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10 maggio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Ci sono alcune cose, che dice qui Heidegger, che ci conducono a una questione importante: la logica. Heidegger sfiora la questione, non la problematizza, la mette a tema, ma poi la lascia lì. Non si rende conto di che cosa ha effettivamente sottomano. Quella cosa che chiamiamo logica è, in effetti, solo un aspetto, perché ciò che si intende generalmente con logica non è altro che un calcolo, un calcolo proposizionale. Ma c’è un altro modo per approcciare la questione, e cioè, come direbbe Heidegger, porre la questione come una determinazione ontologica, cioè perché la logica è quella che è. Ma che cos’è? Dicevo che la logica è diventata propriamente un calcolo nel Medioevo, quindi dopo Aristotele, per via del fatto che doveva rendere conto della realtà di dio. Ma, in effetti, non è altro che un processo inferenziale. Inferire è portare qualche cosa da un’altra parte, spostarla, è una relazione. L’inferire: τί κατά τίνός, il qualche cosa in vista di altro. Ma in vista di che? Il processo inferenziale è determinato dalla formula “se-allora”, se questo allora quell’altro. Qui Heidegger ha posto le condizioni per intendere meglio la questione, e cioè la questione della finitezza. L’inferenza è ciò che rende finito l’antecedente, nel senso che il conseguente rende finito l’antecedente. Faccio un esempio. Prendete il famoso sillogismo anapodittico: “se piove prendo l’ombrello, ma piove, quindi prendo l’ombrello”. L’antecedente è “se piove”, il conseguente è “prendo l’ombrello”. Fin qui tutto bene, ma se consideriamo solo l’antecedente, il “se piove”, allora se piove mi bagno, se piove sono triste, se piove prendo l’impermeabile, se piove non esco di casa, ecc., le possibilità sono infinite: questo “se piove” apre all’infinito. Il “prendo l’ombrello”, invece pone un limite, quello che i greci chiamavano il πέρας, all’πειρον, all’infinito, e mi dice che se succede questo allora quest’altro, non altre cose, ma quest’altro, cioè lo rendo finito. Potremmo dire a questo punto che il processo inferenziale – che è preferibile al termine logica, perché con logica si intende per lo più una procedura di calcolo proposizionale, è quella cosa che consente di parlare perché rende finito l’antecedente rispetto a un conseguente e, quindi, l’antecedente può essere utilizzato. Il solo “se piove” apre una infinità di possibilità, quindi, non dice niente, non può essere utilizzato; è il conseguente che impone la finitezza dell’espressione e che rende utilizzabile l’espressione, che quindi rende possibile parlare. In questo senso il processo inferenziale è necessario per parlare, senza non potremmo parlare. Potremmo dire che il linguaggio stesso è un processo inferenziale, è solo questo, è solo la possibilità di portare una cosa a un’altra e lì fermarla. E sappiamo che non si ferma se non la fermo io. Ora, si potrebbe riflettere sui vari passi che hanno condotto il processo inferenziale, posto così come determinazione ontologica, alla logica come calcolo, così come è stato utilizzato dal Medioevo in poi, fino a tutt’oggi. Si può fare un esempio di ciò che è diventata oggi la logica – dico oggi, ma è un oggi che va dal Medioevo fino ad adesso che parliamo. Pensate alla questione della contraddizione. La contraddizione nella logica, soprattutto in quella formale, è quanto di peggio si possa immaginare, è il male assoluto, nel senso che se all’interno di un sistema logico è possibile dedurre una contraddizione, tutto il sistema viene banalizzato, diventa banale, cioè, all’interno di quel sistema è possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto. Banale, quindi, inutilizzabile. Ma la contraddizione che cosa dice, di fatto? Dice invece una cosa interessante, che sono poi i famosi paradossi. Dice così: guarda che non stai tenendo conto di qualcosa, non stai tenendo conto del linguaggio, non stai tenendo conto che ciascun elemento è ciò che è in virtù del fatto che dipende da ciò che non è, tieni conto di questo e la contraddizione scompare. Perché la logica teme così tanto la contraddizione? Perché deve affermare ciò che è necessariamente vero. Come dire che, rispetto all’esempio di prima, “se piove allora prendo l’ombrello”, il “allora prendo l’ombrello” deve essere posto come una verità assoluta e non come una possibilità che io ho deciso tra infinite altre, ma deve essere pensata come una necessità, appunto una necessità logica. Questo ha naturalmente degli effetti, dal momento che la logica, così come comunemente è intesa – la logica formale, per intenderci –, è un sistema religioso, perché ha dovuto separare ciò che è da ciò che non è, l’uno dai molti, immaginando che quella finitezza, che pone in atto allo scopo di continuare a parlare, costituisca invece l’arresto necessario di un’espressione per cui l’espressione significa quello e nient’altro che quello. Che è quello che facciamo parlando: quando parliamo, qualunque parola diciamo, immaginiamo che significhi ciò che noi vogliamo che significhi, non il suo contrario, cioè che non muti. Ma se tenessimo conto che significa anche il suo contrario? Allora, sì, certo, continuiamo ad affermare le cose, ma a questo punto le affermiamo probabilmente in un altro modo, le affermiamo come modi per proseguire a parlare. Vi dicevo tempo fa che il pensiero teoretico dovrebbe giungere a non avere più la necessità di dominare l’ente perché già dominato, ma dominato in questa accezione particolare: è già dominato nel senso che so, e non posso non sapere, che in effetti sto parlando di parole e posso parlare soltanto di questo. L’ente è già dominato perché so di che cosa è fatto, cioè è fatto di parole. Lo “domino”, tra virgolette, perché questo dominio è in un’accezione particolare, non è che propriamente lo domino ma so di cosa è fatto, so che è una parola, un discorso e non può essere altro che questo. Quindi, mi rapporto all’ente come un qualche cosa che mi riguarda sempre, ecco il “ci” famoso, l’esser-Ci. Il “Ci” sarebbe il per noi, ma è per me, cioè, potremmo dirla banalmente, parlo sempre e soltanto per me. Si tratta, quindi, di pensare a questo punto la logica in un altro modo – di sicuro non come quel calcolo che porta al teorema, che è l’ultima formula, che dovrebbe stabilire come stanno le cose – ma come quel processo inferenziale che, come dice la parola inferenza, è essere in relazione ad altro, τί κατά τίνός, qualcosa in vista di altro. Pensare che non sia in vista di altro, cioè, pensare che sia quello che è, è quello che fa il discorso religioso, che separa l’uno dai molti, dove i molti sono i cattivi, vanno tenuti a bada e fare in modo che non contaminino l’uno, che deve rimanere puro, immacolato. Ecco perché Heidegger ci ha portati a questo punto, anche se, come dicevo all’inizio, è una cosa che lui stesso non si accorge della portata che ha. In effetti, tutto ciò che sta dicendo adesso è il modo di approcciarsi all’ente. Come approcciarsi all’ente? Infatti, dice a pag. 243. Si può notare in che modo il λόγος sia la possibilità di conquistare l’accesso all’essere inteso nel senso specifico dell’“esserci pronto”, dell’“essere pervenuto alla fine”. È il λόγος che ci consente di essere alla fine, cioè di essere nel finito, è il λόγος, che di per sé è πειρον, l’indeterminato, l’illimitato, l’infinito. Il λόγος è queste due cose simultaneamente: è finito e infinito, due cose che si coappartengono. Qui Heidegger appronta tutta la questione facendo una riflessione intorno a un’analisi di Aristotele intorno alla ἓξις. L’ἓξις è l’essere pronti a qualche cosa, quindi, l’avere anche gli strumenti per affrontare qualcosa. Dice che questi due strumenti sono la competenza e la sicurezza. L’analisi di Aristotele inizia con una distinzione in seno alla ἓξις. 1. competenza, 2. sicurezza quanto alla trattazione metodica di un determinato ente da parte dell’indagine: παιδεία. Teniamo conto che lui sta riflettendo sul come si deve approcciare l’ente, che è la questione fondamentale dal momento che ciascuno è in mezzo agli enti ininterrottamente. Come li approccia questi enti? Perché dal modo in cui approccerà questi enti seguirà naturalmente una serie di conseguenze, che sono il suo agire: la persona agirà in un modo conseguente al modo in cui si è approcciato all’ente. Si tratta qui di svolgere alcune riflessioni che non riguardano la competenza, essendo autonome e separate dalla questione “come l’ente si comporti nel suo essere-scoperto”. Prescindendo da tale questione, va discusso quale sia la giusta modalità di accesso a un ente di cui l’indagine deve di fatto iniziare a occuparsi, e in quale ordine vadano compiuti i suoi singoli passi. Aristotele fissa la sua riflessione anzitutto schematicamente in due domande: 1. Debbono essere presi in considerazione prima di tutto i φαινόμενα (fenomeni) e poi il διά τί (perché)? 2. Se il διά τί, allora quale perché? Da quale punto di vista debbo porre primariamente l’ente così presentificato? Ne conosciamo due: οὖ ἔνεκα (per che cosa) e l’άρχή κινήσεως (da dove). La questione di quale delle due prospettive sia la più originaria può essere decisa solo a partire dall’ente stesso. È una questione che non posso concepire in modo sistematico: la posso decidere solo a partire dalla cosa stessa. Questo è proprio Aristotele, che parte sempre da quello che c’è. È stata anche la sua maledizione, perché andando a cercare quello che c’è veramente, alla fine ha trovato la δόξα, la chiacchiera, come fondamento di tutto. La discussione e la dimostrazione del fatto che lo οὖ ἔνεκα (per che cosa) costituisce il punto di vista primario, la prospettiva prioritaria, possono essere compiute solo se faccio ritorno all’essere stesso, ai φαινόμενα. Qui già si intende come la questione per Aristotele, e poi per Heidegger, riguardi una sorta di coappartenenza, per cui non si possono dividere. Aristotele, pur volendo dividere tutto, di trova invece costretto a riunire poi tutto, e cioè il “da dove viene” e il “dove va” sono due momenti dello stesso, il “da dove viene” e il ciò che faccio sono due momenti dello stesso, indivisibili. Forse, proprio per il fatto che ha cercato di dividere tutto che alla fine si è accorto che non si divide niente. La correttezza della prospettiva può essere ricavata solo dalla cosa stessa. Tuttavia, poiché gli enti di cui ci occupiamo sono i φύσει ὅντα (enti di natura), cioè enti caratterizzati dal “pervenire nel “Ci”… Il pervenire nel “Ci” significa sempre pervenire nell’esserci, pervenire per me. …dalla γένεσις, ci chiediamo: il Primo è lo οὖ ἔνεκα (per che cosa) oppure lo ὄθεν ή άρχή τῆς κινήσεως? Il Primo è il “per che cosa”, la sua finalità, oppure è il “da dove viene”, la sua origine? Dobbiamo considerare la materia di studio di cui stiamo discutendo nel suo “che cosa”? Dobbiamo prenderci cura dell’ente occupandoci di ciò che esso è, di ciò che esso è in quanto ente che “ci” è – oppure considerando come esso diviene in riferimento alla sua γένεσις? Come dobbiamo prendere questo ente? Se volessimo dirla in modo molto semplificato: dobbiamo prenderlo per la sua origine, vedere da dove viene, per sapere che cos’è – ché in fondo la domanda è sempre quella: che cos’è qualcosa, l’essere dell’ente; soltanto dal “da dove viene” riusciamo a capire la sua essenza – oppure dobbiamo considerare “per che cosa” è questa cosa, cioè, qual è il suo fine o, ancor più, qual è il suo utilizzo? Qui appaiono apparentemente come separate le due cose: l’origine e il fine. Ma poi vedremo che sono la stessa cosa. Ora, poiché è già stato deciso che la domanda sul τί (qualcosa) è la questione primaria, sarà a partire da essa che comprenderemo l’ούσία, quindi la γένεσις. Heidegger intende qui ούσία come l’essere, anche se generalmente viene tradotto con sostanza. Quindi, accosta l’ούσία alla γένεσις. È sempre la stessa domanda: questo essere come dobbiamo considerarlo: per la sua provenienza, per il suo “da dove viene”, di che cosa è fatto (di legno, di ferro, ecc.), oppure per il τέλος, per il suo fine, per il suo essere finito in un certo modo? Probabilmente sarà lo οὖ ἔνεκα (per che cosa) a dare risposta al τί (che cosa). È il “per che cosa” che ci dirà che cos’è questa cosa. Bisogna dunque chiarire perché lo οὖ ἔνεκα (per che cosa) è l’elemento primario. È su questa base che proporci di determinare l’ente nel suo essere autentico. È nostra intenzione stabilire, per la materia di cui ci stiamo occupando, la prospettiva di fondo, cioè porre in luce l’essere degli ζῷα (viventi) – dobbiamo insomma far emergere nella sua evidenza la determinazione fondamentale dell’ente che vive, la ψυχή. Ψυχή per Heidegger è l’ente che vive. Certo, ζωή è la vita, ma con ψυχή intende qualcosa di più, è il vivente, è l’ente che vive, che parla, che pensa, che fa tutte queste cose, che legge il giornale, diceva un po’ di pagine addietro. Gli ζῷα, invece, sono semplicemente i viventi. Infatti, deve precisare quando dice che l’uomo è ζῶον λόγον ἔχον, un vivente provvisto di linguaggio, che quindi si differenzia dai viventi non provvisti di linguaggio, e cioè gli animali. Questo ci porta a considerare che questa distinzione tra l’uomo e l’animale, laddove l’uomo non sa di essere parlante e quindi non può minimamente tenere conto delle implicazioni di questo, ecco che, pur mantenendo questa distinzione tra uomo e animale, questa distinzione si fa sottilissima. Nel contesto della nostra indagine è necessario prestare attenzione a come Aristotele pone fenomenicamente in luce in base al modo in cui l’ente si mostra, il carattere dell’ἔμψυχον (ciò che è nell’ente vivente). Ne ricaviamo anche il terreno per la nostra ipotesi secondo cui ζωή, ovvero ψυχήQui ζωή e ψυχή si fondono insieme. …significa: un ente in quanto “essere nel mondo”. Se è “essere nel mondo” vuol dire che sa di essere nel mondo; quindi, è l’essere parlante che sa di essere parlante e perciò di essere nel mondo. Mostrerò che il passo sta nel testo e non è una mia invenzione. La risposta di Aristotele alla questione posta dalla παιδεία (l’insegnamento) di questa disciplina è che la prospettiva primaria richiesta dall’ente è lo οὖ ἔνεκα (per che cosa). Nel “per che cosa”, in ciò che viene indagato da questo punto di vista – lungo questa prospettiva – l’ente deve mostrarsi così come esso stesso è. È nel “per che cosa”, nel suo essere finito. Ed è questo che introduce la questione, di cui parlerà tra breve, dell’inferenza, del se-allora, perché è l’inferenza che rende finito qualche cosa, cioè utilizzabile: “se piove prendo l’ombrello”, anziché farmi un caffè. Si tratta qui dei φύσει ὅντα, e precisamente dei γινόμενα (eventi, ciò che accade), non degli άεί ὅντα (enti che sono sempre), dell’ούρςανός, che peraltro è anch’esso φύσει ὅν. Per essere ancora più chiari, si tratta di quei γινόμενα che sono ἔμψυχα. Che cosa accade al vivente che parla e che pensa? Una questione ulteriore è come ora questo senso dell’essere – come esposto all’inizio – divenga decisivo per l’interpretazione dell’essere dell’uomo inteso in quanto πρᾶξις (agire). La direzione dell’interpretazione ontologica porta alla categoria della ἓξις, all’essere concepito come un determinato “avere”, “disporre di qualcosa”. “Eξις, essere pronti, significa anche questo: avere a disposizione qualcosa, degli strumenti, ecc. Per motivare il fatto che lo οὖ ἔνεκα (per che cosa) è la prospettiva primaria, Aristotele afferma anzitutto che lo οὖ ἔνεκα (per che cosa) è il λόγος. Affermazione non da poco. Lo οὖ ἔνεκα, cioè il “per che cosa” qualcosa accade all’uomo, è, dice qui, per via del λόγος. Questo è il motivo per cui è la prospettiva primaria: il “per che cosa” è il λόγος. Il che ci potrebbe portare, se volessimo saltare una infinità di passaggi, alla domanda: perché parliamo? Risposta: per continuare a parlare, non ce n’è un’altra più sensata. Che cosa mai significa λόγος in questo contesto? 1. Λόγος nel senso dell’accesso, άποφαίνεσθαι (manifestarsi) dell’ente in quanto φαινόμενον (fenomeno). Quindi, l’accesso dell’ente che si mostra. 2. Λόγος nel senso della risposta, in quanto “rivolgersi a”, come l’ente si rivolge a ciò che lo interpella; questo λόγος rispecchia l’ente nel suo aspetto. Io interpello l’ente, e l’ente come mi risponde? Mi risponde sempre nel λόγος, ovviamente nel mio. Sottolinea questi due aspetti: c’è il mio dire interrogante e il mio dire rispondente. Ma è sempre il dire, è sempre λόγος; difatti, sono due determinazioni del λόγος, non di altro. Nel primo senso, nel rivolgersi all’ente l’ente stesso viene posto in una prospettiva in quanto qualcosa,… Questo è fondamentale per gli umani, è ciò che consente il linguaggio: porsi di fronte a qualcosa in quanto qualcosa. In assenza di linguaggio questo non è possibile. …questo ente qui in quanto questo e quello, in quanto sedia. Il λόγος pone in risalto τί κατά τίνός, qualcosa in quanto qualcosa. Qualcosa, quindi, è quello che è in quanto è qualcosa, in quanto è riferito a qualche cosa. Da questo elemento del λόγος scaturisce l’ulteriore possibilità del λόγος stesso in quanto porre in risalto, articolare, λόγος in quanto τί κατά τίνός. È il λόγος che ci dice come approcciamo l’ente, e lo approcciamo sempre come τί κατά τίνός, come qualcosa in vista di qualche cos’altro. È qualcosa perché è in vista di qualche cos’altro, altrimenti non sarebbe qualcosa. È questo qualche cos’altro, per il quale è in vista di, a fare essere il qualche cosa. Ne deriva la possibilità del λόγος qua relazione… Del λόγος in quanto relazione. È quello che diciamo da sempre: il linguaggio è relazione … per esempio, άνάλογον (analogia). L’analogia è una relazione. Come sappiamo, l’analogia è alla base di tutto. Il λόγος è la possibilità per la scoperta di una relazione, mentre in sé esso non è una relazione. Qui dice una cosa bizzarra, perché ha detto fino ad adesso che il λόγος è relazione – e lo dirà anche dopo che non è altro che τί κατά τίνός, qualcosa in vista di altro – e qui dice che non è relazione. Non si capisce bene da dove viene questa uscita così estemporanea, che poi naturalmente non prosegue. A questo duplice significato di λόγος se ne aggiunge un terzo, quello propriamente medio,… Quando dice “medio” intende il modo di pensare comune, la chiacchiera. 3. Nel qual caso λόγος significa entrambe le cose – il mostrare e ciò che è espresso, ciò che è espresso in questo specifico modo -, nel senso però che nell’esprimere non porto a compimento in modo autentico l’espressione, ma mi limito a parlare come capita. Nondimeno, anche ciò che è detto a caso, senza pensarci, contiene latente in sé la possibilità dell’appropriazione originaria, nel senso che posso fare sul serio anche con ciò che ho detto in modo superficiale. Questo λόγος è il parlare medio di questioni con cui si ha una certa familiarità, pur senza averle effettivamente presenti. Da esso nasce e si sviluppa la possibilità della pura attuazione, ed esso implica la possibilità di mostrare nel modo giusto. Ha detto che il λόγος è relazione e adesso conferma quello che ha detto dicendo che, di fatto, il λόγος non è altro che rappresentazione. Lui dice Da esso nasce e si sviluppa la possibilità della pura attuazione, cioè, il rendere attuale qualche cosa lo posso fare attraverso la rappresentazione. Il λόγος è proprio questo: il modo di mostrare l’ente, la possibilità dove si decide qual è l’accesso primario e che cosa deve primariamente mostrarsi. Dunque, dice: il λόγος è il modo di mostrare l’ente. Sì, certo, parlando io mostro la cosa, l’ente, mostro parole, e le parole sono enti. Dice la possibilità dove si decide qual è l’accesso primario. Qual è l’accesso primario? È il λόγος. E poi: e che cosa deve primariamente mostrarsi? Sempre il λόγος. È con questo che ho a che fare, cioè, tutta la disquisizione che fa intorno all’accesso all’ente arriva alla fine a questo, e cioè che l’ente si mostra nel λόγος, ma non solo nel λόγος, si mostra come λόγος perché è solo questo. Perciò l’intera discussione ruota intorno alla domanda: πῶς λεκτέον (il modo in cui si dice qualche cosa). Dunque, siamo passati dall’idea di trovare l’ente in quanto tale ad accorgerci che tutto ruota intorno alla domanda “come qualcosa si dice?”. Come se questo “qualcosa si dice” fosse lui a mostrarci l’ente. Il λεκτέον accoglie l’ipotesi di partenza secondo cui lo οὖ ἔνεκα (per che cosa) è il πρῶτον (primo) perché è il λόγος. Dunque, l’ipotesi di partenza, secondo cui il “per che cosa” è il primo perché è il λόγος. Non è il primo perché ce n’è un secondo, ma perché c’è solo quello. Quindi, perché è così importante il modo in cui qualcosa si dice? Perché è importante il linguaggio. Quindi, vedete che a questo punto non è più importante che cosa è l’essere in quanto tale, perché l’essere è in quanto tale per me e, quindi, ci sono con i miei πάθη, con le mie sensazioni, le mie emozioni, con il mio mondo. Sta dicendo, quindi, che l’ente è quello che è per me, perché è il λόγος di cui sono fatto che decide che cos’è quell’ente. Ne va qui di un λόγος autentico, il λόγος della θεωρία. Da quanto detto in precedenza sappiamo già che il λόγος ha un significato fondamentale nell’essere dell’uomo: ζῶον πρακτική μετά λόγου (vivente che agisce secondo il linguaggio). Badate bene, qui dice una cosa importante. Non dice che agisce secondo necessità, secondo le circostanze, gli avvenimenti, quello che sente, no, agisce secondo il linguaggio, μετά λόγου. Il λόγος si compie nel rivolgersi al mondo e nel discutere di esso. Nel λέγειν l’esserci del mondo e l’esserci in quanto vita pervengono all’interpretazione, di volta in volta a seconda della misura in cui l’ente si muove nel mondo. Schopenhauer aveva sfiorata la questione nel suo testo famoso Il mondo come volontà e rappresentazione, dove dice che ogni cosa è rappresentazione – anche se chiaramente non coglie la questione fino in fondo – che non c’è altro che rappresentazione. Ma la rappresentazione, come abbiamo detto, non è un qualche cosa che consente l’accesso all’ente che sarebbe da un’altra parte, per cui mi rappresento questa cosa, posso solo rappresentarmela, ma me la rappresento perché c’è questa cosa. No, quella cosa non c’è mai stata, ciò che rappresento non è mai stato, perché ciò che rappresento è un’altra rappresentazione. Questo è il significato più proprio di ciò che diciamo quando affermiamo che parliamo sempre e soltanto di parole. Per l’esserci dell’uomo sussiste la possibilità che questo determinato λέγειν, nel suo avere a che fare prendentesi cura, desista dal prendersi cura nel senso della ποιησις, cioè dell’avere a che fare che mira a realizzare qualcosa di concreto. Dice che parlando è anche possibile io non voglia soltanto fare delle cose, costruire un ponte, fare una scarpa, ecc., può anche accadere che io voglia parlare del linguaggio stesso. La πρᾶξις, insomma, può perdere il carattere della ποιησις, e non deve avere nemmeno per forza il carattere dell’agire: può assumere infatti il carattere del semplice occuparsi di qualcosa nel senso di trattarne. Il λόγος si autonomizza, diventa esso stesso la πρᾶξις. Sta percorrendo un po’ la via che noi potremmo anche indicare come la via che porta alla teoresi, e cioè dall’utilizzare il λόγος, secondo quella fantasia comune per cui si immagina che il linguaggio sia il modo di rapportarsi al mondo, di interpretarlo, ecc., a porre il linguaggio stesso come il mondo, al quale mi rivolgo. Questo modo dell’avere a che fare è la θεωρία, e non più il guardarsi attorno con lo scopo di… Al contrario, qui si tratta di rivolgere lo sguardo alle cose stesse, per coglierle nel loro essere ed esserci. È così che il teoretico, la scienza come possibilità, nasce e si sviluppa dall’esserci stesso. Questo stato di fatto fondamentale non va mai perso di vista. Ha ragione qui Heidegger. In effetti, il teoretico – lui parla di scienza, ma in un’accezione più ampia, più greca che attuale – muove dall’esserci stesso, ma questo esserci stesso non è altro che il λόγος che pensa se stesso. Come diceva prima: il λέγειν, il dire, diventa lui stesso l’oggetto di indagine. Dice che … la πρᾶξις, insomma, può perdere il carattere della ποιησις, dell’agire, Il λόγος si autonomizza, diventa esso stesso la πρᾶξις, diventa lui stesso il mio agire. Quindi, a questo punto riflettere sull’essere e sull’esserci è riflettere sul λόγος. Domandiamo; che aspetto ha il λόγος quando diventa autonomo, quando cioè lo intendiamo nel senso del trattare un argomento, con particolare attenzione all’ambito ontologico del φύσει ὅντα in quanto γινόμενα (eventi, accadimenti)? Aristotele procede con prudenza e individua non il modo del λέγειν, bensì il fenomeno più prossimo a esso conosciuto. Ed è su questa base che egli tenta di chiarire il λόγος peculiare della θεωρία. Com’è il λόγος della θεωρία? Cosa fa esattamente? Si tratterà dunque di indicare un contesto che abbia una determinata affinità con il λόγος della θεωρία. Questa modalità familiare dell’avere a che fare con le cose, affine alla θεωρία, è la τέχνη, una ποιησις, una “produzione” di qualcosa guidata e diretta da una competenza. La costruzione di una casa viene guidata dalla direzione dei lavori. E perché mai proprio questo ente, ovvero questo avere a che fare? Che sia la ποιησις il fenomeno più prossimo è senza dubbio evidente. Si deve spiegare però in che senso l’ente della ποιησις abbia una peculiare affinità con i φύσει ὅντα in quanto γινόμενα. Ora, i φύσει ὅντα non sono forse enti che non siamo noi a produrre, ma che per noi “ci” sono già, sono già lì nel mondo, e tuttavia in maniera tale da avere a che fare con il produrre inteso come un “produrre se stessi”, dunque “ci” sono nel “produrre se stessi”. Le cose, il legno, la pietra, ecc., sono a disposizione ma non sono prodotti da me. Si tratta di un risultato basilare. Aristotele si chiede quindi: che aspetto ha il λόγος nella τέχνη, e che aspetto avrà, di conseguenza, ha il λόγος come disamina pura? Aristotele si chiede che aspetto ha il λόγος nella τέχνη. Nella τέχνη ha un aspetto particolare, quello della finalità che vuole raggiungere. Ma come disamina pura, qual è la sua finalità? È questo che si sta chiedendo Aristotele. Nella τέχνη si tratta di costruire una casa o un accidente qualunque, ma nella disamina pura, come entra il λόγος, come gioca il λόγος in questo caso? Per cui dice che Bisogna considerare: 1. Come Aristotele caratterizza la τέχνη, ovvero gli ἒργα τέχνης (atti tecnici), l’ente che specificamente “ci” è per la τέχνη, nonché λόγος τέχνης. 2. In quanto “che cosa” si mostrano primariamente, come φαινόμενα, i φύσει ὅντα intesi come γινόμενα. /…/ Che aspetto hanno la τέχνη, gli ἒργα τέχνης e il λόγος della τέχνη? Andiamo a lag. 248. Ciò che importa è comprendere i φύσει ὅντα in base al loro λόγος. Comprendere gli enti di natura in base al loro λόγος, cioè, in base al modo in cui ne parlo, in cui ne dico. In questo contesto trae origine la ψυχή, com’è tema del φυσικός. Sappiamo che il φυσικός ha come tema la ψυχή. Essere attualmente presente ed essere prodotto sono le due determinazioni che rendono comprensibile il concetto di essere dei greci. Per i greci, due cose: essere presente ed essere prodotto, è questo il modo di pensare del greco. Tutta la natura, tutti gli enti di natura avevano questo aspetto per i greci: erano cose evidenti, cioè cose che si mostrano e che sono prodotte. Entrambi questi elementi debbono essere indagati con maggior precisione all’interno della stessa esistenza greca. Si deve cioè chiarire in che senso l’esistere dei greci è tale che il mondo e la vita vengono esperiti in questa finitezza, perché proprio questa esperienza dell’essere venga esplicata con questi mezzi concettuali. Qui sottolinea la finitezza e non è un caso se adesso parlerà del “se-allora”. La finitezza, è evidente: qualcosa è attualmente presente, “ci” è, come direbbe Heidegger, ed è prodotto. Quindi, sono tutti elementi che terminano la cosa, la rendono finita. Ora, ci sono altre domande qui. Consideriamo il terreno a partire dal quale Aristotele conduce la sua indagine sui caratteri ontologici e di presenza attuale dei φύσει ὅντα, il campo del noto a partire dal quale di rende comprensibile l’ignoto. Questo campo è costituito dagli ἒργα τέχνης, ciò che è lì, disponibile, in uso, utilizzabile… Ecco, questa è la forma forse migliore di tradurre gli ἒργα τέχνης, e cioè gli utilizzabili. …prodotto per l’azione e la lavorazione determinata di qualcos’altro. 2. Che aspetto hanno i φύσει φαινόμενα, la natura vivente? 3. Come hanno inteso l’essere dei φύσει φαινόμενα gli antichi fisiologi? /…/ Ad 1. Abbiamo iniziato con il primo punto, per richiamare alla mente gli ἒργα τέχνης. Nella sua riflessione primaria la τέχνη offre l’aspetto che deve avere ciò che va prodotto, il ποιητέον, nonché il procedimento della produzione stessa. Nel secondo passo citato, è Aristotele stesso a esplicitare il nesso tra l’aspetto, cui ci si rivolge parlando, della produzione e la produzione stessa. Tale nesso viene costituito tramite un determinato modo del parlare – il λόγος è caratterizzato dalla formula “se-allora”:… Quindi, la produzione e poi la produzione stessa, cioè ciò che viene prodotto. Il “se-allora” mostra tanto il producente quanto il prodotto. Il producente è l’antecedente, il prodotto è il conseguente: protasi e apodosi, dicevano gli antichi. …se questo e quest’altro dev’essere finito, allora deve avvenire questo e quest’altro. Il “se-allora” implica che in base all’aspetto di ciò che va prodotto sia richiesto un determinato “di che cosa” del produrre, una determinata ὕλη (materia). /…/ È necessario che una ὕλη fatta così e così, un determinato “di che cosa”, sia dapprima lì presente sottomano, lì a disposizione. Il “di che cosa” del produrre è presente di per sé in questa determinata disponibilità. Ma noi tutto questo dobbiamo pensarlo rispetto all’inferenza. È il “se” che mostra che cosa “ci” è disponibile per essere utilizzabile nell’“allora”.