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10 febbraio 2021

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Come sapete, tutto ciò che dice Gentile va in una direzione precisa, e cioè mostrare sempre come sia fondamentale la simultaneità tra Io e non-Io. Intendere questa simultaneità rispetto al linguaggio, all’atto di parola, è molto semplice, basta pensare che se dico dico qualcosa. Ora, non posso separare il “se dico” dal “dico qualcosa”, sono distinti, certo, ma come li separo? Perché se tolgo il qualcosa di cui dico, non dico più niente, e se non dico non posso neanche dire qualcosa. Questo per dare un’immagine della simultaneità, di cui parla Gentile a proposito di Io e non-Io. Io e non-Io sono due momenti inscindibili, tolgo uno tolgo l’altro, così come il dire e il detto: se tolgo il dire non ho detto niente; lo stesso se tolgo il detto, e cioè non sto dicendo niente. Dunque, Io e non-Io. Questo può indurre a considerare di nuovo un aspetto di cui aveva parlato Hegel, riguardo al padrone e al servo. Mi sono trovato a pensare che è possibile cogliere due figure, che muovono, sì, certo, da ciò che diceva Hegel, però, aggiungono qualche cosa, spostano un pochino la questione, perché si introduce qualcosa di cui aveva parlato Nietzsche, e cioè la volontà di potenza, in modo più deciso. Adesso costruiamo un mito. Immaginate due figure: l’eroe greco e il martire cristiano. Sono due figure che in buona parte si escludono. Pensate all’eroe greco, così come è descritto nella mitologia e così come ne parla anche Nietzsche. L’eroe greco dopo il cristianesimo, è scomparso, ed è soltanto Nietzsche che lo ha in qualche modo riportato in vita in Così parlò Zarathustra. L’antico eroe greco è qualcuno che non si sottomette, combatte, combatte gli dei: che cosa, in definitiva, combatte? Combatte il non-Io. L’eroe greco si pone nella posizione dell’Io e tutto ciò che è non-Io deve essere distrutto, eliminato, combattendo. Ma l’aspetto tragico dell’eroe greco, sul quale Nietzsche ha lavorato molto, in che cosa consiste esattamente? Nel fatto che se, combattendo il non-Io, dovesse vincere, è tolto il non-Io ma è anche tolto l’Io e, pertanto, muore; se dovesse perdere, muore comunque. Quindi, l’eroe greco è colui che combatte sapendo che in ogni caso morirà. Ecco, dunque, questo modo di intendere il tragico nell’antica Grecia, dove non c’è la speranza, che verrà dopo, con il cristianesimo, ma c’è la disperazione, nella consapevolezza che questa guerra, che l’eroe combatte contro gli dei, comunque lo porterà inesorabilmente alla distruzione. Ma questo non gli impedisce di combattere, perché non può sottrarsi. Per essere Io devo togliere il non-Io, e quindi devo uccidere il dio, il trascendente. Uccidendo il dio uccido anche me. In questa figura dell’Io ci troviamo di fronte a qualcosa di terribile, a una forza scatenata. Gli elementi che lo contraddistinguono sono la potenza, la virilità, la forza, l’audacia di chi combattendo sa che morirà. Totalmente differente è la figura che si impone con il cristianesimo, ché prima non esisteva. Il personaggio di questa mitologia del cristianesimo è il martire; il martire è colui che sostituisce l’eroe greco. Il martire si posiziona non al posto dell’Io ma al posto del non-Io. Il martire è colui che si immola, che subisce, che si sottomette. L’eroe greco non si sottomette mai, muore ma non si sottomette. Il martire, invece, è colui che si sottomette e si sottomette al trascendente, quindi, a dio, qualunque esso sia.

Intervento: Si sottomette per vivere?

In effetti, questo lo diceva già Hegel: il padrone è colui che combatte, ma facendo questo rischia la vita ogni volta. Il martire, invece, va incontro alla morte in quanto si sottomette alla volontà di un dio. Questa sottomissione è, in effetti, ciò che lo caratterizza, così come il servo, nel mito che racconta Hegel, si sottomette al padrone. Qui martire lo possiamo intendere in tutte le accezioni, non necessariamente nell’accezione del martire morto sbranato dai leoni, ma come colui che subisce volontariamente qualche cosa. L’spetto interessante è proprio questo posizionarsi nella parte del non-Io, cioè del trascendente. Cosa significa questo? Significa che si posiziona in modo tale da trovarsi ad avere da parlare in nome del trascendente, in nome di dio. E, infatti, contro che cosa combatte il martire? Combatte contro l’Io. Vi ricordate che cosa diceva Hegel a proposito dell’anima bella? A questo punto il martire cristiano è in fondo l’anima bella, quella che parla in nome di una verità, un bene supremo, che tutti devono accogliere. All’eroe greco del bene altrui, della vita altrui non gliene importa assolutamente niente, così come non gli importa della sua. Qui, invece, cambia tutto perché l’anima bella – adesso usiamo le parole di Hegel – è colei che si muove per il bene di qualcun altro, cioè, sa qual è il bene, perché sa che c’è il dio e il dio è il bene, a ciò contro cui si oppone – cosa che Hegel aveva inteso – è l’Io. Si oppone contro l’Io, l’Io che in Hegel appare sotto la forma di chi fa, di chi osa, di chi è audace. Ora, l’anima bella combatte contro l’Io; ogni autoimporsi dell’anima bella è considerato una sorta di crimine, non deve esserci l’Io, ma deve esserci l’universale, che poi, in fondo, è dio. Posizionandosi nel non-Io, è chiaro che l’anima bella, non è mai. Così come avviene in tutti i monoteismi, sia quelli pre-filosofici che post-filosofici, c’è sempre una richiesta da parte del dio di essere quello che non sarà mai. E che cosa non sarà mai? Non sarà mai l’Io, perché è non-Io necessariamente, perché si è posto dalla parte del trascendente, che nega l’Io. È ovvio che entrambe le figure, quella dell’eroe greco e quella dell’anima bella, mantengono separate queste due istanze, questi due momenti. In questa separazione ciò che insiste è il fatto che – nel caso dell’anima bella – ciò che si deve eliminare è l’Io, deve eliminarlo a tutti i costi. Perché l’anima bella si pone dalla parte del bene, del buono; quindi, necessita sì del cattivo, ma deve essere posizionato su altri. Ne ha bisogno perché solo in questo modo riesce a tenere separata la cattiveria da sé, perché sennò dovrebbe accorgersi che non è separabile da sé. Questo per indicare come queste due figure pongano in qualche modo l’accento sul modo con cui gli umani si muovono, ed era questo che mi interessava porre attraverso questo mito. Il mito del cristianesimo è diventato imperante, per cui quella che Hegel chiamava l’anima bella è diventato il modello da seguire. Il Cristo è il modello dell’anima bella, colui che si immola per la salvezza di altri; mentre, come abbiamo visto, l’eroe greco non ha questa velleità di salvare il prossimo, non gliene importa niente. Che vantaggio ha l’anima bella rispetto all’eroe greco? L’anima bella è quella che dice che cosa si deve fare, l’eroe greco no, fa quello che gli pare. L’anima bella, dunque, dice agli altri quello che devono fare e, quindi, pone le basi per un governo, per una governabilità degli umani attraverso l’idea di un dover essere ciò che non si sarà mai, perché l’anima bella non sarà mai quella cosa che dovrebbe essere. Non lo sarà perché fondamentalmente non è, propriamente, cioè non è Io, ma è sempre non-Io. In effetti, verrebbe da porsi una questione, e cioè se la governabilità, il governo, la politica, qualunque cosa, sorge nel momento in cui appare l’anima bella, e cioè l’idea che qualcuno sappia che cos’è il bene per altri. Non sto adesso prendendo in considerazione questioni cronologiche, ma sto pensando a una struttura. Se so qual è il bene per altri allora posso governarli in nome di questo bene. Poi, che lo ignorino oppure no, questo è un altro discorso, ma in ogni caso glielo si fa conoscere: la buona novella ha questa funzione. Come dicevo prima, è stato Nietzsche l’unico, come mi pare di ricordare, che abbia reintrodotto, almeno parzialmente, l’antico eroe greco, nello Zaratustra. Come dicevo, entrambe queste figure tengono separato il loro opposto. Nel caso dell’eroe greco il non-Io deve essere distrutto perché io sia Io e basta; nell’anima bella l’Io deve essere eliminato perché è ciò che mantiene la cattiveria, la ferocia e l’audacia, che non possono essere in me: se io sono buono, allora la cattiveria deve essere di qualcun altro.

Intervento: Il nemico ci sarà sempre…

Sì, perché è insito nella struttura metafisica del pensiero, e cioè nella necessità che qualcosa, per potere essere combattuta, sia quella che è. Soltanto a questa condizione posso combattere: devo individuarlo il nemico, è per questo che si usano le uniformi. Da questa metafisica, entro certi termini, non c’è uscita. Neanche Heidegger ne è uscito; lui immaginava che fosse una questione di parole, ma non è così, non è mettendo la y in Sein (Seyn) che risolvo il problema; il problema non è il significato delle parole, che possono significare tutto quello che si vuole, ma è nella struttura del linguaggio, è lì che c’è la metafisica, perché io posso scrivere Sein con la y anziché con la i, ma ogni volta che la userò dovrà essere necessariamente quella cosa lì, e non si può sfuggire da questo: se voglio usarlo dovrò usarlo, anche con la y, ma dovrò usarlo così. È in questo senso che dicevo che non c’è uscita dalla metafisica. Qui Gentile, e adesso lo leggeremo, pone delle questioni interessanti, cioè facendo l’analisi della metafisica pone la metafisica critica, una metafisica che sa di sé, sa di essere inevitabile e, quindi, non cerca di arrabattarsi per eliminarla. Perché non può eliminarla; già nel tentativo di eliminarla deve utilizzarla. Per tornare a queste due figure di cui parlavo, entrambe sono fallimentari, naturalmente. L’anima bella non potrà mai togliere la cattiveria, per quanto cerchi di situarla su qualcuno, perché la sola idea che possa accadere di non essere buona la distrugge, in quanto se non è più buona vuole dire che non è più nella posizione dell’universale, del trascendente, non è più ciò che deve essere, e quindi rischia la sparizione. Così come l’eroe greco, che distrugge il non-Io, ma distruggendo il non-Io distrugge se stesso. Si tratta, quindi, di cogliere bene la questione della simultaneità. Vedete come sia fondamentale per non farsi travolgere dalla ideologia, e cioè dal pensare che il bene stia da una parte – la mia, naturalmente – e tutto il male stia da quell’altra. Se io sono entrambe le cose, e non posso non esserlo, allora non c’è più il male, e quindi non c’è più l’anima bella, perché se all’anima bella togliete il male, il cattivo, svanisce anche lei. Gentile, nella parte che stiamo leggendo intorno alla logica, pone una questione concernente ciò che vi stavo dicendo. Ciò che Gentile descrive come logica formale è ciò che viene utilizzato allo scopo di determinare che cosa è bene e che cosa è male; in fondo, non si tratta che di questo: vero/falso. Non è che non si debba stabilire un vero o un falso, si può fare tutto quello che si vuole; sarebbe interessante, però, sapere che cosa si sta facendo. Ecco perché riprende i famosi sillogismi, come quello di Socrate: tutti gli animali sono mortali, Socrate è un animale, Socrate è mortale. Paragrafo 3. Meccanicismo del pensiero nella logica analitica. Il concetto di Socrate ci fa intendere sillogisticamente la morte di Socrate, perché è la causa della morte di Socrate; giacché Socrate non morrebbe se non fosse quel mortale che è l’uomo; ed essendo quel mortale, non può non morire. Così nella filosofia cartesiana la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti per la natura del triangolo: il concetto del quale, perciò, non come concetto della nostra mente, sì come universale realisticamente esistente, è causa insieme e dell’intelligibilità (ossia, principio dimostrativo) dell’equivalenza di quegli angoli a due retti e della realtà di questa equivalenza. Quindi, non come concetto della nostra mente, ma come universale, il triangolo come un universale, che è fatto a quella maniera. Dove sta il triangolo? Sta nell’iperuranio e da lassù garantisce che la somma dei suoi angoli sia sempre la stessa. E la sostanza co’ suoi attributi è per Spinoza la causa di tutti i modi, perché logicamente non c’è modo che si possa pensare se non sulla base dell’attributo, ossia della sostanza. Il concetto, realisticamente inteso, è principio in quanto rende intelligibile quella realtà di cui è causa. Quindi il virgiliano ideale dell’antico filosofo: Felix qui potuit rerum cognoscere causas! (Felice è chi ha potuto conoscere la causa delle cose) per cui non si contrappone le cause alle cose quasi queste fossero reali e quelle semplicemente ideali, ma si distingue queste da quelle in quanto, essendo reali le une e le altre, le cose dipendono dalle cause, derivandone così in re, come in mente. È sempre la questione posta da Anselmo d’Aosta. Il suo sillogismo è corretto? Sì. È vero? Sì. Quindi, conclude nel vero, la sua conclusione è reale; quindi, dio esiste. E come la conseguenza è nel principio, la cosa è nella causa: deducibile da questa, perché in questa contenuta. E la derivazione in re è una derivazione che conferisce intelligibilità alla cosa, perché essa consiste nella dimostrazione della cosa. Cioè, la cosa è la sua dimostrazione. Tutto questo diventa problematico se si legge con attenzione la dimostrazione che fa Mendelson. E, allora, affermare che la dimostrazione è la dimostrazione della cosa diventa un po’ problematico perché la dimostrazione di questa cosa è fondata su niente. Quando nell’empirismo si converte la causalità logica in causalità di fatto, e si parla di condizione o antecedente dell’effetto, si crede di cambiar logica; e si è sempre confitti nella stessa logica analitica, poiché la causalità empirica si riferisce sempre a quel mondo astrattamente fissato come logo astratto, che, comunque inteso, è un mondo materiale, in cui regna la molteplicità dell’analisi. Cioè, non se ne esce, dice giustamente Gentile. La filosofia dell’apodissi si sforza bensì di superare questo meccanismo, trascendendo l’immediato concetto e industriandosi di dedurre lo stesso concetto. Ma ristaura sempre e rinsalda il meccanismo (il “sillogismo”) in quanto da un concetto passa all’altro concetto, e sosta da ultimo e si arresta disperatamente in un concetto che comprende tutti quelli sorpassati e si dà per insorpassabile. Perciò ogni filosofia governata dalla logica analitica è essenzialmente meccanicista, oltre che dommatica. Perché questo arresto è assolutamente dogmatico. Mi arresto a un certo punto, come diceva Tommaso nelle sue cinque vie per la dimostrazione dell’esistenza di dio: non si può procedere all’infinito, né retrocedere all’infinito, a un certo punto bisogna fermarsi. Sta qui il dogmatismo. Paragrafo 4. Inattualità del meccanismo Immediato s’è detto quello che non può non essere quello che è: soggetto a una legge di necessità, che mal si confonde con la vera necessità logica, e dalla quale, a ogni modo, conviene che qui sia accuratamente distinta. C’è la necessità dell’immediato, che è meccanismo (necessità della conclusione del sillogismo); e c’è la necessità del mediato, che è libertà. La differenza è in ciò, che l’una, quella dell’immediato, è una necessità che c’è; l’altra, quella della mediazione, è una necessità che non c’è, ma si pone, si presenta, interviene, si fa valere. La prima è quella necessità che è destino, in cui il pensiero urta, e s’infrange; la necessità del passato. L’altra è la necessità che il pensiero non subisce, ma impone; ed è la necessità del presente. Sarebbe la necessità dell’atto, in cui io attualmente impongo, cioè affermo e dico. Né Dio prevede, né gli uomini; poiché a simiglianza della divina ogni previsione umana desume il futuro dalla cognizione della natura qual è, e delle leggi ond’essa è stata composta già e fermata nella struttura del suo essere attuale. Ed evidentemente nessuna necessità più rigida e costrittiva di quella che s’appartiene al passato, che né gli uomini né gli dèi possono disfare. Passato rispetto a che? Rispetto all’uomo che lo pensa: giacché il passato nostro è pure stato il futuro di Aristotele. E l’uomo che pensa ed è terminus ad quem del passato, è il pensiero. L’uomo che diventa colui al quale si rivolge il pensiero è sempre pensiero. Rispetto al quale un passato, ossia un antecedente, è per definizione tutto ciò che è immediato; poiché esso è mediazione, e la mediazione è negazione dell’immediatezza, e quindi processo che nell’immediato ha il suo punto di partenza. Passato, si badi, che non esclude da sé il futuro, in quanto distinto anch’esso ed escluso dall’attualità del presente, in cui il pensiero si attua. Poiché un tal futuro si pensa in quanto si prevede: e, per la ragione detta, non sarebbe oggetto di previsione se non fosse predeterminato e risoluto pertanto in una legge, la quale al pensiero si presenta come un passato, che gli è alle spalle e l’incalza, al pari di tutti gli avvenimenti già consumati. Questo futuro è bensì il pensiero del futuro, che, come ognun sa, agisce tra i motivi del volere in quanto idea già esistente, già formata, e non tuttavia da formarsi. E anche il passato, se ben si rifletta, quando si distingua dall’attuale, non è altro che pensiero del passato: l’inattuale, che la negatività dell’lo oppone a sé nell’attualità dell’autosintesi. O considero questo passato come qualcosa che è fuori del pensiero, che è quello che è, quindi, come immediato – se è immediato non è mediato, quindi, non è pensiero – oppure lo considero come pensiero in atto. È ovvio che a questa alternativa Gentile non offre alcuna possibilità di scelta, perché il passato come immediato non c’è perché non è pensabile: se lo penso, lo sto pensando adesso, quindi, mediatamente, cioè, attraverso rinvii. Paragrafo 6. Il mito del linguaggio. Qui è interessante perché fa una critica alla linguistica. Al mito logico è parallelo e sussidiario, in guisa da agevolarne lo sviluppo, il mito del linguaggio. Del quale si potrebbe pensare che preceda e generi il mito logico: laddove il rapporto di logica e di linguaggio importa il loro parallelismo. Giacché anche il linguaggio si rappresenta materialisticamente per una concezione astratta e analitica, la quale non guarda all’attualità del nesso onde la parola è legata, piuttosto che al pensiero pensato, allo stesso pensiero pensante, nel cui dialettismo è la sorgente della sua vita e del suo significato. Cioè: la parola significa in quanto è pensata, in quanto la sto pensando. E staccatala dallo spirito, e recatasela innanzi quasi morta materia, può analizzarla in ogni suo elemento, facendone la parola della grammatica e della glottologia e del vocabolario: tutte costruzioni assurde finché si conservi alla parola la sua essenziale spiritualità, per cui essa è reale soltanto nella sua attualità come una individualità vivente. La parola è reale in quanto si sta dicendo. Questa è la sua unica realtà ed è questa l’unica realtà di cui possiamo parlare. Poiché chi sinceramente nel segreto della propria coscienza interroghi se stesso intorno al concetto della molteplicità dei concetti,… La molteplicità dei concetti è a sua volta un concetto. …a cui egli probabilmente rivolge il suo desiderio di sapere e sul cui possesso fonda il proprio orgoglio, riconoscerà che questo concetto si appoggia sul concetto grottescamente materialistico dei molti libri che sono nelle biblioteche o dei molti discorsi ch’egli stesso ha pur fatto in vita sua: molti libri, in cui c’è tanto pensiero, risultante da tanti pensieri, quante vi sono in quei libri parole che hanno un significato; pensieri, dei quali infatti è possibile venire gradualmente a cognizione leggendo i libri tomo per tomo, pagina per pagina, parola per parola; anzi (perché no?) sillaba per sillaba! E pur questo il comune modo di rappresentarci il linguaggio e il pensiero; quantunque naturam expellas furca, tamen usque recurret (Per quanto si voglia espellere la natura questa ritorna sempre); e chi crede di capire un poco leggendo un poco, al modo stesso di chi vuol tesorizzare e comincia dal risparmiare il suo quattrinello; alla prova s’accorge che di un libro non si capisce la prima pagina finché non s’è letta l’ultima; e quando s’è letto e si crede d’aver capito un libro, leggendone, un altro bisogna pur confessare che quel libro di prima non s’era ben capito, che è come dire che non s’era capito punto, e non si aveva un sol quattrino che si potesse metter da parte; e che, via via che si legge, si apre sempre meglio gli occhi e quello stesso che già s’era veduto, si vede più addentro, scorgendovi un nuovo mondo e meraviglie nuove; e che mentre insomma le parole son sempre quelle, dicono sempre cose nuove all’animo nostro, staccarle dal quale, ad una ad una, non è cosa possibile se ciascuna d’esse deve pur avere un significato. E insomma ogni parola non esiste in sé nella sua atomica unità astratta, bensì insieme con tutte le altre… Esattamente quello che diceva de Saussure. …in quanto vive in una vita che si rinnova sempre non dentro la polvere dei libri, ma dentro l’animo del lettore. Così i vocabolari, certo, ci sono, e se ne fanno sempre, ed è bene se ne facciano, purché si facciano con giudizio. Ma è un’illusione il credere che essi siano vocabolari secondo il concetto che li governa, di catalogazione delle parole analiticamente prese dai discorsi degli scrittori e dei parlanti, e considerabili perciò quasi una pura molteplicità, in cui ciascun elemento, sciolto da ogni vincolo cogli altri, sia irrelativo e chiuso in se medesimo. Poiché la parola del lessico continua ad aver sembianza, e valore di parola in quanto, anche rannicchiata nell’articolo del vocabolario, si spiega in un esempio. E nell’esempio non è più quell’astratta e isolata parola che si pretende, ma un nucleo di vita che si organizza in un sistema, ossia in un discorso che è un concetto, chiuso in sé e infinito, o dialettizzato nell’autoconcetto e aperto nel pensiero di chi legge il vocabolario per istudio o per diletto (poiché c’è chi si diverte a legger vocabolari!). Qui, in modo molto semplice, chiaro e lineare, Gentile ci espone il suo pensiero, facendo tra l’altro una critica notevole, come dicevo prima, a tutta la linguistica, che fa esattamente quello che lui dice di non fare, e cioè che presa quella parola isolata è morta, è come ucciderla, e quindi ciò che considera è un corpo morto, non c’è più nulla della parola viva. E alla richiesta razionale della dimostrazione, in ciò che ha di legittimo, rimane quella soddisfazione che sola non è fallace, e che abbiamo già additata. La dimostrazione non mitica, ma filosofica, è nel dialettizzamento del concetto che si risolve nell’autoconcetto. Cioè, del concetto che sa di sé e che è fatto di Io e non-Io simultanei. Per riprendere il discorso di prima, il buono e il cattivo sono lo stesso. Capitolo II L’ignoto. Paragrafo 3. Inattualità dell’ignoto. Vi ricordate che parlavamo dell’ignoto la volta scorsa, che è nel noto, non è da un’altra parte, per cui devo accedervi. L’ignoto c’è in quanto non c’è: c’è come termine negativo del conoscere, che lo pone e, ponendolo, lo supera. Lo supera proprio nell’accezione dell’Aufhebung. Esso è come il passato che non c’è se non per l’attuale coscienza, di cui è contenuto: l’essere, che l’atto dello spirito nega, e lo afferma soltanto negandolo. Vi ricordate l’essere e il non essere. Posso affermare l’essere solo negandolo. Solo negando il non essere posso affermare l’essere. La morte, in conclusione, è paurosa perché non esiste, come non esiste la natura, né il passato, come non esistono i sogni. C’è l’uomo che sogna, ma non le cose sognate. E così la morte è negazione del pensiero, ma non può essere attuale essa che si attua per la negazione che il pensiero fa di se stesso. Il pensiero infatti, lo abbiamo visto, non si può concepire se non immortale, perché infinito. Il pensiero è immortale per definizione; è infinito perché si rivolge al trascendente, al significato. Il significato è infinito, mentre il significante è l’immanente, il determinato. Sono le due posizioni, l’Io e il non-Io, l’eroe greco e l’anima bella, ciascuno posizionato nella sua posizione, e da lì combatte contro la posizione opposta. Paragrafo 4. Metafisica, scienza, religione. La metafisica comincia e finisce nel dommatismo dell’intuito inteso a cogliere la verità realisticamente concepita: nel presupposto cioè di una realtà in sé, che potrà bensì accidentalmente intuirsi, ma che (Rosmini sul terreno dell’intuizionismo aveva ragione contro Gioberti, il quale si industriava di supplire ai difetti dell’intuito con la teoria della riflessione psicologica e ontologica) nel suo essere reale, di là dall’idealità onde apparisce vestito attraverso l’intuito, è irraggiungibile se non per argomentazione, che non sarà mai vera e propria conoscenza, se il valore di questa dipende da quell’immediato rapporto tra la cosa e la mente, che si dice intuito. La realtà quindi è ignota. Ignota ma nel senso qui doppio, cioè, metafisicamente ignota, perché o la conosco attraverso l’argomentazione e l’argomentazione non finirà mai, oppure come immediata presenza, ma questa presuppone che non ci sia pensiero, perché il pensiero è mediatezza. Si può, però, porre la questione in un altro modo: l’ignoto come facente parte dell’atto di parola, che è fatto di noto e di ignoto simultaneamente, e la loro integrazione, la loro Aufhebung, è l’unica realtà di cui possiamo parlare. Per la scienza positiva, tutto è natura, di cui non si conosce altro che le obbiettive apparenze, variabili secondo i punti di vista o i postulati assunti dal soggetto; e l’essenza, ossia l’intrinseco essere ed operare, e insomma il significato o la logica, sfugge per definizione. Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor, come disse il Leopardi, cioè le nostre impressioni, la vita interna di questo essere soggettivo, che interroga senza speranza il mondo inesorabile, fuori del quale spazia l’essere, il tutto. E questa vita interna del soggetto non può essere infatti se non dolore, come la sente il Poeta,… Anche in Leopardi c’è questo aspetto della disperazione di cui parlavo prima, questo interrogare disperatamente il tutto senza avere mai risposta, anzi, sapendo che non ci sarà mai risposta. È un po’ come il gesto dell’antico eroe greco. …perché se l’uomo, qual egli si conosce e si afferma, Io, autoconcetto, è estraneo al tutto, come potrà egli vivere ed essere? Tutta la sua vita sarà illusione e sforzo destinato a rompere nelle dure leggi naturali, alle quali invano ei cercherà di opporsi. Ecco l’eroe greco riassunto in poche righe. E dopo la morte? Questo mistero che assomma tutti i misteri, e che ben può dirsi di tutti il comune denominatore, non è inattuale né per la metafisica, né per la scienza, come non è inattuale per la religione. Giacché la morte è, come antitesi, contenuto della sintesi in cui consiste la vita, in quanto ci si afferri all’apriorità di questa sintesi. Ma la religione è l’analisi della sintesi, onde si scinde l’oggetto dal soggetto, e il non-Io si toglie quindi nella sua pura opposizione all’Io. E questa pura opposizione è pure il terreno della metafisica e della scienza. È il terreno del pensiero comune, destinato ad essere agitato in eterno da questa vana formidine mortis; poiché anche al pensiero volgare manca quell’energia dell’autoconcetto, che stringe indissolubilmente l’antitesi alla tesi; e anch’esso si disperde o distrae nella contemplazione di se stesso fatto estraneo a se stesso, e quindi suscettibile di esser pensato analiticamente. Io posso pensarmi analiticamente solo se mi astraggo. Come qualunque altra cosa, posso pensala solo analiticamente, cioè astrattamente. Sicché tutta l’umanità, che pure è pensiero, autoconcetto, dà l’immagine di una moltitudine accorrente, attratta da una cieca forza irresistibile, all’orlo estremo dell’abisso, in cui dovrà precipitare. Ciò che sarebbe già inconcepibile, anzi il colmo dell’assurdo, se quell’autoconcetto che ell’è, non fosse, come tale, dialettismo: non quindi concetto definito, non coscienza chiara già e distinta, e non avente più bisogno di nulla imparare; ma, appunto, autoconcetto, sviluppo, eterno scolaro che non è giunto e non giungerà alla laurea, perché il meglio per lui sarà sempre di continuare a studiare e ad apprendere. In tutti questi discorsi è un continuo ritornare a ciò che per Gentile è fondamentale, giustamente anche, e che è la simultaneità, come dicevo all’inizio, tra il dire e il ciò di cui dico. Non posso togliere il ciò di cui dico dal dire, in nessun modo. Paragrafo 5. Inconoscibilità dell’ignoto. La scienza, bensì, non sempre si rassegna all’ignoto. E poiché l’ignoto per lei è un fatto, ecco che ricorre a una distinzione da leguleio, tanto per non darsi vinta, e non cedere quelle armi di cui ha pur bisogno per vivere quella vita ch’essa pur vive, ancorché sempre soggetta a quella minaccia di morte, che è per lei l’ignoto. E distingue la quaestio facti dalla quaestio iuris; e accetta l’ignoramus, respinge l’ignorabimus. Accetta il fatto che non conosciamo ancora, ma non accetta che lo ignoreremo ancora, per sempre; perché nel noto ci sarà sempre l’ignoto. L’ignoto non è niente altro che quello iato che si apre tra il dire e il detto. Questo è l’ignoto, perché che cosa c’è dentro lì? Non c’è niente, è soltanto la relazione tra i due momenti. Ma è questa apertura, è questo iato che l’eroe greco vive tragicamente e che l’anima bella vuole ricomporre, ma entrambi falliscono nel loro intento.

Intervento: Ciò che si pone come risposta, penso alla scienza, non è altro che l’apertura di una nuova domanda.

Sì, lo stesso Gentile diceva a un certo punto che ogni risposta, ogni soluzione, comporta un altro problema. Che cosa in verità più evidente di questa legge del sapere: dal noto all’ignoto? Quello che oggi conosciamo, ieri lo ignoravamo; e oggi ignoriamo quel che conosceremo domani. Né è possibile che l’ignoto non ancor posseduto si possa raggiungere altrimenti che movendo dal noto, che già si possiede. Ma questa famosa legge: «da noto all’ignoto», ha il difetto solito della logica analitica: divide cioè quello che non si può concepire se non unito; e che diviso diventa inintelligibile, dando luogo a problemi insolubili. Sia A il noto e B l’ignoto. Secondo la logica analitica, A è A e non è B, e B è B e non è A. Così essendo, si pone il problema del passaggio da A a B; ma il problema è insolubile, perché in quella posizione A è irrelativo a B, e viceversa. Manca ogni relazione. Manca logicamente: cioè non solo manca di fatto, ma non può non mancare. E se manca la relazione, il passaggio dunque è impossibile. Chi è in A resterà eternamente in A: e se è fuori perciò di B, ne resterà escluso in eterno. Questa sembra una banalità, però, se ci si riflette, è interessante perché dice che, posti questi due elementi A e B, se non pongo una relazione tra questi due elementi non li conoscerò mai, perché non ci sarà nulla che li farà passare da A a B. Che cosa? E come lo giustifico? È soltanto intendendo che ponendo A e B pongo una relazione, che non sto ponendo propriamente A e B ma la relazione tra i due, solo così diventa intelligibile, sennò non potrò mai giustificare questo passaggio. Così come accade nella teoria dei limiti: come giustifico l’ultimo elemento che diventa quello che sarebbe dovuto essere se… A e B non sono quei due termini irrelativi e divisi che immagina la logica analitica. Perché conoscere e non conoscere, e però noto e ignoto, son tutt’uno nel dialettismo del conoscere, in cui si pone infatti il problema dell’ignoto. A e B sono tanto identici e differenti insieme quanto l’Io e il non-Io. Sono la stessa cosa. Sta ponendo la relazione tra A e B come la relazione tra un elemento e il suo contrario, ciò che quell’elemento non è. È quello che diceva prima: se A è A vuol dire che A non è B; quindi A è non-B; quindi, è anche B in quanto negato. Sta in questo la relazione che Gentile, ma già Hegel prima di lui, trova. Non è che questa relazione venga da niente; la relazione è il trovarsi di un qualunque elemento a essere quello che è per via del fatto di non essere ciò che non è: questa è la relazione. Paragrafo 6. Religione naturale. L’inconoscibilità dell’ignoto è infatti la radice della religiosità; e la religione naturale è, o meglio vuol essere, la forma ideale o razionale della religione sottratta a tutte le contaminazioni a cui essa soggiace a causa della speculazione teologica, in cui sul contenuto originario della religione si esercita il pensiero degli uomini (cioè, diremmo noi, la filosofia). La religione di natura è la religione pura: quel nucleo primitivo della religiosità, l’anima di tutte le religioni storiche. Non so se vi ricordate le distinzioni che faceva Hegel: la religione naturale, la religione artistica e la religione disvelata. Gentile ci sta dicendo che la religione naturale è quella che rimane all’origine. Dice: La religione di natura è la religione pura: quel nucleo primitivo della religiosità, e cioè l’idea che esista un dio. Che poi sia il sole, l’albero, la pianta, ecc., o che ci sia tutto il bagaglio teologico costruito sopra, la cosa comunque da cui si parte è che esista un dio.