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10-8-2006

 

Intervento: dalla Fisica… si leggono alcune parti del testo

Noi giungiamo a questo: che è possibile, ma non dimostrabile, qualcuno può affermare una cosa del genere ma non è provabile…

Intervento:…

No, partendo da una premessa che è discutibile e cioè che se qualcosa si muove allora ce n’è un’altra che la muove, dando questo come assoluto, come necessario che sia, mentre è soltanto un gioco linguistico, non significa niente, così come quando diciamo che non c’è un prima senza un dopo, non sono entità ontologiche…

Intervento: non mi sembra che Aristotele le ponga assolutamente come entità, a lui servono per fare un certo gioco…

Si può accogliere Aristotele o lo si può confutare, a piacere, non è questa la questione, quanto intendere come un assunto come quello da cui lui parte, e da cui procede tutta la sua dimostrazione in realtà è soltanto una regola che lui stabilisce, ma non c’è nulla di necessario, che una cosa che si muova abbia necessariamente una cosa che la muove non significa nulla fuori da quel gioco, se invece si suppone che necessariamente, se una cosa è mossa allora qualcosa la muove e non può essere altrimenti, allora si scambia quel gioco e cioè un’affermazione arbitraria, come se fosse necessaria, con tutto ciò che ne segue. La questione del movimento e della quiete molto ha dato da fare ai filosofi, ancora prima di Aristotele…

Intervento: non è questo che interessa in un testo come quello di Aristotele, interessa l’impianto logico e come si possano portare le proprie affermazioni all’assurdo, era questo che mi interessava… e quindi è utile la lettura di Aristotele per l’analista della parola…

Già, l’analista della parola, in teoria non sarebbe neanche necessario leggere Aristotele, occorre che lo leggiamo, come l’abbiamo letto per potere dare delle informazioni o propriamente essere in condizioni di leggerlo in modo critico, cioè non ingenuo, muovendo immediatamente delle obiezioni, questo non toglie nulla al piacere di leggere un testo, per il modo in cui argomenta, raramente si va al di là di questo, dicevamo l’altra volta che l’analista della parola è il linguaggio, potremmo precisare meglio, è il linguaggio che pensa se stesso, questa è la sua posizione propriamente, ora funzionando in questo modo e cioè come il linguaggio che pensa se stesso fa esattamente, nei confronti dell’analizzante, ciò che fa il linguaggio che pensa se stesso e vale a dire: 1) che il discorso si fermi e cioè che una persona, un discorso, si arresti su qualche cosa che crede essere vero, necessariamente vero, e sostituendo questa necessità con l’arbitrarietà, e cioè giunge a concludere che non è quindi una cosa vera ma è vera all’interno di quel gioco, quindi inserendo la verità all’interno del gioco che la fa esistere e funzionare.

2) essendo il linguaggio che pensa a se stesso continua a fare ciò che fa il linguaggio e cioè a costruire proposizioni, sapendo che la costruzione di tali proposizioni ha l’unico fine di continuare a parlare cioè di continuare a costruire proposizioni e quindi discorsi e sa, perché non può non sapere, che questo è l’unico scopo, non ce ne sono altri.

Trovandosi in questa posizione, quella del linguaggio che pensa se stesso, l’analista della parola fa in modo che il discorso che ascolta, cioè della persona che sta parlando con lui, giunga a questo: che diventi un discorso fatto da un linguaggio che pensa se stesso anziché un linguaggio che non è in condizioni di pensare se stesso, è questo che deve fare, questo è il suo compito, nient’altro che questo, costringere il linguaggio a pensare a se stesso. Dicevamo la volta scorsa che il metodo che utilizza per ottenere questo risultato è quello di impedire al discorso di fermarsi, anche in ciò mostra ciò di cui è fatto l’analista della parola, cioè di linguaggio che impedisce al discorso di fermarsi, un linguaggio che pensa a se stesso, perché gli impedisce di fermarsi? Perché sa benissimo che ciò che ha raggiunto non è la verità, è soltanto un vero all’interno di un certo gioco ma che non impedisce affatto di giocare e di pensare altri giochi, per questo il discorso dell’analizzante inizia a non fermarsi, più perché non trova più la verità o meglio non crede più, non ha più la necessità di credere che ciò che ha trovato sia la verità, è soltanto un vero all’interno di un certo gioco e quindi dipendente unicamente dalle regole di quel gioco; è chiaro che questo percorso giunge poi a determinare, a individuare la verità al momento in cui si accorge che qualunque cosa è un elemento linguistico e pertanto inserito all’interno di un gioco linguistico. Se l’analista della parola si attiene al linguaggio e alla sua struttura e cioè si pone effettivamente come il linguaggio che pensa se stesso, allora non può in nessun modo sbagliare, così come il linguaggio non può sbagliare, non può sbagliare nel senso che è lui stesso che costruisce le condizioni per potere pensare lo sbaglio per esempio, quando invece il discorso “sbaglia” fra virgolette? Quando è sorretto dal linguaggio che non pensa se stesso e allora accoglie indiscriminatamente e inopinatamente qualunque conclusione gli appaia vera all’interno di quel gioco scambiandola per una verità assoluta e muovendosi di conseguenza, e cioè costruendo altri discorsi in conseguenza di questo. Ciò che deve sapere in realtà non è nient’altro che questo: come funziona il linguaggio e di conseguenza come non possa fare altrimenti, che altro deve sapere? Il discorso che ascolta è fatto di linguaggio, costruito dal linguaggio, se sa come funziona il linguaggio sa come viene costruito e anche perché, che questo discorso costruisca una cosa anziché un’altra, una fobia, un’angoscia o una depressione questo è assolutamente indifferente, sono soltanto sequenze di proposizioni costruite con l’unico scopo di proseguire, anche se la persona in quel momento non se ne accorge ovviamente né sa nulla di tutto ciò, però è quello che sta facendo e l’analista lo sa, se lo sa ovviamente non da alcun peso al contenuto dei drammi interiori ed esteriori che vive la persona, l’unico obiettivo come abbiamo appena detto è fare in modo che il discorso che ascolta sia sostenuto, sia costruito da un linguaggio che sia in condizioni di pensare se stesso, come ho detto in fondo è tutto qui, dicevamo anche che deve stare al suo posto certo, e il suo posto è questo, quello del linguaggio e il linguaggio che pensa a se stesso costringe a pensare in un certo modo, non invita né suggerisce, ma costringe, perché ha la forza costrittiva, cogente e inarrestabile della una verità assoluta. Sa che il linguaggio essendo fatto nel modo in cui è fatto, e cioè dovendo necessariamente concludere con qualcosa che risulti vero, sa che tutto quanto è retto, è appoggiato a un’unica verità che non può essere nient’altro che quella che costruisce il linguaggio, cioè quella che è costruita da un criterio che è fatto della struttura del linguaggio, per cui se doveste pensare a che cosa fa, che cos’è un analista della parola, non è nient’altro che il linguaggio che pensa se stesso, con tutto ciò che ne segue, e ciò che ne segue abbiamo detto poc’anzi, sa che l’unica necessità è che il linguaggio prosegua, perché qualunque cosa si costruisca è fatta in virtù di questa necessità, comunque, sia la tragedia più lacrimosa, sia l’entusiasmo più acceso sono costruiti dal linguaggio al solo scopo di proseguire, cioè costruire proposizioni, quando fa questo il linguaggio è soddisfatto. In definitiva formare un analista della parola non è altro che formare il discorso di cui è fatto nel linguaggio che pensa se stesso. La volta scorsa dicevamo come fare questo, vediamo se possiamo aggiungere qualcosa, abbiamo, con quello che ho detto adesso, in un certo senso formalizzata la figura dell’analista della parola dando a questa figura uno statuto logico ben preciso dicendo che è il linguaggio che pensa se stesso, cosa significa dire “il linguaggio che pensa se stesso”? Significa porre il linguaggio all’interno di una struttura teoretica e cioè intendere quali sono le condizioni perché il linguaggio possa funzionare, condizioni che ovviamente sono all’interno del linguaggio stesso, non possono essere altrove. Dunque significa questo: considerare quali sono le condizioni all’interno del linguaggio che fanno funzionare il linguaggio. E la via è grosso modo quella che abbiamo detta la volta scorsa, cioè mostrare di volta in volta che il discorso non si arresta, mostrare che c’è un’altra direzione da prendere altrettanto vera, in fondo sono giochi linguistici, è sempre possibile costruire un’altra direzione che risulti altrettanto vera. L’ostacolo contro cui ci si trova è lo stesso ostacolo che si incontra nelle conferenze, noi proponiamo qualche cosa che le persone non sono avvezze a considerare e allora il loro discorso trova una soddisfazione nel pensare che le cose che andiamo dicendo sono false, non potendolo provare ovviamente che lo siano, ma persuadendosi intimamente che ciò che diciamo non è vero, e con questo il loro discorso è soddisfatto; non c’è nessuna prova, nessuna dimostrazione ma il loro discorso non ne ha nessun bisogno, assolutamente nessuno: sembra che ciò che si ascolta non collimi con ciò che si sa essere vero, dunque ciò che si ascolta è falso, questa è la procedura più corrente. Nessuno viene addestrato a interrogare le cose e ad esporle a un criterio verofunzionale, se non quello dell’osservazione, come diceva prima Beatrice leggendo Aristotele, è inverosimile che le cose non si muovano perché l’osservazione ci mostra che si muovono. Di fronte a questo, cioè l’osservazione, poiché è posta come criterio ultimo di verifica delle cose non c’è argomentazione sufficiente, è la stessa cosa che avveniva molti secoli fa rispetto a dio, qualcuno poteva mettere in discussione certi dogmi della chiesa ma nessuno metteva in dubbio l’esistenza di dio, questo non era neanche pensabile: dio esiste perché esiste, e così il movimento c’è perché lo vedo. Non è difficile per noi smantellare questo criterio logicamente, però si urta contro le superstizioni, si urta molto spesso contro qualcosa che è molto simile a un fanatismo religioso nei confronti del quale non c’è argomentazione logica che tenga, è impossibile, per cui si tratta ovviamente di incominciare a lavorare con alcune persone che sono disponibili a mettere in discussione qualcosa, diciamo con le persone un po’ meno religiose. Tempo fa dicevamo che il discorso si difende, è provvisto di sbarramenti contro, per esempio, ciò che noi andiamo dicendo, è vero fino ad un certo punto, non si tratta propriamente di sbarramenti anche se funzionano come tali, ma la questione è che un discorso deve trovare immediatamente un appiglio che risulti vero per cui se ciò che si ascolta appare essere falso allora ciò che io penso di conseguenza è vero, e bell’e fatto, se ciò che ascolta appare essere falso allora la falsità di ciò che ascolta, l’apparente falsità di ciò che ascolta conferma e conforta le cose che pensa, appare falso rispetto alle cose che io immagino di sapere o credo di sapere, per cui l’operazione che viene compiuta è molto semplice: ciò che ascolto appare essere falso quindi quello che penso io è vero…

Intervento: tante volte ne traggono una conferma del loro sapere…

Può accadere anche questo certo, se ciò che ascolto è assolutamente inverosimile allora ciò che io penso è assolutamente giusto…

Intervento: le persone vanno a sentire qualunque cosa e cercano qualche cosa di vero, almeno viene enunciato in questo modo… che cos’è questo qualcosa che si va cercando? Non è nient’altro che quello che si pensa rafforzato… oppure che qualcuno possa confermare quello che pensa… e come dicevamo prima se qualcosa è per lui palesemente falso, allora diventa palesemente vero ciò che lui pensa… però ci sono alcuni che cambiano religione per cui mettono in gioco un certo loro sapere… dimostrare che ciò che io penso è vero…

Mantiene saldi i presupposti che consentono di credere in una religione e cioè che ci sia un’entità superiore per esempio. Generalmente si cambia religione perché si suppone che quell’altra mantenga gli stessi principi ma li difenda con maggiore forza, perché molti islamici che di per sé non sarebbero così bellicosi diventano terroristi? Perché immaginano che questi gruppi sostengano sempre gli stessi principi, ma con forza maggiore, li impongano con maggiore forza, in genere è sempre una ricerca di integralismo, di fondamentalismo, cioè ritornare ai principi forti della religione, che invece quella attuale ha abbandonato, ritornare alle origini, che sono più salde, più forti. Sapere come funziona il linguaggio ci da la misura del come e del perché le persone si oppongano a qualcosa che presenta di fatto una costrizione logica, quindi non dovrebbe in realtà comportare nessun problema al suo immediato accoglimento, ma funziona un po’ così come se noi mostrassimo l’immobilità delle cose mentre ciascuno osserva che invece si muovono, noi non sosteniamo l’immobilità delle cose ovviamente, non ce ne importa nulla ma sosteniamo che qualunque cosa è un elemento linguistico e questo urta contro ciò che per i più è l’evidenza delle cose, per cui se Cesare è Cesare, è Cesare, e non un elemento linguistico. La persona non sa né cosa sia Cesare né cosa sia un elemento linguistico, vede, immagina che siano entità diverse e non possono essere la stessa cosa. Questo in base ad alcuni criteri stabiliti dalla filosofia antica che l’essere è, ed è quello che è, non può essere altro da sé, ora naturalmente basta decidere di volta in volta che cosa è quella cosa e le conseguenze vengono da sé…

Intervento: le persone non sanno che è una decisione del proprio discorso…

Non lo sanno e non lo possono neanche sapere perché il linguaggio che supporta il discorso di queste persone non pensa a se stesso, perché non ha bisogno di pensare se stesso per funzionare, non si preoccupa minimamente di questo e l’immediata conseguenza è che crede vera qualunque cosa, e si muove di conseguenza. Gli umani credono in un dio, o in una fede politica, se una persona crede in un dio può credere qualunque cosa e il suo contrario, proprio per la struttura del discorso in cui si trova, cioè può credere qualunque cosa perché non ha bisogno di nessuna prova, quindi qualunque cosa è vera, anche l’esistenza di un dio che avrebbe creato gli umani, a che scopo? Quello di farsi ammirare e adorare, oggi uno così si considererebbe che ha dei problemi, se l’unico obiettivo della sua esistenza fosse quello di farsi adorare, qualunque bravo psicologo direbbe che ha dei problemi e invece ci sono sei miliardi di persone che lo adorano, e questo dà da riflettere.