INDIETRO

 

 

10 marzo 2021

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo VIII, L’etica. Paragrafo 1. La responsabilità del vero. Più di una volta abbiamo avuto occasione di accennare al concetto caratteristico della logica del concreto, per cui la logica si converte nell’etica. E la soggettività del vero, esposta nel precedente capitolo, come l’atto in cui l’Io si pone, ci riconduce a questo concetto, che è senza dubbio dei più duri per chi sia uso a non pensare che con la sola logica dell’astratto. La verità mia è la mia verità, e io ne sono responsabile appunto perché essa è tutta mia, realtà di cui è in me il principio; cioè mia azione, me stesso. Essa è me stesso, in quanto io sono e non sono me stesso: io non sono immediatamente Io; e quell’Io che sono immediatamente, convien che cessi di essere affinché io sia Io. Questo è il movimento dialettico di Gentile, cioè, io sono io a condizione di non esserlo, a condizione che ci sia il non-Io. Paragrafo 3. Fenomenologia del mondo morale. L’uomo, soggetto dell’azione morale, è qui nella natura dove un tempo non fu, e una volta non sarà: natura per definizione varia e diversa, che è qui questa, e lì perciò è altra; e si divide in tante parti che si escludono a vicenda. E poiché si trova nella natura, l’uomo stesso è natura, ancorché il solo trovarvisi importi già un’interna distinzione tra lui e questa natura… /…/ La natura, in cui l’uomo si trova, è perciò una natura di molte cose e di molte persone: una natura, che, come tale, non è opera umana e postula l’esistenza di una persona sovrumana che l’abbia fatta, e che abbia nelle sue mani, insieme con la natura lo stesso uomo e il suo destino, poiché nella natura si trova anche lui. /…/ Tutta, dunque, questa natura dev’essere annullata: perché, se c’è essa, non c’è mondo morale. Questo annullamento ha quel significato che gli conferisce l’esperienza che l’uomo ne fa in se stesso, in quanto egli prima di tutto, come abbiam detto, deve già annullare se medesimo. La quale esperienza dimostra che per questo annullamento egli non deve accendere un rogo, e precipitarvisi sopra. Se questo facesse, egli si annullerebbe in natura, cessando di essere quello che egli è in quanto esiste in natura; ma non esistendo più in natura,…Quando si accorge che la natura è lui stesso che pensa. …egli neppure agirebbe per fondare il suo mondo morale. Egli deve conservarsi nel suo stesso annullarsi, come gli accade di fare in quanto vuole, e volendo è lo che vuole e realizza così col volere il suo essere spirituale. /…/ Poiché quell’Io che sono, lo sono in quanto tra me e me, fra me che pongo e me quale mi pongo, sono lo stesso Io. Ci sono io e io che mi pongo, il mio pormi. E la stessa cosa che il dire e il detto: ci sono io che dico e io che dico il qualche cosa che sto dicendo. La mia libertà è sempre un problema. Ciò è nella legge fondamentale del dialettismo, per la quale io sono io, in quanto non sono immediatamente. /…/ L’uomo attraverso il lavoro e attraverso il diritto non s’è veramente impadronito della natura,… L’obiettivo è sempre stato quello di impadronirsi della natura. Ancora oggi, con la tecnica, l’obiettivo non è cambiato. …non l’ha vinta, non l’ha annullata. Ecco essa risorge: risorge, p. es., nella siccità, nella piena del fiume che straripa e allaga i campi coltivati, nel terremoto, nel fulmine; e quando tutte queste forze possenti fossero domate, nella indomabile morte; risorge nel delitto e nell’anarchia, che schianta lo Stato onde si garentisce quel tanto di signoria che l’uomo ha conquistato sulla natura. L’uomo è da capo isolato, assalito dal sospetto di non poter vincere la lotta, di non poter volere, di non potersi fare signore del mondo,… Il problema è che se non può volere non c’è neanche una morale, un’etica. L’etica è qualcosa che lui, l’uomo, vuole ma, se è completamente in balìa del mondo esterno, non può esserci nessuna etica. …di non poter fondare il mondo della libertà. Non lì, nelle cose e negli uomini, egli può dar battaglia alla natura. Di là è Dio: Dio, che ha fatto cose ed uomini, e lui stesso, l’uomo che vuole, e procede trepidando nella natura, pel sospetto di non poter quando che sia vincere la dura prova della sua libertà. Dio è la volontà, che tiene in pugno il tutto; egli vuole nelle cose e vuole nelle volontà. Con lui bisogna fare i conti; nella sua volontà, in questa suprema volontà, risolvere la propria: nella volontà di Dio trovare la legge che sia per davvero legge: la legge che sola può, se legge della umana volontà, risolvere il problema umano della libertà, il problema del mondo morale. Vale a dire, bisogna ritrovare un potere sulle cose perché ci sia una morale, cioè, ritrovare la possibilità di volere, ché l’uomo può volere se ha uno spazio in cui muoversi, in cui fare; se non ne ha nessuno, non può volere niente, è in balìa di tutto quello che accade. Si può variamente esporre questa situazione, che è la situazione centrale dello spirito come vita morale. Possiamo non parlare di Dio, ma deifichiamo lo Stato; possiamo negare lo Stato, la società in cui lo Stato si attua, ma deifichiamo le cose, o la cosa in cui prima s’imbatte la nostra personalità. /…/ Le cose diventano proprietà, attributo della persona, e quindi tutt’uno con la persona. La quale s’incorpora non pure nel suo corpo, ma nelle cose a cui il suo corpo si lega, e quindi in tutta la natura con cui essa entra, mediante il corpo, in rapporto. E se in questa natura ci sono altri uomini, essi ci sono per l’uomo, in quanto anche con essi egli si lega, e fa società, e anche in essi quindi s’incorpora. Dietro a questa natura sorge e giganteggia Dio? Ebbene, anche con lui l’uomo si scontra e fa società: e tutto perciò assimila a sé e aduna nella vita sua, che si spande quindi infinita. Questa è la conclusione etica di tutto il discorso dell’attualismo: gli altri sono io in quanto li penso. È in questo senso che si “incorpora” tutto: gli altri ci sono in quanto io li penso e il loro pensieri, nel momento in cui li penso, sono i miei pensieri in quanto li penso io. Paragrafo 5. Molti i problemi, unica la soluzione: molti i problemi da risolvere, uno il problema che si risolve. Ed è quello che l’uomo risolve infatti nell’atto unico del pensiero, in quanto non si volge ad altro o agli altri, ma si volge a sé e in se stesso si concentra. Il rapporto morale non è invero né rapporto con le cose, né rapporto con gli uomini, e né anche rapporto con Dio, se non in quanto le cose e gli uomini si riconducano a Dio, e questi si risolva nello stesso pensiero in atto. Qui è tutto, e qui è il termine di ogni nostra volontà morale. Un mondo senza la coscienza che lo contenga è nulla: nulla lo Stato senza la volontà che lo sorregga, senza gl’individui pronti sempre a sacrificarsi per esso; nulla neppure Dio, senza un’anima che riempia del suo spirito. Ma pensate, e nel pensiero vi si spiega, con tutta la sua mole immensa per i secoli dei secoli la natura. /…/ L’Epilogo, Capitolo I, Paragrafo 1. Le due logiche e la logica. Tra la logica dell’astratto e la logica del concreto non c’è l’opposizione e reciproca esclusione, che è in ogni dualità che sia tale. C’è forse opposizione tra la vita di un animale e le funzioni del suo sistema circolatorio? L’opposizione che ha dato luogo al grande contrasto tra la logica dell’idealismo e la vecchia logica metafisica non è opposizione tra logica dell’astratto e logica del concreto; ma tra logica astratta dell’astratto, che toglie il logo astratto per concreto e nega perciò il concreto, e logica concreta dello stesso logo astratto, che, considerando l’astratto come tale, mette il pensiero in grado di superarne l’astrattezza col risolvere questo logo nel logo concreto: rispetto al quale infatti il logo astratto è tale. Il logo astratto esiste perché esiste il logo concreto: è questa la questione. Ed è per questo che non lo posso astrarre, cioè fare l’astratto dell’astratto, perché se tolgo l’astratto tolgo il concreto, e viceversa. In conclusione, l’astrattezza può colpire sì la logica dell’astratto (che si scambia allora per concreto) e sì la logica del concreto (che si converte allora nell’astratto). E una logica concreta deve superare la doppia astrattezza, ed essere concreta logica del logo astratto e del concreto insieme: non potendo essere concreta logica dell’astratto, se non lo è pure del concreto, né viceversa. E questa logica dunque è bensì una logica eclettica, ma di quel sano eclettismo che concilia gli opposti negando la loro reciproca negatività, e qui concilia Aristotele ed Hegel, in quanto toglie ad Aristotele quello che lo rende inconciliabile con Hegel, e a questo ciò che lo rende inconciliabile con Aristotele: nella sintesi, fuori della quale tesi e antitesi sono due momenti astratti. Questo è il lavoro importante di Gentile: di avere inteso che tutto ciò cha la filosofia, il pensiero, ha fatto fio a Hegel, e anche oltre, è stato sempre quello di contrapporsi a un altro pensiero, senza integrarlo, senza accorgersi che ciascuno stava esplorando, articolando, un aspetto del problema, e cioè erano tutti astratti. Ciò che ha pensato Gentile è di integrarli in un concreto: tutti i vari pensatori, da Empedocle fino a Hegel, ciascuno di loro ha immaginato muovendo nell’astratto di essere nel concreto, di essere nel tutto, cosa che non è possibile. Ciascuno è rimasto nell’astratto fino a Gentile, che invece si accorge che tutti questi sono momenti che non si escludono da uno stesso, potremmo dire, racconto. Ed è quello che accade a ciascuno pensando, immaginando che quello che sta pensando sia il tutto, l’universale, mentre è soltanto l’astratto. Paragrafo 2. Il logo concreto come sintesi di logo astratto e logo concreto. Sintesi dialettica, cioè a priori, e libera: i cui momenti si possono designare come logo astratto e logo concreto, poiché entrambi scaturiscono dalla virtù autosintetica dell’Io. Il quale si pone come logo concreto, ma come logo concreto che è negazione dell’astratto, e che include perciò questo suo opposto: quindi si pone come dualità e come unità di logo astratto e concreto. In quanto posizione di unità esso è dualità: ed è perciò non solo logo concreto, ma anche logo astratto; pensiero che è non solo pensare, ma anche pensato. Qui ritorna sulla questione iniziale: il pensiero pensante e il pensiero pensato, che sono due momenti dello stesso. Pensa l’astratto e in questo pensare si fa natura: ma questo pensare è concreto pensiero dell’astratto, e perciò pensare se stesso, Io;… Pensando la natura penso me. …e quindi la natura, nell’atto che accenna a cinger di sé il pensiero, accerchiarlo, chiuderlo, sopprimerne la libertà, rifluisce nel seno stesso del pensare ed è lo stesso Io, essa stessa attuazione della libertà. Il concetto di libertà è evidente, perché se pensano la natura sono sempre io che penso, allora non sono più condizionato dalla natura come elemento esterno, non sono più sottomesso. E così anche rispetto alla tecnica – ricordiamo le pagine precedenti: la tecnica immagina sempre i dati ai quali si sottomette. Nel concetto di libertà di Gentile non c’è questa sottomissione, perché sono io che sto pensando questa cosa, la quale non mi sovrasta perché non mi precede, non c’è prima del mio pensiero. E questo non è poco. Paragrafo 3. La verità della logica antica e della logica nuova. Da una parte, il mondo antico, il mondo della natura, in cui lo spirito, per attingere la più alta coscienza di sé e attuarsi in tutta la sua piena realtà, si fa filosofia; la quale risolve se stessa e quindi tutta la realtà dello spirito nell’oggetto in cui si specchia e si nega: e non sa altra realtà che questa che gli si oppone: la natura. La natura appunto si specchia. Ma per specchiarsi occorre che ci sia qualche cosa che sia fuori di me. Ma questa non è più libertà, dice Gentile; la libertà sta nell’accorgermi che sono io che penso questa cosa che non preesiste il mio pensiero. Ogni filosofia è una battaglia contro l’astrattezza, per attingere il concreto, l’individuo. Questo è ciò che ha fatto ogni filosofia: il tentativo di trasformare l’astratto in un universale, senza accorgersi che così facendo faceva soltanto un astratto dell’astratto, che non arriva mai al concreto. E Aristotele esprime in modo cospicuo quest’esigenza contro quella forma di astrattezza, a cui si era arreso il Platonismo; e quantunque il suo individuo non sia il vero individuo, non può contestarsi che la metafisica e la logica aristotelica mirino al pensamento dell’individuale, in cui è la concretezza, quantunque il filosofo non riesca a vincere l’astrattezza del logo, con cui confida di raggiungere l’individuo e assumerlo nel pensiero. Immaginando che sia qualcosa fuori di lui. Capitolo II, L’unità della filosofia, Paragrafo 1. Logica formale e logica leale. È una tappa anche la logica, e anche questa logica, sulla via che il pensiero percorre nella persecuzione del suo ideale: un problema, la cui soluzione fa rampollare un nuovo problema, e sospinge perciò e dirige, in quel senso in cui ormai, senz’altra avvertenza, queste parole devono essere intese, il pensiero nel suo cammino. Praticamente, leggere, intendere, appropriarsi e vivere la verità di questa logica: e poi dimenticarla, e pensare, pensare liberamente, da sé, instancabilmente; ecco tutto l’obbligo che può avere l’essere pensante verso questa logica. Lo stesso obbligo che verso qualunque altro libro in cui sia un pensiero. Io non ho avuto questa pretesa di dare regole di pensare, che i lettori e i posteri tutti dovessero tener presenti e applicare! E già in ogni tempo male è incolto a chi ha cercato memento, e ne ha trovati infatti, poiché tutto quello che si cerca si trova, per la semplice ragione che quello che si cerca s’è già trovato, non solo nelle logiche, nelle poetiche, nelle grammatiche, nelle casistiche e in ogni sorta di manuali di regole e di ricette, per la vita dello spirito, astratte da questa vita e poste accanto o sopra di essa per accompagnarla, guidarla, governarla a ogni passo, ad ogni mossa, ad ogni respiro, ma negli stessi esemplari della vita, considerati appunto come esemplari, di cui fosse da ripetere ogni atteggiamento, vuotato di quell’anima che l’imitabile exemplum ci aveva messo dentro. È la stessa cosa che diceva dei testi: Socrate non è quel Socrate là, ma è il Socrate che sto leggendo io adesso, che sta vivendo nei miei pensieri, è questo Socrate. Paragrafo 3. II problema della distinzione. /…/ si presuppone che ci sia A e ci sia Io; e perciò che A sia prima di me, condizione mia, negazione della mia libertà;… Perché se la A esiste indipendentemente da me, comunque è un limite alla mia libertà. …scoglio, dico io, in cui rompe fatalmente ogni mio tentativo di pensare: di pensare checchessia. Questa posizione è insostenibile. Bisogna prendere altra via: Io e A non siamo due; perché Io non sono A in quanto sono A; e così, essendo e non-essendo, Io sono Io. Allora non ho più nulla da presupporre, ma tutto da porre, perché, in sostanza, io ho da porre me stesso. Ponendo qualche cosa io pongo me stesso in ciò che pongo. E comunque, col suo intervento non si può dire più che il reale sia A con le sue differenze; ma si dovrà dire che sia AB, perché le differenze non sono più le differenze di A, indistinguibile, ma di A in quanto A è in rapporto con B. Il che importa che la differenza non sia più immediata, e presupposta da B: ossia importa la negazione dell’ipotesi, che si trattava di difendere. Cioè: nego l’ipotesi che A e B siano per sé stanti, ma esistono in quanto relazione. Naturalmente, non è che questa relazione esista di per sé: io sono quella relazione, perché io penso quella relazione, non mi preesiste, né esisterà dopo di me. Paragrafo 4, La distinzione della filosofia come logica. La negatività originaria dell’atto che nega la natura per realizzare se stesso è il principio della filosofia come Teoria generale dello spirito: polemica contro tutte le forme di naturalismo e introduzione alla filosofia come teoria dell’atto in cui lo spirito consiste: atto che, appreso così, nella sua forma generale di libertà che nega e assorbe il meccanismo del mondo, si può vedere nel suo attuarsi concreto e positivo, nella sua legge, nella sua verità, mediante la Logica. Teoria generale dello spirito e Logica sono perciò due facce della stessa filosofia: una delle quali guarda al negativo, e l’altra al positivo. La prima è quasi il tornare dello spirito dal mondo in cui esso immediatamente è distratto, a se stesso; la seconda il procedere dello spirito da sé a sé,… Ultimo capitolo, L’apologia, che letteralmente è la difesa. Paragrafo 3. La doppia accusa di misticismo e di ateismo. Qui difende l’attualismo dalle accuse che gli sono state rivolte. Questa filosofia, si dice, è mistica. Ma l’atto del pensiero che è il nostro logo, la nostra verità, vuol essere appunto la critica pratica e perciò perentoria di ogni misticismo. Giacché il misticismo è posizione di un oggetto immediato: religione astratta e inattuale. Ma l’oggetto immediato non si può superare se non si nega nell’atto dello spirito, che è sintesi di oggetto e soggetto, inseparabili perché questa sintesi è non pure sintesi a priori, ma autosintesi: vale a dire quella sintesi, fuori della quale il pensiero non trova se stesso. Questa filosofia, si dice, è atea. Ma l’ateismo è l’opposto del misticismo; e la critica testé accennata del misticismo è critica del misticismo in quanto, nella sua astratta opposizione coll’ateismo, esso si identifica col suo opposto. E la stessa critica che abbatte il misticismo, abbatte perciò l’ateismo. Infatti il mistico è ateo, ponendo così immediatamente l’oggetto, che il soggetto, di fronte all’oggetto, non può non essere immediato, e quindi escludere assolutamente il suo opposto. È immediato perché non c’è il non-Io. Come, viceversa, l’ateo ha sempre certa naturale nostalgia di quell’infinito trascendente che non può conoscere, perché, ponendosi come immediata soggettività, pone già se stesso come infinito, che non è dato trascendere. Il vero è che la doppia accusa si fonda su una patente ignorantia elenchi, lasciandosi sfuggire il significato del soggetto e dell’oggetto di cui si parla in questa filosofia dell’atto. Si lascia sfuggire che il soggetto qui si pone, e ponendosi è soggetto e insieme oggetto. Quello che sta dicendo è che la filosofia ha sempre dimenticato che il soggetto è qualcosa che si pone, che non è già posto, non è mai già posto, ma si pone, si sta ponendo. E non gli si può perciò opporre né il misticismo, che importerebbe la trascendenza dell’oggetto, che essa invece ha in sé, in quanto lo realizza, realizzandovisi; né l’ateismo, che importerebbe la trascendenza del soggetto all’oggetto: di quell’astratto soggetto, che per questa filosofia è posizione del soggetto concreto, al pari del correlativo oggetto. Paragrafo 5. L’accusa di panlogismo. E il problema è stato sempre questo: l’Uno, ma come unità dei molti. Gli stessi pluralisti e unificano i molti come spaziali nello spazio che tutti li contiene, o unificano i molti come spirituali nell’unico spirito (monas monadum) che tutti li abbraccia. Errore non è porre l’Uno; ma non vedervi dentro differenze: o vedervele, ma non come poste dallo stesso Uno, che vi si distingue e realizza. Anche qui il problema è dell’Uno e dei molti; dei molti che rimangono tanti e che, quindi, non sono Uno; e dell’Uno, come spirito, come pensiero, come idea che contiene, invece, i molti. Il problema, dice, non è tanto porre l’Uno, ma il non accorgersi che questo Uno è fatto di molti, che cioè, per dirla con de Saussure, il significante è fatto del significato: il significante, quello che dico, è Uno; il significato sono molti. Con de Saussure il problema è già risolto perché l’Uno, l’immanente, esiste in quanto esiste il trascendente: non può esistere il significante senza il significato. Ogni uomo, sel sappia o no, è panlogista; e io aspetto con tutta pazienza il mio critico che mi dimostri di saper pensare lui qualche cosa che non sia pensiero. /…/ La verità è proprio questa, piaccia o non piaccia (e deve piacere, se si vuol pensare davvero), che il pensiero, per quanto si distingua, e pensi il diverso, l’altro, e allontani da sé e allontani sempre quest’altro, che è il suo oggetto, non pensa (ed è fortuna!) se non se stesso sempre. Paragrafo 6. L’accusa di ostilità alla scienza. Certo, non si potrebbe discutere con gli scienziati della fecondità della filosofia, se gli scienziati fossero quei puri scienziati che essi credono e cultori di quell’astratta scienza che guarda al particolare come tale e non sa d’altro. d’altro. Ma poiché la scienza come scienza particolare non è e non può essere altro che un’astrazione, e in realtà anche gli scienziati pensano e perciò fanno filosofia, si può invitare anche gli scienziati a considerare prima di tutto che la pretesa infecondità della filosofia è una conseguenza del loro astratto modo di concepire la scienza. La quale vive sì nel particolare, ma come vita dell’uomo che non si ridurrebbe a indagare nessuna parte della natura e nessun oggetto comunque concepito, se la natura non fosse la sua natura, se l’oggetto non fosse il suo oggetto: se cioè egli non vi ritrovasse se stesso: quel se stesso, a cui direttamente guarda questa filosofia. Qui evoca Husserl, anche se ovviamente non lo cita. Paragrafo 8. L’accusa di filosofia teologizzante. Filosofia, dunque, teologizzante? E perché no? Soltanto che la teologia dei teologi non ha mai propriamente parlato di Dio, poiché i teologi non hanno mai conosciuto Dio, avendolo sempre presupposto, scambiandolo con la sua ombra. Che se teologizzare dovrà dirsi parlare comunque di Dio, non sarà poi un gran male, considerato che Dio, più che il pensiero dei teologi, è anche e sopra tutto il pensiero costante di ogni uomo che non si trastulli con giuochi dell’intelligenza, ma viva seriamente la sua vita in cui è impegnato l’universo, e che gli fa sentire perciò il peso di una divina responsabilità. Del resto, che contano i nomi, le etichette, le caratteristiche? L’importante è pensare: τό φρονείν άρετή μεγίστη, la cosa più importante è pensare, diceva Eraclito. Che è esattamente ciò a cui ci ha invitato a fare Gentile per tutte queste pagine.

La cosa interessante in tutto ciò è che Gentile, volente o nolente, riapre una questione di notevole importanza e spessore. Gentile ci ha condotti a considerare che non posso approcciare niente se non con il mio pensiero: qualunque cosa faccia c’è sempre di mezzo il mio pensiero, non lo posso togliere in nessun modo. Questo pensiero non è soltanto il pensiero di qualche cosa che sta al di fuori, perché anche questo qualcosa che presuppongo essere al di fuori, per poterlo pensare al di fuori devo appunto pensarlo. È come se avesse costruito un sistema ineludibile, e in effetti lo è se oltre al pensiero si considera in modo più radicale la questione del linguaggio. Se io dico di voler uscire dal linguaggio, o di essere fuori dal linguaggio, di fatto lo sto dicendo. La questione che lui pone è la questione che noi abbiamo posto da tempo: non c’è uscita dal linguaggio, perché qualunque uscita dal linguaggio prevede che ci sia un linguaggio che consenta di costruire questa uscita dal linguaggio. Ma al punto in cui siamo c’è una questione che dobbiamo affrontare. Non è nuova ma a questo punto si fa irrinunciabile e potrebbe addirittura comportare una specie di svolta in tutto il pensiero. Ciò che ha fatto Nietzsche è stato grandioso, ma lui, parlando della volontà di potenza, – piace poco questo termine “volontà”, però è il termine che usa lui, Wille, è volontà, il volere, non ci sono altri modi per tradurlo; per il momento usiamo questo – mettendola a tema ha solo scoperchiato il vaso di Pandora, non ha guardato dentro – questo dobbiamo farlo noi. Nietzsche ha scoperchiato, ha mostrato cosa potrebbe esserci, ma senza dire che cosa c’è. Questo vaso di Pandora potremmo indicarlo così, è la volontà di potenza come principio di ragione. È ciò che si è sempre cercato: il principio, la causa di tutto. Sì, certo, si sono trovate varie cose, ma senza mai giungere all’essenziale. Qual è l’essenziale? L’essenziale è il fatto che parlando io metto in atto la volontà di potenza; quindi, se il dire è la condizione di qualunque cosa allora è la volontà di potenza a essere condizione di qualunque cosa. Pensate a tutta la retorica, da Demostene a oggi: non è forse un’arte della volontà di potenza? L’arte, cioè, il modo in cui esercita, si attua, si articola la volontà di potenza. Tutta la retorica, stilistica compresa. La stilistica insegna a costruire delle proposizioni bellissime, frasi musicali… il bello. Perché costruirlo se non perché, come diceva la scuola di Chartres, il bello è considerato vero: se qualcosa è bella è anche vera, è il brutto a essere falso. Quindi, è sempre quella la direzione, cioè, imporre il vero. Che è quello che fa la volontà di potenza: porre il vero, ma anche imporlo. Ogni volta che si afferma qualcosa si pone il vero – se sapessi che ciò che sto ponendo è falso, non lo affermerei – ma una volta posto deve essere imposto, cioè deve diventare costrittivo. E come lo diventa? Ponendosi come universale. Lo diceva Gentile: qualunque cosa io ponga, proprio perché la sto ponendo, è posta come universale, ed è l’universale che si impone, proprio perché è universale e non più particolare. L’universale deve essere valido per tutti, sennò non è universale? Quindi, porre, e ponendo imporre, perché ciò che pongo lo pongo necessariamente come universale: se io dico un significante, questo significante, certo, di per sé non è un universale, ma ha un significato per essere significante, e questo significato è universale, e quindi è ciò che si impone. La volontà di potenza è ogni atto, ciascun atto di parola, volendo dirla tutta. È una questione estremamente complessa, non tanto teoricamente quanto farla giocare nel proprio discorso, nel proprio racconto, accorgendomi che la sto mettendo in atto, sempre e comunque, in ogni istante, qualunque cosa pensi o non pensi. Questo c’è dentro il vaso di Pandora: c’è il linguaggio. Ciò che Nietzsche ha trovato non è altro che il linguaggio nel suo funzionare, nel suo porsi e quindi nel suo imporsi, come due momenti dello stesso, come particolare e universale, come immanente e trascendente. Non posso porre qualcosa se non imponendolo, perché ponendolo lo pongo come universale: una volta che è universale è qualcosa che si impone, potremmo dire, all’universo-mondo. Quindi, il linguaggio è volontà di potenza nel suo farsi, nel suo dirsi. Occorre però articolare bene la cosa. Dopo questo testo di Gentile leggeremo Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, perché sono quei concetti da cui tutto è partito, compresa la volontà di potenza. Bisognerà leggerlo tenendo conto di questo particolarissimo aspetto; non è un percorso storico quello che ci interessa, o comunque ci importa in quanto questo percorso storico ci mostra come si è costruito un concetto e come questo concetto si sia costruito in funzione della volontà di potenza; la costruzione più faraonica in questo senso è la metafisica. Infatti, i concetti fondamentali sono quelli che Aristotele poneva come la filosofia prima: la metafisica. Quindi, il sorgere della metafisica in funzione della volontà di potenza, in funzione della necessità di porre e imporre dicendo. È questo il lavoro che a questo punto è interessante e divertente fare: intendere come tutto il pensiero si sia costruito in funzione della volontà di potenza, in funzione quindi dell’imporre ciò che si dice. Come dicevo, la più grande costruzione è stata la metafisica, la quale ha tentato di imporre che le cose esistono per sé, che hanno in sé la causa e il principio e che, quindi, non sono governate da me. Come si è giunti a questa idea? Con l’osservazione? Anche l’osservazione non è esente dalla volontà di potenza. Quindi, è come dire che se le cose sono governate da qualche cosa che è fuori di me, solo a questa condizione io posso governarle e imporle, perché se fossero governate da me seguirebbero l’andamento dei miei pensieri, che mutano continuamente. Ed è questo il problema: i pensieri sono uno ma anche molti, simultaneamente; invece, deve essere uno. Quindi, ho bisogno di una cosa, che chiamiamo natura, che sia quella che è per virtù propria, cioè, qualcosa che si imponga da sé. Questo pensiero, dicevo, non viene dal nulla, viene dalla necessità di costruire un discorso, un’argomentazione tale che funzioni come universale e che, quindi, sia imponibile a tutti quanti. In fondo, il discorso che fa Hegel, ma ancor più Gentile, è un discorso che non si impone. Tutto ciò che dice Gentile va contro ogni religione, misticismo, possibilità di imporre il proprio pensiero, perché imporre il proprio pensiero, direbbe lui, è già un pensiero, con il quale occorre confrontarsi. L’essere sempre nel proprio pensiero o accorgersi che qualunque cosa pensi sono sempre io che penso, questo rende totalmente impraticabile qualunque forma di imposizione. È la religione il principio fondamentale dell’imposizione, e cioè il tenere separati il mio porre dall’imporre. Devono essere separati; e allora, io pongo, e sto di qua, e ciò che si impone non è più la stessa cosa del porre, ma è un’altra che sta al di fuori, è la natura che si impone, la realtà, la dura realtà. Vedete immediatamente come ci sia la necessità di tenerli separati, devono rimanere separati, perché questo imporre, se non lo separo dal mio porre, allora questo mio porre è un porre che, sì, si impone ma imponendosi si cancella. L’imporre cancella il mio porre ma, ritornando sul porre, è un qualche cosa che si pone e che si nega simultaneamente e, quindi, non lo posso più imporre perché è già un’altra cosa, è già un altro pensiero posto. Quindi, per rimanere quello che è occorre inventarsi la metafisica, occorre inventarsi una struttura tale che consenta di tenere le due cose separate. Fino all’apice della metafisica, cioè la religione. Questo è il progetto di lavoro. Ancora non so bene quali testi di retorica, anche se bisogna vedere quali testi di retorica ci interessano, perché la retorica, come sapete, ha una letteratura praticamente infinita, che va da Demostene fino a Perelman, passando ovviamente per Cicerone, Quintiliano, ecc. Vedere quali di questi testi pongano di più la questione che a noi interessa svolgere. Non ci interessa tanto la storia della retorica, ma la retorica come arte, come arte della volontà di potenza, che ci dice come costruire un discorso al fine di piegare l’altro, cioè imporgli qualcosa. La retorica per convincere deve necessariamente tenere separate le due cose, il porre dall’imporre; vuole imporre un qualche cosa che, sì, viene dal mio dire, ma che vorrebbe mostrare qualche cosa che è fuori, mostrare cioè una realtà esterna. In questo senso, la retorica è religiosa, perché pone i due momenti, il porre e l’imporre, come separati, e deve porli come separati, sennò non persuade nessuno. Quindi, vedrò quali testi sono più confacenti a questo obiettivo, ma da mercoledì prossimo leggeremo I concetti fondamentali della filosofia antica di Heidegger. Qui Heidegger fa uno studio preciso come sa fare lui dei termini greci, per vedere quali sono i concetti dai quali tutto quanto è venuto fuori, dai presocratici, che sono quelli che hanno dato la prima impronta, dove c’è la prima traccia. Ci può essere utile per vedere quali sono questi primi concetti su cui si è costruito tutto. Ovviamente, saranno i concetti più funzionali alla volontà di potenza. Ecco, questo è il progetto.