosa e non averla sulla stessa cosa” questo occorreva dimostrarlo, sempre secondo il polacco ovviamente): ma Aristotele non pensa e non può pensare che al di sopra o alle spalle del principio più saldo vi sia una necessità cui esso debba sottostare e un’impossibilità che esso debba evitare giacché è appunto tale principio in quanto più saldo di tutti a stabilire il senso dell’impossibilità e della necessità e insieme il senso dell’errore e della verità, l’errore e la verità essendo rispettivamente l’impossibilità e la necessità. (cioè sta dicendo che è il principio di non contraddizione che stabilisce i concetti di vero o di falso): pertanto l’impossibilità di trovarsi in errore rispetto ad esso (principio di non contraddizione) significa che il trovarsi in errore è appunto ciò di cui tale principio è negazione, (il principio di non contraddizione dice che è impossibile trovarsi in errore perché le cose, che diceva prima di Aristotele, sia la contraddizione, sia il contenuto della contraddizione è il nulla, è il niente assoluto): pertanto l’impossibilità di trovarsi in errore rispetto ad esso significa che il trovarsi in errore è appunto ciò di cui tale principio è negazione e che la necessità di essere sempre nella verità rispetto ad esso significa che esso implica necessariamente che ci si trovi sempre all’interno di esso cioè sia impossibile che la conoscenza umana sia un contraddirsi (questa è la questione. Sta dicendo in altri termini che se c’è conoscenza, se è possibile la conoscenza allora questo è perché non è possibile contraddirsi, perché non si dà una conoscenza che si contraddica. Sarebbe una conoscenza non conoscenza): ciò che non si trova mai in errore ma è sempre nella verità rispetto a tale principio è appunto il conoscere, conoscere umano che è un possedere tale principio ed è necessario che lo possegga per potere conoscere uno qualsiasi degli enti, il principio più saldo è cioè la saldezza e fondatezza della manifestazione degli enti (qui incominciamo a entrare nel merito della questione. Lo ripeto di nuovo, questo “il principio più saldo è la saldezza e la fondatezza della manifestazione degli enti” e c’è una connessione tra la manifestazione, in greco “phaínesthai” e il “mostrarsi” che ha a che fare strettissimamente con l’alètheia, cioè la verità e allora): il diorisms essenziale cioè la necessità di trovarsi sempre nella verità intorno a tale principio e pertanto l’impossibilità che il conoscere sia un contraddirsi è il tratto essenziale, si era incominciato a dire dei molti aspetti secondo cui tale diorisms è presentato nel testo aristotelico, l’essere il principio più saldo anche il massimamente conosciuto perché tutti si trovano nell’errore rispetto alle cose che non conoscono e il suo non essere ipotetico, “anypoteton” perché se fosse un’ipotesi non potrebbe essere quel massimamente conosciuto che il conoscere deve possedere necessariamente per conoscere uno qualunque degli enti. (qui vedete che si incomincia a intravedere quali saranno le tesi di Severino e cioè l’apparire, il manifestarsi di qualche cosa, l’apparire stesso della cosa come ciò che testimonia del principio più saldo, ma adesso lo vediamo più propriamente): che questi sia aspetti del diorisms essenziale del principio più saldo è confermato dalla circostanza che il testo dopo aver espresso qual è il principio più saldo dice che questo è il principio più saldo perché esso possiede il diorisms che era stato richiesto per un principio siffatto dove il diorisms al singolare mostra appunto che la pluralità di proprietà che il testo aveva mostrato dover competere al principio più saldo è sottesa e unificata da un unico tratto essenziale che necessità che intorno al quel principio ci si trovi sempre nella verità ossia l’impossibilità che intorno ad esso ci si trovi nell’errore, il passo immediatamente seguente inincomincia a sua volta con un “gár” in greco “infatti” e ciò significa che tale passo indica determinatamente il fondamento dell’affermazione che il principio che è stato qualificato come il più saldo di tutti possiede il diorisms consistente nella necessità che intorno a tale principio l’uomo si trovi sempre nella verità, si trovi sempre all’interno di tale principio cioè possiede il diorisms consistente nell’impossibilità che la conoscenza umana sia mai un contraddirsi. (qual è il diorisms? Qual è la proprietà? Diorisms = è impossibile che lo stesso convenga e insieme non convenga allo stesso, secondo lo stesso. Questo è il diorisms, questa è la proprietà del principio più saldo. Poi qui non critica ancora Łukasiewicz, lo farà nel capitoletto successivo ma dà una sua versione, dice qual è la sua posizione rispetto alla bebaiotátē ark di Aristotele): Nel capitolo IV del libro 10 della Metafisica Aristotele definisce i contrari come termini che danno luogo alla differenza massima all’interno dello stesso genere e nell’ultimo capitolo del De Interpretazione indica quali siano le opinioni tra loro contrarie mostrando che è un errore ritenere che le opinioni contrarie sia definite dal loro essere opinioni intorno ai contrari cioè opinioni che si riferiscono ai contrari in quanto determinazioni noetiche (conoscitive) (Sta incominciando a dire che il contrario di bene non è male ma è non bene, ma questo lo diceva già Łukasiewicz, in quanto c’è qui una discussione, un’articolazione dell’essere per sé o per accidente, lui dice che l’essere per sé è il bene che è identico a sé, il fatto che il bene possa essere anche male è un accidente e quindi la negazione si appunta unicamente sull’essere per sé di qualche cosa. Ecco infatti precisa qui): Si dovrà tuttavia rilevare che proprio la circostanza per la quale il principio più saldo esclude che allo stesso tempo ad esempio al “bene” convenga e non convenga lo stesso, ad esempio convenga e non convenga “l’esser bene” sicché il non convenire dell’esser bene è il convenire del non esser bene o dell’esser male, proprio questa circostanza mostra che tale principio nella sua essenza afferma la sintesi tra l’identità “il bene è bene” (principio di identità) e la non contraddizione “il bene non è non bene” (qui però Severino non riporta la distinzione che aveva fatto Łukasiewicz tra il “non contraddizione” e il principio di “doppia negazione”. Per lui erano equivalenti ma non sinonimi, su questa questione invece Severino non si sofferma) sicché l’identità è “il per sé” rispetto al “per accidente” della non contraddizione, non nel senso che il “per sé” precede il principio più saldo ma è il più saldo perché è esso a precedere ogni altra conoscenza (cioè è il “per sé” che precede qualunque altra conoscenza ché è il più saldo il principio di identità che è una variante, secondo Severino, del principio di non contraddizione, cosa che non era per Łukasiewicz): come dunque nell’opinione vera che il bene è bene, il bene è attribuito per sé al bene (questo è importante. Se io dico che il bene è bene allora il bene è attribuito per sé, non per accidente come se qualche cosa gli appartenesse, fosse una proprietà, diorisms appunto essenziale all’esser bene): è nell’opinione vera che il bene non è male, il “non esser male” è attribuito per accidente al bene, così nell’opinione falsa che il “bene non è bene” “l’esser non bene” è attribuito per sé al bene e nell’opinione falsa che “il bene è male” il male è attribuito per accidente al bene (comunque il “male” sarà anche lui un eterno) (sì però qui il “male” è inteso come contrapposto al bene non il male per sé, certo fosse il “male per sé” potrebbe farsi lo stesso discorso rispetto al male. Poi): Primo: al principio più saldo di tutti intorno all’ente in quanto ente, che è compito del filosofo portare alla luce, compete necessariamente la proprietà (diorisms di prima) di essere il principio rispetto a cui è impossibile trovarsi in errore ossia è necessario essere sempre nella verità, ossia è necessario essere sempre all’interno di tale principio e ciò significa che esso è il massimamente conoscibile, l’assolutamente non ipotetico, ciò che sta al fondamento di ogni altra conoscenza; Secondo: tale principio afferma che il convenire dello stesso allo stesso, ossia della stessa determinazione o ente, secondo lo stesso rispetto è l’impossibile (qui c’è un errore, qui manca un non, è un refuso sicuramente se no Severino si contraddice quindi “che il non convenire dello stesso allo stesso è l’impossibile” perché se “il convenire dello stesso allo stesso è impossibile” sta enunciando il principio di non identità): Terzo: esso (sempre il principio di non contraddizione) possiede il diorisms che è necessario che competa al principio più saldo di tutti, il diorisms che non ci si può trovare in errore rispetto a tale principio (cioè questo principio dice che non posso trovarmi in errore rispetto a questo principio, il principio di non contraddizione dice questo “non posso trovarmi in errore): non ci si può trovare in errore rispetto a tale principio e non ci si può trovare in tale errore perché è per chiunque impossibile pensare che lo stesso sia e non sia cioè che allo stesso convenga e non convenga lo stesso, e questa impossibilità sussiste perché non è possibile che allo stesso convengano insieme i contrari, affermazione questa che è implicita nella negazione che allo stesso convenga e non convenga lo stesso e poiché un’opinione è contraria ossia il contrario dell’opinione contraddittoria, è impossibile pensare che lo stesso sia e non sia, appunto perché a chi si ingannasse in questo modo intorno al principio converrebbero le opinioni contrarie, ossia sarebbe un ente a cui convengono insieme i contrari. (L’impossibilità di trovarsi in errore rispetto al principio più saldo significa che esso implica che il trovarsi in errore è appunto ciò che viene negato da tale principio, è come se fosse il principio stesso a dire che, a stabilire che se non fai così sei in errore. Ora la questione qui si apre e Łukasiewicz l’ha aperta, come dire “questo che sto affermando è vero?” però qui Severino non pone più la questione come una sorta di convinzione “io sono convinto che è vero ma devo dimostrarlo” no, pone questo principio come se fosse un ente, come se fosse un qualche cosa che appare, e adesso vedremo come. Qui incomincia a parlare della connessione che è importante. Qui cita Aristotele “dire di ciò che è che non è e di ciò che non è che è, è il falso; e dire di ciò che è che è, e di ciò che non è che non è, è il vero”): In questo passo, badate bene, le espressioni “tò n” “ciò che è” e “tò m n” “ciò che non è” (il “m” è la negazione) sono anche sinonimi rispettivamente delle espressioni “eînai” “essere” e “m eînai” “non essere”, infatti il “vero” non è un carattere che compete soltanto alle affermazioni e alle negazioni esistenziali, nelle affermazioni e negazioni esistenziali “tò n” e “to m on” sono il soggetto mentre “eînai” e “m eînai” sono il predicato e dunque in esse il “vero” è dire quando un certo ente è che tale ente è, quando un certo ente non è che tale ente non è. Va rilevato che Aristotele sta alle fondamenta della persuasione essenziale dell’occidente che solo quando l’ente è, è necessario che l’ente sia e che solo quando l’ente non è, è necessario che l’ente non sia, per l’occidente è impensabile che “ simpliciter” l’ente sia, l’occidente avverte in questa persuasione la verità suprema tanto che Aristotele dicendo che la verità è affermare che l’ente è e che il non ente non è non sente neppure il bisogno di richiamare in modo esplicito che tale affermazione è la verità solo in quanto viene riferita all’ente quando esso è e non all’ente quando esso non è, che la verità sia dire che l’ente “tò n” quando esso è implica appunto come si è rilevato che “n” e “eînai” non siano sinonimi. (qui c’è una finezza che coglie Severino che Aristotele ripete, perché anche lui è nel discorso occidentale, infatti dice “per l’occidente è impensabile che semplicemente l’ente sia” io posso dire che l’ente è se l’ente è, non se l’ente non è, se no non lo posso dire. Questo dicevo è importante perché consente a Severino il dire che uno è un soggetto e l’altro un predicato, e cioè che l’ente è qualche cosa ma questo essere è ciò che si predica dell’ente e qui c’è un altro richiamo alla sua teoria di Severino e al fatto che, criticando Parmenide dice che L’Essere se è irrelato cioè se non è qualche cosa, se non è connesso con gli enti è niente e critica anche in parte Heidegger. È importante dire che l’Essere in quanto tale non c’è, è niente, se non è essere qualcosa. Cosa che invece per Parmenide non è, l’Essere è e basta, non è qualche cosa, è come una luce, un nulla di cui gli enti sarebbero i colori che danno corpo a questa luce che ci consentono di distinguere le varie cose e infatti dice): Si è incominciato a rilevare nel testo più sopra considerato “eînai” e “m eînai” cioè l’essere e il non essere che sono anche sinonimi rispettivamente di “n” e “m n”, il termine “n” sta a indicare non solo l’ente che è espresso dal soggetto nell’affermazione esistenziale ma anche, e probabilmente innanzi tutto, la connessione che è espressa da un’affermazione non esistenziale, in questo caso “tò n” significa l’essente qualcosa, qualcosa è predicato di tale essente, ciò che è qualcosa l’essere qualcosa da parte di qualcosa, l’esser p da parte di s, dove questo “esser p” è appunto la connessione più sopra nominata (qui la questione della connessione ci incomincia a dire qualcosa di più di questo “diorisms”, della “proprietà”, perché giungerà a dire che il diorisms, la proprietà che fa del principio di non contraddizione quello che è, è la connessione. La connessione propriamente tra ciò che appare e l’essere, l’essere qualche cosa, qualche cosa è qualche cosa là dove appare, dove si manifesta “phaínesthai” che è strettamente connesso con “alétheia” la verità. (poco più sotto): E pertanto stando a questa valenza del testo la frase dire che l’essente è il vero “to eînai alēthés” significa che il vero è dire di ciò che è qualcosa che esso è qualcosa, dire di qualcosa che questo è qualcosa. (L’essente è il vero, questa parolina che può essere sfuggente è emblematica, “l’essente è il vero” ma emblematica rispetto a ciò che dirà dopo e cioè ciò che appare, l’essente, la cosa): dire che s è p è connettere s e p, dire che s non è p è dividere da s p. (poi aggiunge che è nel vero chi dice che è connesso ciò che è connesso o che è disgiunto ciò che è disgiunto. Più avanti c’è una precisazione perché a questo punto la frase “è impossibile che lo stesso convenga e insieme non convenga allo stesso sotto lo stesso rispetto” ci dice che è impossibile che non ci sia una connessione là dove qualche cosa è qualche cosa.): Se qualche cosa è qualche cosa allora c’è una connessione tra l’ente e ciò che se ne predica. (appunto qualche cosa è qualche cosa, visto che sto predicando di qualche cosa l’essere qualche cosa): L’essere sempre nel vero, che è il “diorisms” essenziale di tale principio, significa dunque essere sempre un pensiero (hypolambánein) che divide e connette ciò che tale principio divide e connette, esso divide il convenire dello stesso allo stesso dal non convenire dello stesso allo stesso, e in quanto affermazione dell’identità connette il convenire dello stesso allo stesso (che è la formulazione dell’identità “convenire dello stesso allo stesso” quando io dico qualche cosa questo qualche cosa è qualche cosa, ovviamente, però qui “ovviamente” andrebbe messo tra virgolette): ma se è impossibile come si è detto nell’ultima parte (delle parti precedenti) che il pensiero falso affermi entrambi i giudizi opposti è però necessario che il pensiero falso pensi il soggetto s, s’, di ciò che è pensato nel giudizio vero, è necessario che lo pensi e lo abbia dinnanzi per potergli attribuire il predicato che in verità non gli conviene e pertanto poter essere predicato falso ed è anche necessario che tale pensiero pensi e abbia dinnanzi (qui incomincia a intervenire l’apparire) e abbia dinnanzi i predicati p non p del pensiero vero per poterli non attribuire ai concetti dei giudizi del pensiero vero, (lo ripeto perché questo è importante, cioè perché io possa pensare che una certa cosa è falsa occorre che questo qualche cosa sia qualcosa e non nulla, perché se fosse qualcosa e anche il contrario, sempre per Aristotele che Severino segue, sarebbe nulla, se non è nulla allora è qualcosa, e solo se è qualcosa posso dirne, posso negarlo per esempio, infatti dice “è necessario che lo pensi, lo abbia dinnanzi per potergli attribuire il predicato che in verità non gli conviene” (che è falso), devo averlo davanti): la verità è negazione assoluta, non limitata e non parziale della propria negazione (qui dà una definizione di “verità” molto determinata, molto precisa, ve la ripeto “verità è negazione assoluta, non limitata e non parziale della propria negazione”, questa è la verità): già da sempre la verità è negazione dell’errore e dell’errare e già da sempre nella verità appare che le determinazioni dell’errore (cioè che si strutturano come errore) hanno lo stesso significato che esse presentano nel loro essere affermate nella verità, come già da sempre nella verità appare che le determinazioni che sono contenuto dell’errare non possono essere identiche alle determinazioni della verità negate dall’errare. Łukasiewicz – Capitolo secondo – perde completamente di vista la struttura del passo della Metafisica (1500 b631) indicata nei paragrafi 2 e 3 dei capitoli precedenti cioè la relazione tra il principio più saldo e il diorisms che gli compete (infatti Łukasiewicz non parlava mai del diorisms) consistente nella necessità di essere sempre nella verità intorno ad esso cioè consistente nella necessità di esistere sempre come affermazione di esso (qui si introduce un’altra parola importante “affermazione di esso” quasi a dire che si incomincia a vedere nel principio di non contraddizione un’affermazione che afferma se stessa e che come tale non può essere negata, certo se afferma se stessa, è una tautologia. Poi incomincia a riprendere dal polacco le tre formulazioni aristoteliche del principio che sarebbero per Łukasiewicz quella ontologica, logica e psicologica. Ve le ricordate? È impossibile che la stessa cosa ad un tempo appartenga e non appartenga alla medesima cosa secondo lo stesso rispetto, poi, le affermazioni contraddittorie non possono essere vere insieme, sarebbe il principio di contraddizione logico, da ultimo quello psicologico: è impossibile per chiunque credere che una stessa cosa sia e non sia. Quelle cose che Łukasiewicz indicava come “convinzioni” lui diceva che è impossibile che uno sia convinto della stessa cosa e del suo contrario, ora) Se Łukasiewicz avesse preso in considerazione il passo avrebbe trovato non una formulazione psicologica del principio di non contraddizione ma il diorisms essenziale del principio più saldo cioè la necessità che esso sia il massimamente noto, il massimamente conosciuto, (che cosa potrebbe essere il massimamente conosciuto se non l’affermare di qualcosa che è qualcosa? L’affermarlo. Qui incomincia a mettere in discussione la questione psicologica e volgerla in questione ontologica) il massimamente noto cioè che la conoscenza di esso abbia a precedere qualunque altra conoscenza il che significa che tale principio non può essere dimostrato nemmeno qualora lo si voglia presentare nella veste di una sua formulazione psicologica, Łukasiewicz si sarebbe trovato di fronte al problema di come sia possibile che Aristotele pensando che il principio più saldo non è qualcosa di dimostrabile proceda poi alla dimostrazione della formulazione psicologica di esso (questo lo abbiamo visto ve lo ricordate? Poi considera questa sorta di contraddizione che c’è in Aristotele, da una parte dice che è dimostrabile e dall’altra vuole dimostrarlo) Il testo della Metafisica mostra l’impossibilità che nella stessa mente coesistono due convinzioni cui corrispondono giudizi contraddittori proprio perché questa coesistenza implicherebbe che nella stessa mente esistesse la convinzione e nello stesso tempo la stessa convinzione non esistesse, implicherebbe cioè qualcosa la cui esistenza è impossibile dallo stesso punto di vista di Łukasiewicz e pertanto implicherebbe l’impossibilità che una delle due convinzioni sia un atto psichico positivo affermativo dove la mente è il “chi” del passo della Metafisica ossia “chi può non pensare e anzi è necessario che non pensi quello che dice quando le sue parole negano il principio più saldo?” costui dunque parla in modo esplicito nel De Interpretazione (qui ripete cose di Łukasiewicz): osservando che la dimostrazione aristotelica del principio psicologico di contraddizione è scorretta perché presuppone una differenza di grado nella verità, nella falsità, cioè presuppone che l’affermazione possa essere più o meno vera, più o meno falsa ma Łukasiewicz si lascia trarre in inganno dalle formule del De Interpretazione dove già era stata anticipata la scorretta interpretazione che ne dà Łukasiewicz, ripetiamo quindi: per Aristotele l’opinione che ha come contenuto il giudizio il cui predicato è il contraddittorio del soggetto cioè “il bene non è bene” “il bene è non bene” è più falsa dell’opinione che ha come contenuto il giudizio il cui predicato è il contrario del soggetto “il bene è male”, ma quando Aristotele si esprime in questi termini intende dire che è il primo di questi due giudizi a stabilire la distanza massima rispetto al giudizio cioè il “bene è bene” di cui esso è negazione ossia è il primo di questi due giudizi che per sé stabilisce quella distanza mentre il secondo “il bene è male” è negazione per accidente ossia è negazione sul fondamento della negazione che è tale per se stessa, la quale è appunto il primo dei due giudizi sicché il secondo risulta meno falso del primo appunto perché ha nella falsità del primo il fondamento della propria falsità (questo è importante perché qui incomincia a parlare di fondamento della propria falsità dire che il “bene è male”, in che senso sta dicendo Severino, in che senso è meno vero? Perché trae dal primo che è per sé cioè il “bene è bene” la propria falsità, quindi c’è un “primo che è per sé” che è bene dal quale poi è possibile procedere dicendo che il “bene è male”, ma questo non è un giudizio psicologico dice Severino, infatti in base a questa maggiore e minore falsità del giudizio Aristotele può parlare della maggiore o minore falsità delle opinioni corrispondenti intendendo il loro esser false per sé o per accidente, cosa che Łukasiewicz non aveva mai considerato) nel De Interpretazione: le considerazioni intorno alla falsità per sé e per accidente dell’opinione e del giudizio sono precedute da considerazioni analoghe sulla verità per sé e per accidente dell’opinione e del giudizio che ne è il contenuto, nella quale si afferma che il giudizio vero in cui il predicato è identico al soggetto “il bene è bene” (tautologia) questo è vero per sé mentre il giudizio vero in cui predicato è la negazione contraria al soggetto “il bene è non male” è vero per accidente poiché al “bene” accade di essere “non male”, sicché il giudizio che è vero per sé è più vero del giudizio per accidente, su questa base Aristotele parla della maggiore o minore verità delle convinzioni corrispondenti a tali giudizi (e quindi in modo totalmente differente da Łukasiewicz, perché parla di verità per sé e verità per accidente non più o meno vero, che è diverso.