10 luglio 2024
Plotino Enneadi
Plotino continua a fare la stessa cosa, ormai lo si vede con estrema facilità: mantenere separate le cose in modo che l’Uno non sia contaminato da nulla. L’Uno serve a giustificare qualunque cosa, perché nell’Uno c’è la verità, c’è l’ordine, quindi c’è la possibilità di parlare. Tutto procede dall’Uno, procede per processione, per cui non è dedotto dall’Uno né indotto dall’Uno, ma, procedendo dall’Uno, lascia l’Uno esattamente così com’è, immobile, identico a sé, inamovibile. In fondo, quello che sta dicendo Plotino è che l’Uno consente di parlare, perché parlando c’è la necessità di unificare. Unificare attraverso l’induzione, come sappiamo è quella che unifica, e cioè costruisce l’universale. Questo universale è quello che serve per parlare, lo diceva Aristotele chiarissimamente. Quindi, unificare significa che c’è un universale, quindi c’è una verità, quindi possiamo parlare. E possiamo parlare perché affermando cose noi ci richiamiamo naturalmente a un qualche cosa, che non si vede, che non c’è, ma che tuttavia consente di affermare ciò che si afferma. In assenza di quello le cose si dissolvono all’istante mentre si parla e, quindi, non si può parlare, occorre qualcuno, qualcosa che le fermi. Quindi, ciò che sta dicendo Plotino è che per pensare, per parlare, ecc., è necessario l’Uno. Ora però c’è una differenza tra l’Uno come ipostasi e l’universale, di cui ci ha parlato Aristotele negli Analitici secondi. Questa differenza è determinante, ed è quella cosa che distingue, o meglio, diciamola così, che dà la possibilità di imporre una verità, nel caso dell’ipostasi, oppure non dà questa possibilità, nel caso di Aristotele, perché, come sappiamo, l’universale è fatto di credenze, di ciò che si pensa, di ciò che si immagina, ecc. Quindi, potremmo anche dire così, che questo tendere, questo volere tornare all’Uno, di cui parla continuamente Plotino, è la necessità, parlando, di unificare per potere parlare. Potremmo anche aggiungere che unificare è volontà di potenza. La volontà di potenza consiste nel voler unificare, nell’unificare. Non riesce naturalmente, ecco quindi immediatamente il depotenziamento, diceva Nietzsche, per cui occorre subito darsi da fare e trovare un altro ente da dominare. Cosa che gli umani fanno ininterrottamente. Unificare, cioè ricondurre a Uno, perché lì – questo è Plotino – sta la verità assoluta, e le cose naturalmente vogliono tornare all’Uno perché lì c’è il Bene assoluto. È come se dicesse che le cose vogliono tornare alla verità assoluta, vogliono che ci sia questa verità assoluta per potersi affermare. E questo ha contribuito in buona parte al successo di Plotino: le persone vogliono che ci sia questa verità assoluta, lo vogliono fortissimamente. Ma perché sia una verità assoluta, questo lo insegnava già Platone, non deve essere una verità di quaggiù, deve essere una verità che sta lassù. Solo allora può rimanere immutata e identica a sé e, quindi, offrirsi a questa funzione di essere il riferimento di tutti. Dicevamo l’altra volta: le cose possono essere in un modo o in un altro, non importa, ma in un modo devono essere. Da qui la necessità di Plotino di mantenere l’Uno, ma poi di tutta la teologia, perché qui con Plotino stiamo facendo teologia, né più né meno, nell’accezione antica del termine, cioè di metafisica. Ci occuperemo dei teologi, perché i teologi si sono occupati del pensiero. Occuparsi di teologia, in questa accezione, significa occuparsi del pensiero, né più né meno, perché il pensiero, direbbe Plotino, procede, sì, dall’Uno, ma in ogni caso possiamo dire che ha bisogno di un riferimento a una verità per potere affermarsi, sennò non può affermarsi. Sta qui l’ambiguità che ha consentito ai teologi medievali di fare quel lavoro enorme che hanno fatto, dai primi fino ad arrivare a Ficino, Cusano, ecc. Ma perché questa cosa funzioni, è necessario mantenere separate le cose, separato l’Uno da qualunque cosa. L’Uno è identico a sé, ma differente da qualsiasi altra cosa. Ma, allora, è identico e anche differente? Questo non deve accadere. Ma, dicevano, l’Uno è al di sopra, è sempre e comunque al di sopra di qualunque opposizione. Uno potrebbe chiedere: perché? Perché l’Uno è sempre al di sopra di tutto? Perché altrimenti non sarebbe l’Uno, non sarebbe Dio. Cioè, noi diamo la definizione di Dio, dopodiché, in base a questa definizione, traiamo tutte le deduzioni, senza naturalmente mettere più in discussione il punto di partenza, la premessa maggiore. Quindi, la processione, che sarebbe quella cosa che si è inventata Plotino perché non poteva dire che l’intelletto è dedotto o indotto dall’Uno, perché sennò non sarebbe più identico a sé, ma sarebbe in relazione a…, mentre l’uno è irrelato, totalmente. C’è, quindi, la necessità di tenerlo separato da ogni cosa, è questo che fa Plotino. La processione è una sorta di contemplazione: l’Uno, contemplandosi, rende realtà i propri pensieri. Questo lo diranno poi i teologi medievali: perché le cose sono? Sono perché Dio le pensa, queste cose non sono altro che il pensiero di Dio che si attua; pensando questa cosa, questa cosa è; non “c’è” ma “è”. Attraverso questa contemplazione l’Uno, contemplandosi, produce tutto, produce l’Intelletto, produce l’Anima, la quale Anima poi produrrà tutte le cose che ci sono nel mondo, attraverso l’Intelletto, attraverso una ragione, perché non può essere senza ragione. Quindi, la ragione c’è, anzi, l’Uno è il principio di ragione in assoluto, è la ragione di ogni cosa, che sta al di sopra di ogni cosa. L’Anima è un’altra questione importante in Plotino, perché l’Anima è quella cosa che genera tutti gli esseri; questa Anima partecipa di tutte le cose, quindi è in tutte le cose, e quest’Anima è una, deve essere una perché procede dall’Uno e anche l’Anima procede dall’Uno. Ma se va in tutte le cose, poi si frammenta. Di nuovo, come vedete, è sempre lo stesso identico problema dell’uno e dei molti, che c’è nell’Uno, c’è nell’Intelletto, c’è nell’Anima. Come risolvere la cosa? Così come l’ha risolta rispetto alla sostanza. C’è una sostanza, di cui parla Aristotele, che era una sostanza fatta, sì, dalle categorie, ecc., ma c’è un’altra sostanza che sta lassù e che, invece, non è modificata dalle categorie.
Intervento: la sostanza di Spinoza…
È una cosa che hanno ripreso un po’tutti quanti da Plotino in poi; sulle Enneadi di Plotino hanno costruito tutti i sistemi filosofici. A pag. 519. Poiché la contemplazione procede dalla natura all’anima e dall’anima all’intelligenza... Dalle cose, le quali contemplano che cosa? La loro origine, perché è un processo ascensionale, e diventa sempre più affine ed unita al contemplante, poiché nell’anima virtuosa l’oggetto conosciuto diventa identico al soggetto in quanto essa aspira all’Intelligenza, è evidente che nell’Intelligenza soggetto e oggetto sono una cosa sola, non per un’affinità acquisita, come nelle anime migliori, ma essenzialmente in quanto “essere e pensare, sono la stessa cosa”. Riprende il detto famoso di Parmenide, sempre a modo suo, a seconda di come gli conviene. Essere e pensare sono la stessa cosa, certo, per l’Uno, per il Dio, ed è questo che hanno sempre sostenuto i teologi: Dio pensa e ciò che pensa è, diventa qualcosa, è reale. A pag. 521. Perché l’Intelligenza non contempla un unico oggetto. Infatti. anche quando contempla l’Uno, non lo contempla come uno; altrimenti l’Intelligenza non sarebbe generata. Quindi, non lo contempla come Uno. Ma cominciando come una, non rimane come ha cominciato, ma diventa inconsciamente multipla, come gravata dal sonno, e dispiega se stessa per il desiderio di possedere tutto… Perché dovrebbe desiderare di possedere tutto? Perché, Plotino ce lo ha spiegato, ogni cosa, procedendo dall’Uno, tende a tornare all’Uno. Ecco, quindi, che desidera tornare là da dove arriva. … meglio sarebbe stato però per lei non volere ciò, poiché in questo modo essa è diventata il secondo principio -, simile a un cerchio, che dispiegandosi diventa una figura, una superficie, una circonferenza, un centro dei raggi, un alto e un basso; migliore è il luogo donde partono i raggi, peggiore quello a cui tendono. Perché si allontanano dal centro, quindi dall’Uno. Infatti, il centro non equivale al centro e alla circonferenza insieme, e centro è circonferenza non equivalgono al centro da solo. In altre parole, l’Intelligenza non è Intelligenza di una cosa sola, ma è Intelligenza universale e quindi anche di tutte le cose. Perché procedendo dal centro si irradia. Tale è l’Intelligenza. Per questo motivo essa non è al primo posto, ma è necessario che al di là di essa ci sia una realtà, sulla quale si sono svolti i precedenti discorsi. Cioè, l’Intelligenza ha bisogno di una realtà superiore che la garantisca. Come se uno dicesse: io sono intelligente. Sì, va bene, ma in base a che cosa? C’è sempre bisogno di una garanzia perché ciò che si afferma sia vero, perché possa essere affermato. Il problema è che se questo qualcosa ha a che fare con la doxa, non lo posso imporre, come diceva Aristotele. Se, invece, sta lassù e io riesco a convincere tutti quanti che questa cosa che sta lassù è meravigliosa, è il Bene assoluto, ecc., ecco che il gioco diventa più semplice. Questa è l’Intelligenza e l’intelligibile insieme e perciò sono due. Sarebbe quella cosa che diceva prima: soggetto e oggetto, Intelligenza e intelligibile, diventano una cosa sola. E poiché sono due è necessario che ci sia un principio anteriore alla dualità. Questa è la cosa che compare ininterrottamente: se c’è un due, necessariamente deve esserci un uno che li domina, che li governa; perché i due, da soli, posso costituire un problema. Ma se questi due non vengono ricondotti a uno, allora uno e due rimangono in opposizione, permane un’opposizione. Questa opposizione deve essere ricomposta, ricondotta all’uno. Che è poi quello che fa anche il pensiero quando si pensa una qualunque cosa, anche quando ci troviamo di fronte a un dilemma, tendiamo a sceglierne uno. Dunque, dice che occorre che ci sia un principio. Quale principio? La pura Intelligenza? No, all’Intelligenza è sempre congiunto, l’oggetto intelligibile… Quindi, l’Intelligenza non è già più come l’Uno. L’intelligenza si sdoppia fra l’Intelligenza e l’intelligibile, cioè, il suo oggetto. …ma si dovesse eliminare questo oggetto, l’Intelligenza non sarebbe più tale. Se dunque non è Intelligenza ma è al di sopra della dualità, necessariamente sarà un termine anteriore alla dualità e al di là dell’Intelligenza. A pag. 523. Infatti, poiché la conoscenza delle cose al luogo mediante l’Intelligenza e mediante l’Intelligenza si può conoscere un essere pensante, con quale immediata intuizione si può afferrare ciò che è aldilà della natura dell’Intelligenza? Sono sempre domande che si fa lui. Bisogna rivelarlo per quanto sia possibile: e lo faremo mediante ciò che in noi assomiglia a questo principio. Secondo lui tutti quanti veniamo dall’Uno e, quindi, c’è comunque un qualche cosa dell’Uno in noi. Infatti, anche in noi c’è qualcosa di esso; e non c’è cosa in cui esso non sia e che non ne partecipi. E poiché è ovunque, ciò che la può accogliere, accostandosi a lui in qualsiasi luogo lo accoglie. Il famoso accoglimento nell’Uno. Così, quando un suono riempie lo spazio, ogni uomo che si trovi in un punto qualunque dello spazio riceverà interamente il suono, benché tutto veramente non lo riceva. Questi sono gli esempi che fa lui per supportare. Se si suppone che l’Uno sia tutte le cose, o esso sarà tutte le cose prese una per una, o sarà tutte le cose insieme. Se è tutte le cose riunite insieme, esso sarà posteriore ad esse; se è anteriore ad esse, differirà ad esse; ma se è assieme ed eguale a tutte le cose, non sarà principio? Dunque questo sarebbe la confutazione del detto di Eraclito. È necessario che esso sia principio e sia anteriore a tutte le cose, affinché tutto venga dopo di esso. Lui decide che tutto quanto deve venire dopo di l’Uno, dopodiché trova tutte le giustificazioni. Se fosse ogni cosa singolarmente, ogni cosa sarebbe identica a qualsiasi altra, poiché tutte le cose sarebbero confuse insieme e nulla le distinguerebbe. Perciò l’Uno non è alcuno degli esseri, ma è anteriore a tutti. Che cos’è dunque? L’Uno è la potenza di tutte le cose; se esso non fosse nulla esisterebbe, né l’Intelligenza, né la Vita prima, né la Vita universale. Ciò che è al di sopra della vita è causa della vita; l’attività della vita, che è tutte le cose, non è la prima, ma scaturisce da esso come da una sorgente. /…/ Perciò si risale sempre a un’unità. E per ogni cosa c’è un’unità a cui bisogna risalire... Qui lui gioca sul fatto che – cosa che gli umani hanno sempre pensato, in fondo – per prendere una decisione devono unificare: per conoscere qualche cosa devono unificare e, quindi, ha soddisfatto questa esigenza, che esisteva da molto prima di lui, naturalmente. La differenza tra Plotino e tutti gli altri è che lui pone questa unificazione come il desiderio di tutte le cose, che sono state processate dall’Uno, di ritornare all’Uno. …e ogni essere si conduce all’unità che è prima di esso, ma che non è ancora l’Uno assoluto, finché poi si arrivi all’Uno assoluto; ma questo non rimanda più a nessun altro. E come se pensasse di avere risolto il problema di Aristotele della Metafisica, il principio primo. C’è una causa, sì, ma che cosa produce questa causa? Questa altra causa è quella a cui si risale, ma fino a che punto? Aristotele si accorge a un certo punto che è inutile andare oltre, perché si tratta soltanto di doxa; mentre Plotino, no, non vuole assolutamente che sia così: si risale e il fatto di risalire, secondo lui, è la “dimostrazione” dell’esistenza dell’Uno, perché si tende, ciascuno tende naturalmente a unificare, a risalire nelle cause alla prima causa, quindi ci deve essere una causa prima. Questa è la sua argomentazione: c’è una causa, un Uno al di sopra di tutto. E ancora: poiché l’Intelligenza è visione e visione veggente, essa è potenza che è passata all’atto. Avrà dunque una materia e una forma, poiché una visione in atto le implica ambedue; prima di vedere in atto essa era uno. L’uno poi è diventato due e i due sono uno. Alla visione del senso la perfezione e il compimento derivano dall’oggetto sensibile, alla visione dell’Intelligenza il compimento deriva dal Bene. Qui ha sfiorato la cosa che più lo spaventa. Dice: l’uno poi è diventato due, e poi il due che diventa uno. È una tragedia inimmaginabile. E allora, ecco, subito corre ai ripari, perché lui pensando incontra certi problemi. Anche Aristotele li incontra, solo che, mentre Aristotele questi problemi li mette a tema, li problematizza, e si accorge che non hanno soluzione, invece Plotino li incontra ma li risolve immediatamente attraverso l’Uno, che risolve sempre tutto, è il deus ex machina. Quindi, di nuovo due visioni. Plotino, che deve sempre ricondurre all’Uno, si trova sempre di fronte al due, quindi di fronte alla necessità di stabilire che questo due, in realtà, è tale per via dell’Uno che li domina tutti e due; ma questo due lo incontra continuamente. Di nuovo, qui la visione sensibile è quella dei molti; poi, c’è un’altra visione, che invece è la visione che sta lassù, che invece è una. La stessa cosa, come abbiamo visto prima rispetto all’Intelligenza e prima ancora rispetto alla sostanza: ce ne sono due, perché non riesce a togliere questa opposizione, in nessun modo; la ritrova ovunque. Lui vede questa opposizione, dice che questa opposizione c’è grazie all’Uno, perché è lui che la fa esistere. Come diranno poi i teologi nel Medioevo: ci sono le contraddizioni, le opposizioni, certo che ci sono, ma è Dio che le vuole, perché in Dio queste opposizioni non ci sono; lui le fa esistere, ma in lui non ci sono. A pag. 527. Il Bene ha dato una traccia di sé all’Intelligenza veggente. Perciò nell’Intelligenza c’è un desiderio ed essa sempre lo sempre desidera e sempre ottiene, mentre il Bene nulla desidera. L’Uno non può desiderare, se desidera vuol dire che gli manca qualcosa, ma questo non è previsto. Infatti, che cosa desidererebbe? E nemmeno ottiene alcunché, poiché nulla ha desiderato. L’Uno non desidera niente. E come chi contempla il cielo e vede gli astri brillare pensa e cerca il loro Creatore, così chi ha contemplato, veduto e ammirato il mondo intelligibile, deve ricercarne il creatore e chiedersi chi abbia fatto esistere questo mondo e dove e come sia Colui che ha generato un figlio come l’Intelligenza, bello e perfetto, che ha tratto la sua pienezza dal Padre. Dice che chi ha visto il creato deve domandarsi chi l’ha fatto. E non come fa Democrito che pone il tutto così per caso, no, deve esserci una ragione. Ogni cosa è perfetta, perché Dio l’a voluta così e quindi è perfetta, quindi ciascuno non può, osservando tale perfezione, non pensare a un Dio creatore; anzi, deve pensarlo. Questi (il Padre) non è né l’Intelligenza né la pienezza, ma è anteriore all’Intelligenza e alla pienezza; ambedue sono dopo di lui, bisognosi di saziarsi e di pensare. Sono vicine a lui che di nulla abbisogna, nemmeno di pensare. Forse stupido amore come. Sono vicini a lui, che di uno ha bisogno e hanno la vera pienezza e hanno la vera pienezza e il vero pensiero poiché lo posseggono in modo immediato. Possedere in modo immediato significa sentire la cosa; quindi, non acquisirla per argomentazioni, per deduzioni, induzioni, ecc., ma sentirla immediatamente dentro di sé, non mediata, quindi non mediata dal linguaggio, non mediata, appunto come dicevo, da argomentazioni. Le argomentazioni si possono discutere, se invece lo sento dentro, è vera. Prima di loro c’era il Principio che né abbisogna né possiede; altrimenti non sarebbe il Bene. A pag. 533. E perché egli (l’Uno) non soltanto è ovunque, ma anche non è in nessun luogo? Perché sappiamo che l’Uno è dappertutto, ma non possiamo dargli un luogo. Perché necessario che l’uno sia prima del Tutto. È necessario che egli riempia e produca tutto, ma non sia il Tutto che egli produce. Ecco, questa è la “forma” che lui dà, forma tra virgolette perché lui l’Uno non ha forma naturalmente. Enneade numero 4. Qui Plotino parla dell’Anima. L’Anima è importante, perché l’Anima è quella che produce tutto, tutti gli esseri viventi, i materiali, ecc. È l’Anima che produce, non è l’Uno, cioè, l’Uno produce indirettamente, in quanto produce l’Intelligenza, la quale intelligenza, poi, sempre per processione, produce l’Anima. Cioè, c’è un Uno che è l’assoluto; questo Uno assoluto ha un’Intelligenza; questa Intelligenza non è altro che ordine, ordine nelle cose, è lui che dà questo ordine. Questo Uno e questa Intelligenza, sempre per la processione, producono l’Anima, che è quella che letteralmente anima le cose, dà vita alle cose, perché l’Uno e l’Intelligenza non danno vita alle cose, ci vuole l’Anima; infatti, l’animale si chiama così perché ha l’anima, perché è animato. Quando noi facemmo le nostre indagini sull’essenza dell’anima, abbiamo mostrato che essa non è un corpo e che, fra gli esseri incorporei, non è nemmeno armonia; abbiamo rifiutato il concetto di entelechia, poiché nel senso in cui è presentato, non è vero e nemmeno apporta chiarezza sull’essenza dell’anima;… Non era questo che intendeva Aristotele quando parlava di entelechia, era tutt’altra cosa. Però, il fatto che si senta in dovere di affermare che rifiuta il concetto di entelechia non è del tutto marginale, come dire: lui rigetta l’eventualità che un elemento coesista con l’altro, si co-appartenga con quell’altro, senza un Uno che li unifichi. …quando dicemmo che essa è di essenza intelligibile e appartiene a una sorta divina, abbiamo detto forse qualcosa di esatto sulla sua essenza. È tuttavia necessario procedere oltre. Noi abbiamo distinto allora la realtà in sensibile e intelligibile… Sensibili sono le cose, intelligibili sono i pensieri. …abbiamo assegnato l’anima a quella intelligibile. Quindi, l’Anima non è sensibile, non è una cosa. Sia dunque assodato che essa appartiene alla realtà intelligibile… Cioè: abbiamo deciso che appartiene all’intelligibile. Come assodato? Ha appena detto che l’ha deciso lui …e, per un altro cammino, indaghiamo su ciò che è veramente intimo alla sua natura. A pag. 549. …questa natura che è insieme divisibile e indivisibile… L’Anima è in tutti i corpi, quindi, è come se si frammentasse in tanti corpi, ma al tempo stesso deve essere una. È sempre preso da questo problema dell’uno e dei molti, che si risolve sempre esattamente alla stessa maniera. C’è un’Anima che sta lassù e che è una, e una che sta quaggiù, che invece è quella che va un po’ di qua, un po’ di là. Non ha trovato un’altra soluzione. Naturalmente, queste due, sia quella che è una, sia quell’altra, molteplice, sono tutte dipendenti dall’Uno che unifica ogni cosa. …non è una com’è uno il continuo, che ha una parte dopo l’altra; essa è divisibile perché è in tutte le parti del corpo in cui si trova, ma è indivisibile perché è tutta in tutte le parti e in ciascuna di esse è intera. L’esempio che sia prima della musica, del suono: il suono è dappertutto, quindi è uno, ma ciascuno lo sente, quindi è in ciascuno. Il fatto che teoreticamente le sue argomentazioni siano risibili non ha impedito che siano state dominanti da venti secoli. A pag. 555. L’essere vero è nel mondo intelligibile; l’Intelligenza ne è il valore più alto. Ma anche le anime sono lassù, poiché di là esse vennero quaggiù. Quel mondo ha in sé le anime senza corpi; ma il mondo sensibile contiene le anime che sono nei corpi e sono divise nei corpi. È sempre il problema dell’uno e dei molti. Lassù l’Intelligenza è tutta insieme, né divisa né separata; tutte le anime sono insieme in quel mondo unitario senza distanza spaziale. L’Intelligenza è dunque eternamente indivisa e inseparata; e anche l’anima è lassù indivisa e inseparata; ma appartiene alla sua natura di essere divisa. Bisognerebbe domandare: perché? La sua divisione consiste nell’allontanarsi da lassù e nel venire in un corpo. Questo sposta solo la questione: perché è venuta quaggiù, se stava così bene lassù? Nel mito di Platone accadeva che queste anime, che sono tante, vogliono tutte quante raggiungere il Dio col loro cocchio, e a un certo punto il traffico è intenso, si scontrano e alcune, scontrandosi, perdono le ali e cascano giù. Questo era nel mito di Platone, ma appunto è un mito; lui stesso, Platone, lo racconta come mito, non dice che le cose stanno così. Invece, Plotino qui dice che appartiene alla sua natura di essere divisa; almeno Platone ci ha costruito su un racconto, un mito, anche divertente. E invece per Plotino è nella sua natura. La sua divisione consiste nell’allontanarsi da lassù e nel venire in un corpo. Si dice giustamente che essa “è divisa nei corpi”, poiché in tal modo essa si allontana e si divide. Come dunque può rimanere anche indivisa? È perché non si è allontanata tutta intera, ma c’è una sua parte che non è venuta quaggiù, non avendo la natura di essere divisa. Cioè, l’anima ha una natura, che la porta a essere divisa e un’altra natura che invece vuole rimanere indivisa. Ricordatevi sempre che quello che dice è diventata legge per i venti secoli successivi fino ad oggi, non proprio con queste parole, con questi termini, con qualche piccola variante, piccola, piccola. Che essa sia composta di un’essenza indivisibile e di una essenza divisibile nei corpi vuol dire dunque che consiste di un’essenza che resta in alto e di una che viene quaggiù e che dipende da quella e che procede sin qui come un raggio dal centro. Discesa quaggiù, essa contempla con quella stessa parte con la quale conserva la sua essenza totale. È venuta quaggiù, però c’è una parte che comunque aspira a tornare lassù. Poiché anche quaggiù essa non è soltanto divisa, ma anche indivisibile: ciò che di essa si divide, si divide infatti senza dividersi in parti. Essa si dà infatti a tutto il corpo: in quanto si dà tutta a tutto il corpo è indivisa; ma poiché è in ogni parte del corpo è divisa. Questo è il massimo della sua elaborazione. D’altra parte, come si faceva a tirarsi fuori da un problema del genere? Dal problema dell’uno e dei molti come se ne viene fuori? Non se ne viene fuori a meno che si pensi a un Uno, a una verità, a una realtà, se preferite questo termine, che unifichi tutto. Si sente spesso dire quando facciamo le conferenze: sì, tutte queste cose vanno bene, sono interessanti, però, poi, la realtà è un’altra. Ecco, questo è un enunciato neoplatonico; come dire: c’è questa realtà, che non è quella che dici tu, non è neanche quella che dico io, ma c’è ed è comunque un’altra cosa. Andiamo a pagina 569. Qui riconferma quello che diceva prima. C’è poi il fatto che siamo nati nell’interno del mondo. Però, anche nel grembo della madre noi affermiamo che l’anima che penetra nel figlio non è quella della madre, ma un’anima diversa. A pag. 573. Ed ecco la verità: se non ci fosse corpo, l’anima non si farebbe avanti, poiché la dov’essa è naturalmente non c’è luogo alcuno. Se deve farsi avanti, deve creare a se stessa un luogo e perciò un corpo. Questa è la sua ontogenesi, diciamola così, cioè, l’anima scende giù, ma siccome la natura vuole così, che una parte dell’anima debba andare giù, dice che l’anima, se deve andare giù, ci vuole un posto dove stare; quindi, deve trovare un corpo. Ma i corpi non ci sono ancora e, quindi, devo produrlo per potere poi entrare nel corpo. E come il suo stabile fondarsi su se stessa si si rafforzò, per così dire, sul suo stesso fondamento, ne scaturì una grande luce, la quale, giunta agli ultimi confini del fuoco, si tramutò in oscurità; l’anima la vide e ad essa, una volta sorta, diede una forma: poiché non era giusto che ciò che è vicino all’anima non partecipasse della ragione, di quanta ne poteva accogliere ciò che è detto oscuro nell’oscuro, cioè nel generato. Non è giusto che l’oscurità resti tale, quindi un pochino di luce anche a lei; quindi, ecco che sorgono le cose, perché l’anima ha bisogno di un luogo dove stare, cioè di un corpo deve immettersi e quindi ne produce uno. Da che cosa? Dall’oscurità, e sappiamo che per Plotino l’oscurità è la materia. E, quindi, si presuppone che la materia preesista. È un problema questo che Plotino però non affronta. A pag. 579. L’universo, che essa (l’anima) rinserra in sé, è e sarà sempre sufficiente a se stesso: esso si svolge in periodi secondo proporzioni stabilite e torna perennemente allo stesso stato conforme a cicli di vite predeterminate; armonizza le cose di quaggiù con quelle di lassù... L’idea è che ci sia un ordine lassù, che deve essere riprodotto quaggiù, ma l’ordine c’è. …e le fa corrispondere a quelle; e mentre ciò si compie, tutte le cose vengono ordinate secondo un piano unitario sia nelle discese delle anime sia nei loro ritorni come in tutti gli altri eventi. Ne è testimonianza l’accordo delle anime con l’ordine dell’universo. Quindi, c’è questo ordine, necessariamente. E l’ordine di quaggiù non fa altro che rispecchiare l’ordine di lassù. Questa idea è poi rimasta in tutto il Medioevo e in tutto l’illuminismo. Fino al Medioevo era Dio che stabiliva quest’ordine, poi è la ragione. Questa ragione universale, che ha preso il posto di Dio, dice di un ordine, perché la ragione è ordine, la ragione ordina le cose, è una sequenzialità inferenziale: se questo allora quest’altro. A pag. 581. L’inevitabile e la giustizia risiedono così in una natura che comanda alla singola anima di muoversi, secondo il suo rango, verso quel corpo particolare che ebbe la sua origine quale immagine di una scelta e di una disposizione ideale; ogni specie di anima è vicina a questo corpo ideale verso il quale è portata dalla sua intima disposizione; quando viene il momento, non c’è bisogno che uno la avvii e la guidi affinché essa entri al momento giusto e in un corpo determinato; venuto il momento, automaticamente, per così dire, essa discende ed entra nel corpo destinato. Continua a dirci di questa discesa nel corpo, in questa oscurità, come diceva prima, e come questa oscurità debba già esserci, perché sennò da dove arriva questa oscurità che l’anima illumina? Sicché si è persino portati a immaginare che tale movimento e tale corsa avvengano per una forza magica che per certi invincibili attrazioni; anche un singolo essere si compie, così, la sistemazione del vivente. Al momento giusto, la natura muove e genera ogni cosa, fa spuntare, per esempio, peli e corna e orienta gli istinti verso certe direzioni, fa sbocciare fioriture che prima non esistevano e regge la vita delle piante che crescono entro scadenze prefissate. Le anime dunque vanno non per la loro volontà, o perché siano mandate; o almeno la loro volontà non è come una scelta, ma è simile a uno slancio istintivo, come quando si è portati da naturale impulso alle nozze o a compiere belle azioni, ma non per riflessione: sempre su un determinato individuo incombe un certo destino, ora sull’uno ora sull’altro. Anche l’Intelligenza, che pur trascende il mondo, ha il suo destino, che è di rimanere lassù nella sua totalità e di donare; e il singolo, in quanto cade sotto l’universale, è mandato secondo una legge: l’universale, infatti, è nell’intimo di ciascun individuo, e la legge non trae dal di fuori la forza per il suo compimento, ma le è dato di sussistere in coloro che la utilizzano e la portano ovunque; e quando viene il momento, allora si avvera ciò che la legge vuole per opera di coloro che la possiedono in sé, sicché sono essi che la eseguono in quanto la portano con sé, ed essa si attua perché ha provato in loro la sua dimora e pesa, per così dire, su di loro suscitando l’angoscioso desiderio di andare là dove essa dice nel loro intimo di andare. Gli umani sono naturalmente portati alla giustizia perché sono naturalmente portati a ritornare là da dove arrivano, cioè, al Bene assoluto, che è verità assoluta, giustizia assoluta. E, quindi, se una persona è retta, se soprattutto dà retta al suo impulso, al suo desiderio di ritornare all’Uno, ecco che non può che sottostare a queste leggi, che sono quelle che impone l’ordine dell’Uno. Quindi, segue naturalmente queste leggi, questo ordine, perché sono le leggi stabilite dall’Uno; anzi, più che stabilite dall’Uno, sono l’Uno.