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10 giugno 2020

 

Scienza della Logica di G.W.F. Hegel

 

La realtà è l’argomento della sezione terza. C’è una nota di Moni. In tedesco ci sono due modi per dire realtà, Wirklichkeit e Realität –Freud usa Wirklichkeit per indicare la realtà psichica e Realität per indicare la realtà materiale. Qui Hegel usa la parola Wirklichkeit – Spaventa adopra “attualità” che è senza dubbio una parola molto adatta, come sarebbe anche quella di “effettualità”. Il Croce nella sua traduzione dell’Enciclopedia, mette in luogo di Wirklichkeit quando “realtà in atto”, quando semplicemente “realtà”. Il Noël si serve principalmente di réalité, dandole come sinonimi actualité e réalité concrète. La scelta non è facile. Ma io credo che, dopo tutto, dall’uso della parola realtà, che è poi anche quella che più spesso ricorre nel linguaggio comune, non possano derivare inconvenienti, sempre che si tenga presente che questa realtà non ha nulla a che fare coll’altra “realtà” (Realität) che era l’opposto della “negazione”, ecc. Una nota doverosa perché, in effetti, la parola realtà è una parola complessa. Moni è preciso. Non so se sapete ma Moni ha impiegato dieci anni a tradurre la Scienza della logica. Questo è uno dei motivi per cui nessuno dopo di lui c’ha provato. Dunque, questo dice Hegel. La realtà è l’unità dell’essenza e dell’esistenza. In essa hanno la loro verità l’essenza inconfigurata e l’inconciliabile apparenza, o il sussistere indeterminato e l’instabile moltiplicità. Essenza inconfigurata, cioè, che non ha ancora forma; dall’altra parte, l’inconsistente apparenza, cioè, l’essere. In quanto si determina e si dà una forma, è l’apparenza; e in quanto questo sussistere determinato solo come riflessione in altro si perfeziona fino a diventar riflessione in sé, viene a costituire due mondi, due totalità del contenuto, delle quali l’una è determinata come riflessa in sé, e l’altra come riflessa in altro. Qui incominciamo a porre delle questioni interessanti. Come sappiamo, Hegel elabora il suo pensiero, e quindi anche la questione della realtà, non cercando mai qualcosa che dal di fuori debba intervenire all’interno per spiegare la cosa. Hegel sa perfettamente che se deve ricorrere a qualche cosa che è al di fuori del concetto siamo daccapo, perché a questo punto dobbiamo prendere questo qualche cosa al di fuori e ricominciare di nuovo, per cui tutto quanto deve accadere all’interno del concetto. È una questione di straordinario interesse, che non è mai esistita prima di Hegel, perché se nulla viene inteso se non all’interno del concetto stesso, è chiaro che ogni cosa può intendersi soltanto a partire dall’atto, dall’atto di parola. Come dire che è dal concetto, è dall’atto di parola che sorgono le cose, gli oggetti. Una definizione di oggetto più bella, più pulita, più interessante, più precisa anche, la diede Hjelmslev, il linguista danese, che definì l’oggetto come l’intersezione di un fascio di relazioni. Difficile definirlo meglio. A pag. 596. Una tale unità… che è quella che diceva prima, cioè dell’esistenza e dell’essenza… Abbiamo visto che l’essenza è l’essere si riflette su di sé; l’esistenza, potremmo dire, è fatta di relazioni. Una tale unità dell’interno e dell’esterno… L’interno sarebbe l’essenza, quella che riflette in sé; l’esterno sarebbe la molteplicità dell’esistenza. …è la realtà o attualità assoluta. Attualità intesa come atto. Questa realtà è poi anzitutto l’assoluto come tale, - in quanto è posta come un’unità, dove la forma si è tolta e si è fatta la vuota o esteriore differenza di un esterno e di un interno. Questa realtà, dice, si è fatta nel momento in cui questa forma si toglie, dilegua e, quindi, di fatto che cosa rimane? Lo dice: una vuota o esteriore differenza di un esterno e di un interno, appunto l’essenza e l’esistenza. La riflessione si riferisce a questo assoluto come estrinseca, che non fa che considerarlo invece di esserne il proprio movimento. Ma in quanto è essenzialmente questo movimento, essa è come il negativo ritorno di quell’assoluto in sé. In secondo luogo è la vera e proprio realtà. Realtà (attualità),… l’Atto. Qui è interessante come precisi sempre che intende la realtà come l’atto. …possibilità e necessità costituiscono i momenti formali dell’assoluto, ossia la sua riflessione. Possibilità e necessità sono i vari modi nella logica modale, appunto il necessario, il possibile. In terzo luogo l’unità dell’assoluto e della sua riflessione è il rapporto assoluto, o meglio l’assoluto come rapporto a se stesso, - la sostanza. Ciò che ci dice qui ci avvia a una serie di considerazioni intorno alla questione della realtà, che generalmente è considerata estrinseca, qualcosa che è fuori di me, cioè, fuori dell’atto di parola. Per Hegel no, perché ci sia realtà occorre che ci sia l’atto di parola; in caso contrario, non c’è nessuna realtà. Nel momento in cui si inizia a parlare, soltanto in quel momento le cose incominciano a esistere. Prima non esiste nulla, nel senso che non c’è alcuna possibile riflessione. Finché il linguaggio non instaura quella distanza tra il dire e il detto, tra me e il qualche cosa, finché non c’è questa distanza le cose propriamente non sono. È soltanto questa distanza che le fa essere; distanza che non è altro che il linguaggio stesso, che instaura questa separazione. Senza questa distanza non c’è la possibilità che alcunché possa esistere, possa darsi. È una delle questioni più difficili da accogliere, perché tendenzialmente si è portati a pensare che anche senza il linguaggio le cose esistano comunque. Il problema è che questa affermazione, come direbbe Wittgenstein, è un non senso, non significa niente. Perché significhi è necessario che questa esistenza sia qualcosa e perché sia qualche cosa è necessario che rinvii a qualche cos’altro, e cioè sia presa nel linguaggio, che non è altro che relazioni. Questo ci porta a considerare che giustamente Hegel è come se volesse intendere il tutto a partire da ciò che lo costituisce, che lo fa esistere. Come dire che le cose, gli oggetti, tutto ciò sorge dall’atto di parola, è come se sgorgasse dalle parole. Non è che le parole lo individuino, lo determinino; no, le parole sono quelle cose per cui le cose, quelle che noi chiamiamo cose, esistono. Il linguaggio ha questa prerogativa: consente di porre qualcosa, ma nel momento in cui la pone ne impedisce l’accesso, la rende inaccessibile; la pone, ma nel momento in cui la pone la dilegua, la fa scomparire. Prima dell’atto di parola non c’è nessuna cosa, non è neanche pensabile, ovviamente: se non c’è l’atto di parola, con cosa la penso.

Intervento: …

Non è tanto la realtà, ma una configurazione, una determinazione della realtà. Il discorso che fa Hegel riguarda il concetto di realtà, che riguarda tutti coloro che parlano. Se uno parla, allora questa realtà interviene, dice lui, in questa maniera.

Intervento: …

Queste, come dicevo prima, sono delle determinazioni particolari della realtà. Hegel non intende questo con realtà, ma intende propriamente, come ha detto all’inizio, l’unità dell’essenza e dell’esistenza, cioè di qualche cosa che attiene all’atto, all’atto di parola: ha un’esistenza e ha un’essenza. Che si possono pensare anche come significante e significato dopo tutto, nel senso che l’essenza è il significato che fa dell’esistenza un’esistenza.

Intervento: …

Hegel non intende la realtà come la realtà per me o per Cesare, ma come interviene questo concetto e come si può ricavare dall’atto di parola. Infatti, torno a dire, lui non pone mai un qualche cosa spiegato da una qualche altra cosa che viene dall’esterno; no, lui la cerca nel concetto, da lì deve sorgere la cosa. Ciò che dice, in effetti, è interessante perché per la prima volta pone questo, e cioè che la realtà, ciò che compare, le cose, esistono nell’atto, non stanno fuori. È questa la questione centrale: finché non c’è l’atto di parola, il linguaggio, potremmo dire, non c’è nessuna cosa. Hegel è stato il primo a porlo, perché prima di lui si è sempre pensato che le cose esistessero per proprio conto, una sorta di causa sui insita nelle cose, per cui le cose sono quelle che sono per virtù loro. Hegel ha incominciato a porre qualche obiezione a questo pensiero già nella Fenomenologia dello spirito, ancor più adesso nella Scienza della logica. Si accorge di alcune cose; per es. dice La semplice schietta identità dell’assoluto è indeterminata... Identità dell’assoluto non è altro che identità con sé. …o meglio in lei si è sciolta ogni determinatezza dell’essenza e dell’esistenza, ovvero così dell’essere in generale come della riflessione. Si sciolgono, cioè, sui dileguano nel momento in cui diventano unità. Questo lo abbiamo visto con Peirce: nella relazione i due elementi, quando sono nell’unità è come se dileguassero e ciò che resta è la relazione. Il determinare pertanto quello che sia l’assoluto riesce negativo, e l’assoluto stesso appare soltanto come la negazione di tuti i predicati e come il vuoto. Ma in quanto dev’essere insieme dichiarato come la posizione di tutti i predicati, l’assoluto appare come la più formale delle contraddizioni. Anche questa è una cosa che ricorre spesso in Hegel: c’è l’assoluto come l’assenza di ogni determinazione, ma al tempo stesso l’assoluto è ciò che ha in sé tutte le possibili determinazioni. A pag. 597. Si deve però dichiarare che cos’è l’assoluto; se non che questo dichiarare non può essere un determinare, né una riflessione esterna per cui se ne vengono ad avere delle determinazioni, ma è l’esposizione e precisamente la propria esposizione dell’assoluto e soltanto un indicare quello ch’esso è. Cioè: l’assoluto deve dire lui quello che è, senza cercare fuori di lui. L’assoluto non è soltanto l’essere, e nemmeno l’essenza. Quella è la prima riflessa immediatezza, questa la riflessa. Ciascuno di essi è inoltre una totalità in lui stesso, ma una totalità determinata. Nell’essenza sorge l’essere quale esistenza;… È l’essenza che pone l’essere come esistente, in quanto l’essenza non è altro che il significato dell’essere, e quindi lo pone in quanto esistente. …e la relazione dell’essere e dell’essenza si è sviluppata fino a diventare il rapporto dell’interno e dell’esterno. L’interno è l’essenza… Il riflettere in sé. …ma come la totalità che ha essenzialmente la determinazione di essere riferita all’essere e di essere immediatamente essere. L’esterno è l’essere, ma colla determinazione essenziale di essere quello che nell’esser riferito alla riflessione è insieme immediatamente una irrelativa identità coll’essenza. L’assoluto stesso è l’assoluta unità dei due; è quello, che costituisce in generale il fondamento del rapporto essenziale, che qual rapporto non è soltanto ancora tornato in questa sua identità, ed il cui fondamento non è ancora posto. Come fa spesso, incomincia a porre la questione tenendo le cose separate fra loro; dopo arriverà al punto in cui dice che, di fatto, sono lo stesso. A pag. 598. Essenza, esistenza, mondo in sé, tutto, parti, forza, - queste determinazioni riflesse appaiono alla rappresentazione come un essere che valga in sé e per sé, un vero essere;… Questo è l’atto, l’atto di parola, che ha in sé tutte queste cose. Potremmo intendere l’atto di parola, l’assoluto in Hegel, come il concreto di cui parla Severino; il concreto, cioè l’atto in cui qualcosa si dice. Per quanto riguarda l’atto, noi lo svisceriamo, lo sezioniamo, ecc., però l’atto di parola in quanto tale non ha altra proprietà che di essere identico con sé, di essere quello che è; naturalmente avendo in sé come condizioni tutti questi elementi: essenza, esistenza, mondo in sé, parti, ecc., è tutto nell’atto di parola. Questo movimento è tolto in tale identità, e così non ne è che l’interno, col che però le è esteriore. Questo movimento, di fatto, è qualcosa che viene riflesso in sé e, quindi, è interno, ma si è portato appresso l’esterno, attraverso il fenomeno che Hegel chiama Aufhebung, cioè l’integrazione; c’è l’interno, certo, ma questo è fatto anche di esterno, perché senza l’esterno non c’è nemmeno l’interno. Esso consiste quindi dapprima soltanto nel toglier l’azione sua nell’assoluto. È l’al di là delle molteplici differenze e determinazioni e del loro movimento, un al di là che all’assoluto sta dietro alle spalle. Quindi è bensì la raccolta di esse differenze e determinazioni, ma ne è insieme il tramonto. Tutte queste determinazioni, queste particolarità, tramontano, dileguano. Sta sempre ponendo, già dalla Fenomenologia dello spirito, la stessa questione: c’è un elemento, questo elemento per poterlo porre deve avere in sé il suo negativo, ma questo negativo non rimane separato, viene integrato (Aufhebung); integrandosi, ecco che questo elemento diventa effettivamente se stesso. Così come l’essere: che cosa dà all’essere la sua essenza? L’essenza, appunto, la riflessione su di sé, l’essere che riflette su se stesso; solo a questo punto l’essere è qualcosa, sennò è nulla. Perché ci sia qualcosa occorre che ci sia l’essenza, e cioè che l’essere rifletta su di sé. Ed è così quella negativa esposizione dell’assoluto che fu dianzi accennata. Ciò che si espone, che si manifesta, è negativo, perché ciò che si pone, nel momento in cui si pone, dilegua. Ciò con cui si ha a che fare è il negativo. Quando io approccio una qualunque cosa, questo approcciare ha già in sé il negativo, nel senso che nel momento in cui pongo qualche cosa questo dilegua, diventa altro, si sposta, va verso il suo negativo, il suo contrario; quindi, ciò con cui ho a che fare è sempre un negativo. Nella sua verità questa esposizione è il complesso del movimento logico della sfera dell’essere e dell’essenza, il cui contenuto non venne raccattato dal di fuori come un contenuto dato e accidentale, né venne calato e piantato nell’abisso dell’assoluto da una riflessione a lui esterna, ma vi si è determinato mediante la sua interna necessità e come proprio divenire dell’essere, e come riflessione dell’essenza è tornato nell’assoluto come nel suo principio e fondamento. Questo è ciò che fa Hegel sempre: determinare qualcosa mediante la sua interna necessità. Questo potrebbe quasi essere l’esergo dell’opera di Hegel. A pag. 599. Nel fatto però l’esposizione dell’assoluto è l’operare suo proprio, e che comincia presso di sé, come fa capo a sé. L’esposizione dell’assoluto, ciò che io incontro, ciò che approccio, è l’operare stesso dell’assoluto, cioè dell’atto di parola. È questo che io incontro: ciò che fa l’atto di parola, non incontro nient’altro che questo. E che comincia presso di sé, come fa capo a sé, cioè, non necessita di nulla che sia al di fuori dell’atto.

Intervento: …

A Hegel serve l’assoluto per indicare l’attuale, l’atto, l’atto che ha come unica proprietà quella di essere identico con sé. Qual è la proprietà dell’atto di parola? Che è quella. Se io dico accendisigari, dico questo e non un’altra cosa. L’assoluto è il porsi in questo momento di quella cosa in quanto quella cosa, in quanto identica a sé. A pag. 602. Quindi in quanto l’esposizione dell’assoluto comincia dalla sua assoluta identità e passa all’attributo e da questo al modo, in ciò essa ha interamente percorso i suoi momenti. Se non che in primo luogo essa non è costì un procedimento semplicemente negativo di fronte a queste determinazioni, ma quest’attività sua è lo stesso movimento riflettente, mentre solo come questo l’assoluto è veramente l’assoluta identità. Non è altro che un movimento riflettente; questo è anche l’assoluto. Perché ha questa identità? Perché si riflette su di sé. Esattamente così come l’essere: perché l’essere è essere? Qual è la sua essenza? Quella di essere l’essere e non un’altra cosa, ovviamente. Ma per affermare questo occorre che ci sia una riflessione: la sua identità è di essere sé e non un’altra cosa. A pag. 603. …il contenuto dell’assoluto è appunto questo, di manifestarsi. Ecco, è questo che si manifesta. Potremmo dire a questo punto che ciò che si manifesta è l’atto di parola. Questo cose che io vedo, tocco, percepisco, sento, ecc., tutte queste cose, stiamo dicendo, sono atti di parola, nient’altro che questo. Il contenuto non è quindi che questa esposizione stessa. Come questo movimento dell’esposizione il quale sostiene se stesso, come guisa e maniera che è la sua assoluta identità con se stesso, l’assoluto è espressione, non di un interno, non di fronte a un altro, ma è solo come assoluto manifestarsi per se stesso. E così è realtà. Cioè: la realtà non è che un assoluto manifestarsi dell’atto, dell’assoluto, per se stesso.

Intervento: …

Non si è mai posto il problema. Lui considera il pensiero, l’atto di pensiero. Che poi sia parlato o scritto, questo è irrilevante. A lui interessa il pensiero, come accade il pensiero, da dove sorge, cosa fa.

Intervento: …

Questo è il problema connesso con la scrittura, ne parla anche Derrida. In effetti, non è che la scrittura garantisca alcunché, perché quando le cose sono scritte sono soggette a infinite interpretazioni. Costituiscono una traccia, una traccia che però, come già diceva Platone nella Lettera VII, lo scritto serve soltanto per tenere a mente qualche cosa, ma poi, di fatto, il vero lavoro del pensiero è il dialogo, è il confronto, è la riflessione. Il testo scritto, diceva Platone, se lo interrogo non mi risponde, continuo ad avere dei segnetti scuri su un foglio bianco, nient’altro che questo; segnetti che io leggo in un certo modo e interpreto in un certo modo. Quale? Qual è il modo corretto per interpretare? Per esempio, nella matematica, per evitare questi inconvenienti, si è ricorsi a simboli, che dovrebbero essere identici per tutti. Poi, anche in quel caso ci si è accorti che, sì, certo, è chiaro che se io stabilisco che un certo segnetto equivale a una certa cosa posso utilizzare sempre quella cosa in quel modo. Poi, che sia matematica o gioco del poker, è lo stesso: una certa carta con una certa figurina è il re di cuori, e sarà sempre re di cuori, non ci sarà possibilità di smentire una cosa del genere. Non è dimostrabile ovviamente, non è niente, è una decisione. Certo, è diverso il parlare dallo scrivere, ma è diverso per altri motivi che a Hegel non interessano minimamente; infatti, non ne parla mai. A pag. 604. Qui fa delle obiezioni a Spinoza. I concetti che Spinoza dà della sostanza sono i concetti della causa di sé, - che essa è quello la cui essenza include in sé l’esistenza, - che il concetto dell’assoluto non abbisogna del concetto di un altro da cui debba esser formato. Questi concetti, per quanto profondi ed esatti, son definizioni, che vengono ammessi immediatamente all’inizio della scienza. La matematica e le altre scienze subordinate debbon cominciare con un presupposto che ne costituisce l’elemento e la base positiva. Ma l’assoluto non può essere un primo, un immediato; esso è essenzialmente il suo resultato. Anche questo è interessante. È un altro modo per dire che l’assoluto non è posto da qualche altra cosa. I presupposti matematici, sì, li pongo io, decido io che cosa significano, ma l’assoluto, l’atto, non ha un’altra cosa che lo fondi, è ciò che accade, qui e in questo momento. Dice: è essenzialmente il suo resultato. Certo, l’atto, l’atto di parola, procede da una serie sterminata di cose, è il risultato di tutte queste cose in questo momento qui. Dopo la definizione dell’assoluto si affaccia poi presso Spinoza la definizione dell’attributo, che è determinato come la maniera in cui l’intelletto concepisce l’essenza di quello. Qui c’è una nota. “Per attributum intelligo id, quod intellectus de substantia percipit, tamquam eiusdem essentiam constituens” (Intendo per attributo ciò che l'intelletto percepisce della sostanza, in quanto costituente della sua essenza) (Spinoza, Ethica, Parte I, def. IV).

La nozione di assoluto di Hegel indica l’atto, l’atto di parola. Di che cosa ha bisogno l’atto di parola per porsi? Che ci sia il linguaggio, naturalmente; senza il linguaggio non c’è neanche l’atto di parola. Ma questo atto, di cui ne parleremo con Gentile rispetto all’attualismo, non è altro che il dirsi di qualche cosa in un certo momento e in quanto questo dirsi è identico con sé, ed è il tutto, in quel momento è il tutto. Quando io dico qualche cosa, in questo qualche cosa che dico c’è già tutto, c’è già l’intero, c’è già il linguaggio. Quindi, si pone la questione dell’assoluto come l’elemento importante per dire che è dall’assoluto, cioè dall’atto di parola, che sorgono le cose. Hegel affronta il discorso religioso nella Fenomenologia dello spirito, dove indica come religioso il mantenere separati i momenti, per es., dell’immanente e del trascendente, come due cose separate e che rimangono come tali, mentre per Hegel questi due elementi si uniscono in una sintesi. Solo se c’è la sintesi non c’è più pensiero religioso; allora accade, come lui dice nella Fenomenologia, che dio sia qui, adesso, in terra. Questo concetto di assoluto non ha nulla a che fare con dio, perché l’assoluto, così come lo sto ponendo, non è altro che l’atto, l’atto di parola. Ora, posso anche pensare all’atto di parola come dio, se voglio posso farlo, posso anche pensare a questa cosa qui come dio, nessuno me lo impedisce, anzi, di più, nessuno può dimostrare che non lo sia. Però, il discorso che fa Hegel è più complesso, è un lavoro di recupero di tutto ciò ha a che fare con gli umani, il recupero dall’atto stesso, dall’atto di parola, dal dirsi, dal linguaggio, in definitiva.  A pag. 610. La realtà dev’essere intesa come questa assolutezza riflessa. L’essere non è ancora reale. È la prima immediatezza. Quindi la sua riflessione è un divenire e un passare in altro, ossia la sua immediatezza non è un essere in sé e per sé. Sono le questioni che poneva già all’inizio della Fenomenologia. La realtà sta ancora al di sopra dell’esistenza. Questa è bensì l’immediatezza sorta dalla ragion d’essere e dalle condizioni, ovvero dall’essenza e dalla sua riflessione, ed è quindi in sé quello che è la realtà, cioè riflessione reale; ma non è ancora l’unità posta della riflessione e della immediatezza. A cui per Hegel occorre giungere, a questa unità dei due momenti, in questo caso della riflessione e della immediatezza, devono porsi come unità. La riflessione, cioè l’essere che diventa finalmente se stesso, e l’immediatezza che è, potremmo dire così, l’essere in atto di tutto ciò: questo è l’immediato. L’esistenza passa quindi ad essere apparenza o fenomeno…  Ciò che appare, il fenomeno, ciò che si mostra. …in quanto sviluppa la riflessione che contiene. Dice che a questo punto L’esistenza passa quindi ad essere apparenza, cioè, è ciò che vediamo, ciò che ci appare. Essa è il fondamento andato giù; la determinazione o destinazione sua è il ristabilimento di quello; così l’esistenza diventa rapporto essenziale, e l’ultima sua riflessione è che la sua immediatezza è posta come la riflessione in sé e viceversa. Ciò che rappresenta l’immediatezza, ciò che appare, non è altro che questo riflettersi in sé. È questo che fa apparire le cose o, se vogliamo dirla in modo più semplice, che dà alle cose un significato, cioè, le fa essere quelle che sono. Questa unità, nella quale l’esistenza o l’immediatezza, e l’essere in sé, il fondamento ossia il riflesso, sono assolutamente momenti, è ora la realtà. Sono momenti, quindi, non più elementi separati, ma momenti di un tutto, di un intero. Quando tutti questi elementi diventano uno, ecco che abbiamo, ma occorrerebbe sempre precisare, non la realtà, ma quella cosa che noi chiamiamo realtà, che è diverso. Dicendo realtà, sembra che ci sia da qualche parte la realtà; no, quella che cosa che noi chiamiamo realtà, per una serie di motivi di cui si potrà anche discutere. Il reale è perciò manifestazione; non viene dalla sua esteriorità tirato nella sfera del mutamento,… Quindi, il reale è qualcosa che si manifesta nell’atto di parola. Dice che non è qualcosa tirato dento, …né è il suo apparire in un altro, ma si manifesta; vale a dire che nella sua esteriorità è lui stesso… Ciò che mi appare non è altro che lui. …e che solo in quella, cioè solo come movimento che si distingue da sé e si determina, è lui stesso. Quindi, è lui stesso soltanto in quanto si determina da sé. Per questo all’inizio dicevo che le cose, gli oggetti, sorgono dalle parole, non ci sono prima. Aveva ragione Hjelmslev a indicare l’oggetto come la intersezione di un fascio di relazioni. È un modo figurato, però è efficace: queste relazioni si intersecano e in questa intersezione ecco il qualche cosa che, occorrerebbe sempre dire, noi chiamiamo oggetto. Questa premessa sarebbe sempre doverosa, non si fa sempre per brevità, però sarebbe da fare rigorosamente sempre. Non la realtà ma ciò che noi chiamiamo realtà. A pag. 611. La realtà, come tale che è essa stessa una immediata unità di forma dell’interno e dell’esterno,… Ciò che ci appare è questa unità di interno e di esterno, cioè, di riflessione in sé e di riflessione in altro. …è pertanto nella determinazione dell’immediatezza contro la determinazione della riflessione in sé, ossia è una realtà contro una possibilità. Poi parlerà del possibile e del necessario. Il possibile per Hegel interviene nel momento in cui la cosa non è ancora riflessa in sé, cioè, non ha trovato la sua unità, unità con se stessa, che è il necessario. Può trovarla oppure no, dice, e questo è ciò che noi chiamiamo il possibile, ciò che ancora non è riflesso in sé. La reciproca relazione di queste due è il terzo,… Il terzo è la relazione, in questo caso il reale. …il reale determinato anche come essere riflesso in sé, e questo in pari tempo come esistente immediatamente. Quando questo reale si riflette immediatamente in sé, ecco che diventa il necessario. A questo punto non è più il possibile che attenda di essere determinato; il necessario è già determinato, è già riflesso in sé. Il possibile è come se attendesse questa riflessione, che può accadere oppure no. A pag. 612. La possibilità contien quindi questi due momenti: in primo luogo il momento positivo, che questo è un esser riflesso in se stesso; ma in quanto nella forma assoluta esso è rabbassato a momento, l’esser riflesso in sé non val più come essenza, ma ha in secondo luogo il significato negativo che la possibilità è un che di manchevole, ch’essa accenna a un altro, cioè alla realtà, e si integra in questa. Come se la possibilità fosse sempre in attesa; dice lui giustamente un che di manchevole. …la possibilità è dunque la semplice determinazione di forma dell’identità con sé, ossia la forma dell’essenzialità. Una semplice determinazione della forma, ma ancora non è determinata come necessità. Così essa è l’irrelativo, indeterminato recipiente per ogni cosa in generale. Infatti, è possibile oppure no, comprende tutto. Nel senso di questa possibilità formale è possibile tutto quello che non si contraddice. Infatti, ciò che si contraddice è l’impossibile, se non si contraddice è possibile. Il regno della possibilità è quindi la molteplicità illimitata. Ciò nondimeno il possibile contien di più, che non il semplice principio d’identità. Il possibile è il riflesso esser riflesso in sé, ossia l’identico assolutamente come momento della totalità, epperò anche determinato a non essere in sé. Il possibile è determinato, certo, come momento della totalità, ma non è ancora in sé, cioè, come dice Hegel, non è ancora ritornato in sé. A pag. 615. Qui parla dell’accidentalità. Quest’assoluta inquietudine del divenire di queste due determinazioni (l’interno e l’esterno) è l’accidentalità. Hegel parla di inquietudine, cioè, non sa orientarsi in un senso o nell’altro. Ma perché ciascuna cade immediatamente nell’opposta, in questa essa si fonde altrettanto assolutamente con se stessa, e tale identità delle due determinazioni, una nell’altra, è la necessità. Quando l’accidentalità scompare, nel momento in cui uno dei due elementi cade nell’altro, viene cioè integrato nell’altro come unità, a questo punto allora diventa necessità, non c’è più nessuna possibilità. La possibilità del necessario è una possibilità tolta. L’accidentale è dunque necessario, perché il reale è determinato come possibile, e con ciò la sua immediatezza è tolta e respinta nel fondamento o nell’essere in sé e nel fondato, come anche perché questa sua possibilità, la relazione fondamentale, è assolutamente tolta e posta come essere. I due momenti sono sempre presenti. La possibilità è ciò che ancora non è rientrato in sé; nel momento in cui rientra in sé, allora diventa quella cosa che chiamiamo necessità, perché è così e non può essere altrimenti. Il necessario è, e questo che è, è appunto il necessario. In pari tempo esso è in sé. Cosa che mancava nel possibile. Questa riflessione in sé è un altro che non quella immediatezza dell’essere, e la necessità di quel che è, è un altro. Per Hegel ciò che è necessario, sì, certo, è assolutamente identico con sé, ma questo non toglie mai che per essere identico con sé occorre che sia identico con altro. Questo è il fondamento di tutto il pensiero di Hegel: ciascun elemento che si pone, in quanto lo pongo, è negativo. E, quindi, anche in questo caso, anche il necessario, nel momento in cui lo pongo, è negativo; è necessario in quanto esclude il suo contrario. Ma questa esclusione deve essere presente: deve essere presente il suo contrario e deve essere presente in quanto escluso, in quanto negato; solo allora l’elemento diventa quello che è. Che è una questione semplicissima, di cui parlavamo la volta scorsa: ciascun elemento è quello che è in quanto non è altro da ciò che è, ma in quanto non è altro; per cui occorre questo altro che lui non sia. Tutto questo è racchiuso nell’elemento che, quindi, come vedete, è se stesso ma anche altro da sé, necessariamente.