M. Heidegger, Essere e Tempo
10 maggio 2017
Siamo a pag. 154. La mondità fu interpretata (§ 18) come l’insieme di rimandi della significatività. Quindi, la mondità è un insieme di rimandi, di segni. Nella familiarità precomprendente con la significatività, l’Esserci fa sì che l’utilizzabile sia incontrato e scoperto ella sua appagatività. L’utilizzabile, cioè, qualunque cosa serva a fare qualche cosa, qualunque cosa cui io mi rivolga, io la incontro nella sua appagatività, cioè, nel suo essere utile per qualcosa: incontro il posacenere, dopo che mi sono acceso la sigaretta la sua appagatività consiste nel metterci la cenere e poi spegnere la sigaretta una volta che ho terminato di usarla. La totalità articolata dei rimandi della significatività è radicata nell’essere dell’Esserci per il suo essere più proprio. La totalità articolata dei rimandi, dei segni, è ciò che fa dell’Esserci ciò che gli è più proprio, essere una serie di relazioni. Di conseguenza, per essenza l’Esserci non può avere alcun rapporto di appagatività col proprio essere, poiché si tratta di un essere in-vista-di-cui l’Esserci stesso è così com’è. L’Esserci, dice Heidegger, non è uno strumento, qualcosa da cui si può trarre l’appagatività, non è un mezzo, un qualcosa per qualche cos’altro, ma è per se stesso. L’appagatività è connessa con lo strumento, con l’utilizzabile. Se volete, la diciamo con Aristotele: la virtù dell’utilizzabile è l’appagatività, la virtù, l’ἀρετή, cioè, la sua eccellenza. L’utilizzabile raggiunge la sua eccellenza nel momento dell’appagatività, quando serve a quello per cui è fatto, quando mostra la sua funzione in atto e non in potenza. Ma dall’analisi ora condotta risulta che dell’essere dell’Esserci, essere in cui per l’Esserci ne va del suo essere stesso, fa parte il con-essere con gli altri. Quindi, l’Esserci è sempre un con-essere con gli altri, il suo mondo. Abbiamo visto che l’Esserci è questo, cioè l’essere nel mondo. Questa affermazione dev’essere intesa nel suo essenziale significato esistenziale. Anche quando il rispettivo Esserci non si cura, di fatto, degli altri, crede di poter fare a meno di loro o ne è privo, è sempre nel modo del con-essere. (pagg. 154-155) Anche se non c’è nessuno, anche se non mi prendo cura di nessuno in un certo momento, comunque in ogni caso sono nel mondo. Infatti, dice Nel con-essere, in quanto in-vista degli altri esistenziali, gli altri sono già aperti nel loro Esserci. Cioè, sono già presenti in qualche modo, sono presenti perché io so che esistono, perché comunque ci penso, perché comunque mi rivolgo, che siano presenti o meno, a qualcuno. Questa apertura degli altri, già preliminarmente costituita nel con-essere, contribuisce a formare la significatività, cioè la mondità, in quanto fondata nell’“in-vista-di-cui” esistenziale. Sta dicendo sempre la stessa cosa, e cioè il con-essere è ciò di cui è fatto l’Esserci, che comprende la mondità, che è già da sempre in atto, che è già da sempre dato, come dire che quando uno incomincia a parlare è come se fosse già da sempre nel linguaggio, perché essendo da sempre nel linguaggio può incominciare a parlare. La struttura della mondità del mondo è tale che gli altri non sono, innanzi tutto, semplicemente-presenti nel mondo come soggetti sciolti, giustapposti ad altre cose… Questo lo avevamo già visto, non si tratta mai, per Heidegger, di semplici presenze giustapposte a qualcosa, questo aggeggio non è semplicemente sopra il tavolo, è lì perché ci sono io, perché è funzionale a qualche cosa. … essi si manifestano nella loro particolare maniera di essere nel mondo a partire da ciò che è utilizzabile in esso. Questo è importante. Gli altri sono sempre e comunque qualche cosa di utilizzabile. Lui dice “sì, ci sono perché rientrano nell’utilizzabile del mondo ma gli altri mi interessano perché sono utilizzabili”: non l’ha detta lui, la sto dicendo io. Passiamo al paragrafo 27 L’esser se-Stesso quotidiano e il Si. A pag. 157. Il risultato ontologicamente rilevante della precedete analisi del con-essere consiste nell’aver stabilito che il “carattere di soggetto” del proprio e dell’altrui Esserci è da determinarsi esistenzialmente, ossia a partire da certe maniere di essere. Cosa vuol dire che questo soggetto deve essere determinato esistenzialmente? Significa che è un esistenziale e non una categoria, significa cioè che è qualcosa che appartiene all’Esserci, che non è una cosa giustapposta, che si può incontrare oppure no, è invece una parte integrante, se noi poniamo il soggetto in questa maniera, beh, se ne può anche parlare. Chiaramente non è più il soggetto cartesiano, quello che si contrappone all’oggetto, ma è qualcosa che emerge dal modo di essere di ciascuno, cioè dal suo progetto, dalla specificità del suo progetto, dal modo in cui lo cogliamo mentre progetta. In ciò di cui ci prendiamo cura nel mondo-ambiente incontriamo gli altri così come essi sono, ed essi sono ciò che vanno facendo. Ovviamente, questo “ciò che essi sono” è sempre da intendersi in Heidegger come sono per me, nel mio progetto, perché lui non li sta ponendo come soggetti, e su questo è stato preciso, in quanto obiettivabili ma sempre e comunque come qualche cosa che appartiene al mio mondo, e io appartengo al mondo di qualcun altro. A pag. 158. Il prendersi cura di ciò che si è raggiunto con, per o contro gli altri è costantemente dominato dalla preoccupazione di distinguersi dagli altri; essa può assumere perfino la forma della negazione di ogni differenza o quella di uno sforzo di riportare il proprio Esserci, rimasto inferiore, al livello degli altri o, infine, postisi al di sopra degli altri, di mantenerli in uno stato di sottomissione. L’inizio del capoverso è fondamentale perché lui dice Il prendersi cura di ciò che si è raggiunto con, per o contro gli altri è costantemente dominato dalla preoccupazione di distinguersi dagli altri. Il prendersi cura degli altri non è altro che un modo per dominarli. È questo il prendersi cura degli altri e, quindi, a maggior ragione, delle cose. Il prendersi cura, che per Heidegger, è fondamentale, è il progetto, in definitiva. Il prendersi cura, per dirla con Nietzsche, è la volontà di potenza, la volontà di potenza è il prendersi cura di una qualunque cosa, per qualunque motivo, e noi sappiamo che il motivo è: controllarla. L’essere-assieme, anche se nascostamente, è preoccupato di questa commisurazione agli altri. Freud parlerebbe di “narcisismo delle piccole differenze”. In termini esistenziali, esso ha il carattere della contrapposizione commisurante. Ci si contrappone e ci si misura, vediamo chi è più bravo. Quanto più questo modo di essere passa inosservato all’Esserci quotidiano stesso, tanto più tenacemente e originariamente opera in esso. Meno uno si accorge di una cosa del genere tanto più la mette in atto, che è un po' che stiamo dicendo ultimamente, e cioè che l’unica cosa che è possibile fare, rispetto al prendere atto dell’impossibilità di uscire da una struttura metafisica, è prendere atto che siamo all’interno di una struttura metafisica. Questa contrapposizione commisurante, che appartiene al con-essere, implica che l’Esserci, in quanto Esserci-assieme quotidiano, stia nella soggezione agli altri. E, cioè, ci si sottopone comunque sempre al giudizio degli altri per potere commisurare, per potere misurare, in definitiva. Non è se stesso, gli altri lo hanno sgravato del suo essere. Cioè, non è più se stesso, come dire che il suo progetto non è più quello di affrontare, interrogare le questioni per quello che sono e trovare delle aperture, ma è il misurarsi con gli altri. L’arbitrio degli altri dispone delle possibilità quotidiane dell’Esserci. Gli altri non sono però determinati altri. Al contrario, essi sono interscambiabili. Decisivo è solo il dominio inavvertito degli altri che l’Esserci, in quanto con-essere, assume sin dall’inizio. Quindi, è sempre una questione di dominio. Si appartiene agli altri e si consolida così il loro potere. Quelli che son detti in tal modo “gli altri”, quasi per nascondere la propria essenziale appartenenza ad essi, sono coloro che, nell’essere-assieme quotidiano, ci sono qui innanzi tutto e per lo più. Il Chi non è questo o quello, non è se stesso, non è qualcuno e non è la somma di tutti. Il “Chi” è il neutro, è il Si. Il si dice, chi lo dice? Si dice. Questo Chi, che riguarda appunto gli altri, con cui mi commisuro, non è un Chi in quanto tale ma è un Si, cioè, è diventato chiunque. Fa poi una considerazione intorno a questo Si, che è come se liberasse la persona della propria specificità, del proprio progetto autentico, che comporta un mettersi in gioco, un domandare, un interrogare. La questione, che Heidegger come al solito rende difficile, è in realtà molto semplice. Sta dicendo che è molto più semplice prendere un’opinione comune, quella del Si, piuttosto che affrontare la questione, interrogarla e considerare se ciò che si sta affermando, per esempio, ha un fondamento oppure no. Il Si mi sbarazza di questo impegno, non solo, dice che è una sorta di livellamento perché, a questo punto, io faccio parte di tutti coloro che dicono quella cosa lì. Quindi, io accolgo il Si, non soltanto perché è più semplice, ma perché mi fa pensare di appartenere al gruppo che dice le cose come stanno, e qui torniamo di nuovo alla volontà di potenza. Infatti, a pag. 159, dice Il Si sgrava quindi ogni singolo Esserci nella sua quotidianità. Non solo. Il questo sgravamento di essere, il Si si rende accetto all’Esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili. Appunto perché il Si, mediante lo sgravamento, si rende sempre accetto a ogni singolo Esserci, mantiene e approfondisce il suo ostinato dominio. È esattamente ciò che dicevo prima. Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso. Nessuno è se stesso in quanto si è livellato a questo Si e, quindi, non più lui. Il Si, come risposta al problema del Chi dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni Esserci si è già sempre abbandonato nell’indifferenza dell’essere-assieme. (pag. 160) Con l’interpretazione del con-essere e dell’esser se-Stesso nella forma del Si, si è data risposta al problema del Chi della quotidianità dell’essere-assieme. (pag.162) Cioè, abbiamo inteso come ciascuno vive la sua quotidianità nel suo con-essere, nel suo mondo: attraverso il Si. L’essere-nel-mondo è stato reso visibile nella sua quotidianità e nella sua medietà. Passiamo a pag. 163, al Capitolo V L’in-essere come tale, paragrafo 28 Il compito di un’analisi tematica dell’in-essere, cioè dell’essere in, dell’essere dentro le cose, dell’essere nel progetto. Nel suo stadio preparatorio, l’analitica esistenziale dell’Esserci ha come suo tea conduttore la costituzione fondamentale di questo ente, l’essere-nel-mondo. L’ente che sono io, l’Esserci. Il suo obiettivo immediato è la scoperta fenomenica della struttura unitaria e originaria dell’essere dell’Esserci, in base alla quale si determinano ontologicamente le sue possibilità e le sue maniere di “essere”. Cioè, intendere l’Esserci come fenomeno è ciò che ci consente di intendere in che modo l’Esserci si manifesta di volta in volta, cioè le sue maniere di essere. Finora la caratterizzazione fenomenica dell’essere-nel-mondo ha preso in esame il momento strutturale del mondo e il problema del Chi di questo ente nella sua quotidianità. Ma già nel primo schizzo dei compiti dell’analisi fondamentale preparatoria dell’Esserci fu anticipato qualche cenno orientativo sull’in-essere come tale, esemplificato concretamente da quel suo modo che è la conoscenza del mondo. L’in-essere come tale è già qualche cosa che si discosta dal Si, dalla medietà, dalla quotidianità. Questo esame più approfondito dell’in-essere non ha solo lo scopo di una rinnovata e più sicura ispezione fenomenologica della totalità delle strutture dell’essere-nel-mondo, ma anche quello di aprire la via per cogliere l’essere originario dell’Esserci stesso, la Cura. Però, prima aveva detto che il prendersi cura, di fatto, non è altro che il cogliere negli altri la loro utilizzabilità ma, evidentemente, qui sta approcciando questa questione del prendersi cura in un altro modo, come dire che non c’è soltanto il modo di considerare l’altro come uno strumento, anche se si potrebbe discutere su questo. Ma l’analisi dell’essere-nel-mondo che cosa mai può aggiungere a quanto fu già detto a proposito dei rapporti essenziali dell’esser-presso il mondo (prendersi cura), del con-essere (aver cura) e dell’esser se-Stesso (Chi)? Resta semmai la possibilità di perfezionare e allargare l’analisi mediante la caratterizzazione comparativa delle modificazioni del prendersi cura e della sua visione ambientale preveggente, dell’aver cura e del rispettivo “riguardo”; resta inoltre la possibilità di porre in maggiore risalto la diversità fra l’Esserci e l’ente non conforme all’Esserci mediante una esplicazione più precisa dell’essere di ogni ente intramondano possibile. (pagg. 163-164) Sta solo dicendo che qui incominciamo a porre più attenzione alla questione del prendersi cura e, quindi, dà un maggiore risalto alla diversità tra l’Esserci e l’ente non conforme all’Esserci, cioè, un’altra cosa. L’Esserci è quell’ente che può domandare di sé, altri enti, no. A pag. 165 dice L’ente la cui essenza è costituita dall’essere-nel-mondo è sempre esso stesso il suo “Ci”. Nel suo significato più familiare, il “Ci” indica un “qui” o un “là”. Quindi, l’essenza dell’Esserci è sempre un essere qui rispetto a un là, quindi, la sua mondità, il suo essere nel mondo, il suo essere all’interno di una combinazione di relazioni. Il “qui” di un “io qui” è sempre compreso a partire da un “là” utilizzabile, nel senso di un essere-per questo utilizzabile, essere-per che si prende cura, orienta e disallontana. E torniamo alla questione di prima, fondamentale per Heidegger, cioè io sono qui, in questo momento, sempre in vista di un là utilizzabile, quindi, sempre in vista di un’utilizzabilità di qualche cosa: io sono qui perché sto usando qualcosa. L’essere qui per usare qualcosa è il progetto, di fatto. “Qui” e “là” sono possibili solo in un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del “Ci”, ha aperto la spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non-chiusura. Una proprietà dell’Esserci è di non essere chiuso ma di trovarsi nell’aprire mano a mano che incontra le cose ad aprirle alla comprensione, aprirle all’interpretazione. Poco prima diceva La spazialità esistenziale dell’Esserci, che ne determina il “posto”, si fonda anch’essa nell’essere-nel-mondo. Come dire che la spazialità, di cui sta parlando, è il posto che io mi trovo ad avere all’interno del progetto rispetto a ciò che sto utilizzando, e sono nel progetto perché io voglio utilizzare qualcosa per qualcos’altro. Solo per un ente aperto esistenzialmente in questo modo come radura ciò che è semplicemente-presente può venire in luce o restare nell’ombra. Soltanto perché rappresenta il là del mio qui, cioè, è un qualche cosa verso cui io tendo, per cui questa cosa esiste, perché mi serve per fare qualcosa, questa è la sua esistenza. Ci proponiamo ora di chiarire la costituzione di questo essere. Poiché l’essenza di questo ente è la esistenza… L’essenza di questo ente è il fatto di esistere, esistere perché? Perché sa di esistere, perché in qualche modo il suo essere nel mondo, il suo voler fare delle cose, tutte queste cose messe insieme sono la sua esistenza, esiste in queste cose, non è che ha un’esistenza rispetto alla quel si giustappongono altre cose, no, lui è queste altre cose. …la tesi esistenziale: “l’Esserci è la sua apertura”, significa anche: l’essere in virtù del quale per questo ente ne va del suo essere è l’aver-da-essere il suo “Ci”. (pagg. 165-166) Cioè, ciò che ne va dell’ente rispetto al suo esserci, al suo essere qui e adesso, è l’avere da essere, io ho da essere questo Ci, ho da essere il mio essere nel mondo, perché se non ho questo non ho niente, se sono fuori del mondo non esisto, quindi, io ho sempre da essere nel mondo. Passiamo al paragrafo 29 (pag. 167) L’Esser-ci come situazione emotiva. Ciò che in sede ontologica… quindi, non psicologica. …indichiamo con l’espressione “situazione emotiva” è onticamente… cioè, per quanto riguarda l’ente. …un fenomeno ben noto e quotidiano: la tonalità emotiva, l’umore. Ci proponiamo ora di esaminare questo fenomeno come esistenziale fondamentale… esistenziale, quindi, riferito all’uomo. …e di fissarlo nella sua struttura al di fuori di ogni elaborazione psicologica, che del resto manca del tutto. Il modo in cui lui affronta la questione dell’emozione, come dice in modo specifico, non ha nulla a che fare con la psicologia. Quindi, con che cosa può avere a che fare? Adesso ce lo dice. L’equanimità serena e il malumore inibente del prendersi cura quotidiano, il loro alternarsi, il cedimento a indisposizioni non sono ontologicamente insignificanti, anche se questi fenomeni passano inosservati perché ritenuti qualcosa di estremamente indifferente e labile nell’Esserci. Ha detto una cosa importante, attorno a cui ruoterà tutto il suo discorso: la serenità o il malumore del prendersi cura quotidiano, quindi, è qui che qualcosa di rilevante accade rispetto all’umore. Ci sta dicendo che questo umore è strettamente connesso con il prendersi cura. Che le tonalità emotive possano mutare o capovolgersi significa solo che l’Esserci è sempre in uno stato emotivo. L’indifferenza emotiva, sovente persistente, uniforme e diafana, e tuttavia non confondibile con l’indisposizione, è così poco un niente che proprio in essa l’Esserci è di tedio a se stesso. Cioè, la persona è annoiata da se stessa. In questa indifferenza c’è tutt’altro che un nulla. Come quando il tizio chiede alla sua fanciulla “Che cos’hai?” e lei risponde “Niente”, questo niente generalmente dall’uomo viene preso come un nulla ma non è proprio esattamente così, perché quel niente è carico e foriero di conseguenze. L’essere del Ci si è rivelato in tale indisposizione come un peso. Perché? Non si sa. E l’Esserci non può sapere queste cose perché le possibilità rivelatrici del conoscere sono di gran lunga inadeguate rispetto all’apertura originaria delle tonalità emotive in cui l’Esserci è posto innanzi al suo essere in quanto Ci. Come dire che le cose che sa, di cui dispone, sono insufficienti perché questa questione emotiva, di cui sta parlando, è qualcosa di più originario, di più antico, e quindi ciò che sa non gli è sufficiente. Questo però non impedisce di saperne comunque qualcosa. Parla del carattere di peso dell’Esserci. Perché dovrebbe essere pesante l’Esserci? Dice Certamente una tonalità emotiva euforica può liberarci dal peso dell’essere; ma questa stessa possibilità emotiva rivela, sia pure liberandocene, il carattere di peso dell’Esserci. Perché questo carattere di peso dell’Esserci? La tonalità emotiva rivela “come va e come andrà”; mediante questo “come va” lo stato emotivo insedia l’essere del suo “Ci”. Ci sta dicendo che il “come va”, cioè, il modo in cui io mi sto rapportando alle cose, insedia l’essere nel suo “Ci”, cioè decide del mio modo con cui io sto costruendo il mio progetto, il modo con cui mi sto rapportando al mio progettare, il modo con cui mi sto relazionando al mondo in cui mi trovo. Nello stato emotivo l’Esserci è già sempre emotivamente aperto come quell’ente a cui esso è rimesso nel suo essere in quanto essere che esso, esistendo, ha da essere. Anche in questo caso l’Esserci è già sempre aperto, lui dice, quell’ente a cui esso è rimesso nel suo essere in quanto essere, cioè, è sempre aperto a quel qualcosa, diciamo all’utilizzabile. Dice è già sempre emotivamente aperto a quell’ente, cioè a me, che sono in quanto sono in vista di qualche cos’altro. “Aperto” non significa però riconosciuto come tale. L’Esserci, dice, non riconosce questa apertura emotiva, già da sempre in atto, che ha verso le cose. È proprio nella quotidianità più indifferente e anodina che l’essere dell’Esserci può rivelarsi improvvisamente come un nudo “che c’è e ha da essere”. Dice che è proprio nella quotidianità più banale che l’essere dell’Esserci, cioè la sua essenza, si rivela come un qualche cosa che c’è e ha da essere. Voi parlate con chiunque, immediatamente questi vi dirà il suo progetto, che cosa vuole fare, in che modo vuole modificare qualche cosa, per esempio, il vostro modo di pensare imponendovi il suo. Il puro “che c’è” si manifesta; il donde e il dove restano invece nascosti. (pagg. 167-168) Cioè, da dove viene questa cosa e dove va. Il da dove viene e dove va è la domanda che l‘Esserci dovrebbe porsi nel momento in cui affronta autenticamente la propria esistenza. L’espressione esser-gettato sta a significare l’effettività dell’esser-rimesso. Noi potremmo aggiungere “nell’esser rimesso in gioco” continuamente. Il “che c’è e ha da essere”, aperto dalla situazione emotiva dell’Esserci… Quindi, la situazione emotiva dell’Esserci è quella che apre alla questione del “che c’è” qualche cosa e che “ha da essere” ma questo “che c’è e ha da essere” è ciò che riguarda l’utilizzabile: c’è e ha da essere qualche cos’altro perché io intervengo e lo modifico, per esempio. … non è quel “che” il quale, sul piano ontologico-categoriale, esprime la fattualità propria della semplice-presenza. Sta dicendo e ripetendo all’infinito che questo “che” non è una semplice-presenza, non si tratta di questo. Il “che” è un’altra cosa perché dice che Tale fattualità, cioè l’essere un fatto, è accessibile solo alla constatazione osservativa. Al contrario, il “che” aperto nello stato emotivo dev’essere inteso come determinazione esistenziale dell’ente esistente nel modo dell’essere-nel-mondo. Sta dicendo che questo “che”, questo qualcosa, che viene aperto nello stato emotivo, cioè, nel modo in cui io mi approccio a questa cosa, deve essere inteso come una determinazione esistenziale dell’ente, cioè, come un qualche cosa che determina il modo in cui l’ente, l’Esserci, esiste in questo momento, cioè nel suo modo di essere nel mondo. L’effettività non è la fattualità, il factum brutum della semplice-presenza, ma un carattere dell’essere dell’Esserci, inerente all’esistenza, anche se, innanzi tutto, rimosso. Il “che” dell’effettività non è mai riscontrabile in un semplice osservare. Come dire, in altri termini, che non si tratta di qualcosa che osservo così com’è semplicemente, questo “che” non è il fatto bruto della semplice presenza, ma è un carattere dell’essere dell’Esserci, inerente all’esistenza. Questo “che” non è un fatto bruto, questo posacenere non è un fatto bruto ma è un qualcosa che appartiene alla mia esistenza. A pag. 169 dice Si disconoscerebbe completamente che cosa e come la tonalità emotiva apre, se si ponesse ciò che da essa viene aperto sullo stesso piano di ciò che l’Esserci emotivamente situato “nel contempo” conosce, sa e crede. Ciò che questa tonalità emotiva apre non ha niente a che fare con ciò che si conosce, con ciò che si sa, perché questa tonalità emotiva è il modo in cui ci si apre a qualche cosa, cioè, si lascia che qualche cosa appaia, che, potremmo dire così, esca dal nascondimento. Anche se l’Esserci si ritiene per fede “sicuro” del suo “verso dove” o se, per conoscenza razionale, reputa di conoscere il suo “donde”, … come fa la fisica, per esempio. …nulla di ciò può contestare il dato fenomenico che la tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi al “che” del suo Ci, che gli sta di fronte come un enigma inesorabile. Perché è un enigma inesorabile? Dice che tutto ciò che ad esempio la scienza afferma, la sua sicurezza, la sua certezza, ecc., tutto questo non scalfisce minimamente il fatto che noi ci troviamo di fronte a un qualche cosa che è aperto dal mio umore. È il mio umore di questo momento, adesso sto semplificando, Heidegger è più raffinato, che decide di ciò che per me questa cosa è in questo momento, cioè, in definitiva, di ciò che è questa cosa, perché questa cosa non è se non ciò che è per me in questo momento. È anche il mio umore che decide di questo. Heidegger dice che la scienza vorrebbe cogliere con certezza, ecc., però poi, di fatto, si trova di fronte a un qualche cosa che non sa assolutamente spiegare, il che cos’è una certa cosa, ma per affrontare questa domanda occorre tenere conto anche di questo, del mio umore mentre l’affronto, della mia tonalità emotiva, cioè del modo in cui mi apro verso una certa cosa. Sul piano ontologico-esistenziale non si ha alcun diritto di screditare l’“evidenza” della situazione emotiva mediante il confronto con la certezza apodittica che caratterizza la conoscenza teoretica delle semplici-presenze. Non minore è la falsificazione del fenomeno quando lo si confina nell’irrazionale. L’irrazionalismo, come controparte del razionalismo, discorre semplicemente da orbo di ciò rispetto a cui questo è cieco. L’irrazionalismo è orbo, il razionalismo è cieco, il razionalismo, cioè, cioè il pensiero che vuole la razionalità, è cieco, ma che cosa non vede? Ecco la risposta. Che l‘Esserci, di fatto, possa, debba e non possa non padroneggiare le proprie emozioni mediante il sapere e la volontà, può attestare, in determinate situazioni esistentive, una specie di primato del volere e del conoscere. Ma tutto ciò non deve indurre nell’errore di negare ontologicamente la tonalità emotiva come un modo di essere originario in cui l’Esserci è già aperto a se stesso prima di ogni conoscere e volere e al di là della portata del loro aprire. Questa tonalità emotiva è ciò che non soltanto mi fa incontrare le cose nel modo in cui le incontro ma, potremmo anche dire, questa tonalità emotiva è determinata, e qui ci riportiamo a Nietzsche, dalla considerazione che ciò verso cui io mi riferisco, in quanto utilizzabile, sia funzionale oppure no alla volontà di potenza. In questo modo potremmo intendere molto meglio tutta la questione della tonalità emotiva che in Heidegger rimane piuttosto vaga. In effetti, non dice mai che cosa sia l’emozione, la dà per acquisita, ma a questo punto che cosa dà emozione se non l’incontrare l’aprirsi verso un qualche cosa che mi consente il superpotenziamento. A pag. 171. La contemplazione teoretica appiattisce anticipatamente il mondo nell’uniformità della semplice-presenza, anche se è vero che in virtù sua nasce il nuovo dominio di ciò che è scopribile solo in base alla determinazione definitoria. Ma anche la ϑεωρία più pura non è del tutto scevra di tonalità emotiva; la semplice-presenza si rivela alla contemplazione teoretica nel suo aspetto puro solo se questa affronta il proprio oggetto in modo imperturbato, nella ραστωνη e nella sua διαγωγή. Qui, a pag. 172, fa un riferimento alla questione emotiva. Il carattere della presente ricerca non permette l’interpretazione delle diverse modalità della situazione emotiva e della connessione dei loro fondamenti. Questi fenomeni sono noti onticamente da lungo tempo e furono studiati dalla filosofia sotto il nome di emozioni e di sentimenti. Non è a caso che la prima trattazione sistematica delle emozioni che la tradizione ci tramandi non sia stata condotta nell’ambito della “psicologia”. Aristotele analizza i πάϑη nel secondo libro della Retorica. L’interpretazione tradizionale presenta la retorica come una sorta di “disciplina”; essa deve invece essere intesa come la prima ermeneutica sistematica dell’essere-assieme quotidiano. È curioso: la retorica come la modalità fondamentale dell’essere assieme quotidiano. Che cosa fa la retorica? Insegna a vincere i discorsi, a vincere gli agoni dialettici. La pubblicità, come modo di essere del Si, non solo ha, in generale, una sua tonalità emotiva, ma ne ha bisogno e la “suscita”. L’oratore parla in essa e muovendo da essa. Ha quindi bisogno di conoscere le variazioni della tonalità emotiva per suscitarle e dirigere nel giusto modo. Heidegger non dice quello che io ho detto prima rispetto alla volontà di potenza, però, adesso sta parlando di questo, e cioè che la tonalità emotiva è un qualche cosa che interviene rispetto alla pubblicità, alla retorica, cioè rispetto al volere ottenere un qualche cosa attraverso…, potremmo dire semplicemente, attraverso la tecnica.
Intervento: è come se la tonalità emotiva mettesse di fronte a qualcosa di vero. Suscitare emozioni per vincere o per convincere, come se l’emozione avesse qualcosa di originariamente vero.
Sì, certo. Ciò che la persona “sente” è automaticamente vero, non ha bisogno di essere sottoposto a un criterio verofunzionale: sarà vero che sento paura? Sarà vero che sento disgusto? Chi mai si pone una domanda del genere? Dice semplicemente: ho paura.
È noto come l’interpretazione delle emozioni sia stata continuata nella Stoa e come essa sia stata trasmessa all’età moderna attraverso la teologia patristica e scolastica. È invece poco noto che l’interpretazione ontologico-fondamentale dei principi delle emozioni non ha compiuto alcun passo avanti degno di nota da Aristotele in poi. Al contrario: emozioni e sentimenti, collocati tematicamente tra i fenomeni psichici, furono intesi come la terza classe di questi, accanto al rappresentare e al volere. Decaddero così al rango di fenomeni concomitanti. … Scheler, riprendendo spunti di Agostino e di Pascal, ha orientato la problematica nel senso della determinazione del fondamento delle connessioni fra atti “rappresentativi” e atti di “interesse”. Anche qui, però, restano sempre oscuri i fondamenti ontologico-esistenziali del fenomeno dell’atto in generale. Sì, restano oscuri i fondamenti del fenomeno dell’atto in generale. In effetti, Scheler non ha tenuto conto, anche perché non poteva farlo, della volontà di potenza. Qual è il fondamento dell’atto in generale? Che cosa muove ad agire? La situazione emotiva non solo apre l’Esserci nel suo essere-gettato ed esser-rimesso a quel mondo che gli è già sempre aperto insieme al suo essere, ma è anche il modo di essere esistenziale in cui l’Esserci si abbandona costantemente al “mondo” e viene affetto da esso in modo da evadere da se stesso. La costituzione esistenziale di questa evasione si farà chiara nel fenomeno della deiezione. Ciascuno si abbandona, questo Esserci si abbandona costantemente al mondo nel senso che, rivolgendosi al mondo, è come se, abbiamo visto prima nel caso del Si, si abbandona a ciò che pensa comunemente la gente, però, al tempo stesso ne viene modificato, c’è un ritorno, un andirivieni continuo