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10 gennaio 2024

 

Aristotele Topici

 

La volta scorsa abbiamo chiuso la questione su un aspetto che Aristotele ci ha mostrato, ma del quale non prende in considerazione le implicazioni. Sto parlando dell’omonimia: le cose si dicono in molti modi. Lui riferisce questa cosa principalmente al sillogismo dialettico, ma potremmo dire che questa questione dell’omonimia riguarda ciascun atto di parola: ciascun atto di parola non può essere altrimenti che molte cose simultaneamente. L’idea di Aristotele è che ci siano elementi che non sono omonimi, che non si dicono in molti modi ma in uno. Come dicevo, non va molto oltre nella questione, ma possiamo farlo noi. Una qualunque affermazione per essere tale deve riferirsi a qualche cosa: dicendo che A è B dico che cos’è A, ma dico anche che cosa è B; se dicessi soltanto A, non sarebbe propriamente un’affermazione, perché è necessario che questa affermazione rinvii a qualche cosa, per esempio, al suo significato – se dico A voi capite perché sapete che cos’è A… Ma come lo sapete? Chi vi ha informati? Per saperlo, questa A deve essere già di per sé connessa con tantissime cose; quindi, occorre che sia omonima, cioè, deve dire molte altre cose. L’idea, per esempio, di una A non connessa ad alcunché è un’idea bizzarra perché, se la A non fosse connessa a nulla, non sarebbe neanche una A, perché per essere A occorre che sia A, cioè, A è A. Occorre questo passaggio, occorre questa connessione, questo rinvio se non altro a se stessa in quanto qualcosa. Quindi, qualunque termine, per essere ciò che è, non può essere che omonimo, cioè, dire altre cose. Ora, il fatto che Aristotele non abbia affrontata la questione può indicare o che non se ne è accorto o che non ha ritenuto importante la questione o, invece, si è accorto della importanza della questione e ha preferito abbandonarla, come lo abbiamo visto fare in alcuni casi. Dire che qualunque termine è omonimo, cioè che qualunque cosa è molte cose simultaneamente, che ciascuna parola è molte parole simultaneamente… Potremmo dire, riprendendo de Saussure, che ciascuna parola è tutte le parole, così come ciascun numero è tutti i numeri. Come abbiamo visto altre volte, se togliessimo tutti i numeri tranne il 2, di questo 2 cosa rimane? Niente, assolutamente niente. Quindi, se una parola è tutte le altre parole necessariamente – de Saussure, tra l’altro, pone questo come una necessità: un significante è quello che è per via di una relazione differenziale con tutti gli altri significanti – si pone un grossissimo problema per la definizione. La definizione, diceva Aristotele, si pone come uno, come quella. Sì, certo, la usiamo come se fosse uno, ma non lo è. Quindi, non posso definire alcunché perché definendo qualcosa, dicendo “questo è quell’altro”, spalanco un abisso senza fine. Quindi, che cosa definisco? Niente. Per potere definire devo togliere i molti o, più propriamente, fare come se i molti non ci fossero. Questo è ciò che consente di parlare: fare come se i molti non ci fossero. Ma ci sono e, allora, sì, certo, posso affermare ma il problema che rimane è che affermo, certo, qualche cosa – anzi, affermo ininterrottamente, compreso questo istante – ma, relativamente a una certa onestà intellettuale, dovrei chiedermi: che cosa sto affermando? Sto affermando al solo scopo di volere affermare una volontà di potenza o sto affermando effettivamente qualcosa su qualche cos’altro? Parrebbe che la seconda sia estremamente complicata, cioè, dire che A è B a questo punto non significa niente. Certo, può darsi che sia B, insieme ad infinite altre cose, anzi, deve essere insieme con infinite altre cose per potere essere quello che dice di essere. Ma a questo punto ci ritroviamo di fronte allo stesso problema che ci si para sempre innanzi, il problema del linguaggio: per affermare qualcosa devo dire qualcosa che quella cosa non è, cioè, per affermare devo negare. Potremmo dirla anche più semplicemente: per affermare il finito devo negare l’infinito. Ma come lo nego? Dicendo che non c’è? Non so neppure di che cosa sto parlando dicendo che non c’è: non c’è cosa? Tutto questo ci invita a riflettere su una questione estremamente importante: che cosa facciamo mentre parliamo, cosa accade mentre parliamo. Accade che affermiamo cose, certo, ma non sappiamo che cosa e in buona parte non sappiamo neanche perché. L’unico motivo per cui affermiamo cose è per potere dominare, senza, tuttavia, avere contezza del fatto che non dominiamo niente. Questo è ciò che è toccato in sorte agli umani dal momento in cui hanno incominciato a parlare. Da qui anche le parole di Nietzsche rispetto all’arroganza: pensare di sapere come stanno le cose. Non sappiamo nulla delle cose, né se ci sono le cose, né che cosa stiamo dicendo esattamente quando diciamo che le cose ci sono o non ci sono. Ciò nonostante, parliamo ininterrottamente, diciamo infinite cose e infinitamente, perché non possiamo non farlo: nel momento in cui iniziamo a parlare non possiamo più smettere. È come se in un certo modo, a questo punto, potessimo affermare che, in fondo, non sappiamo nulla del linguaggio, sappiamo qualcosa del suo funzionamento: il linguaggio non è altro che relazione, connessioni, rinvii. Ma abbiamo visto già con Aristotele che questi rinvii poggiano sul sillogismo, sull’inerenza. E l’inerenza su cosa poggia a sua volta? Sull’analogia. E l’analogia? Sul sembra, pare, si dice. È come se Aristotele si fosse trovato per le mani qualcosa che non era assolutamente in condizione di gestire, e cioè il linguaggio. Tant’è che tutto ciò che incontra, come abbiamo visto in varie occasioni, non sono altro che problemi su problemi, e più cerca di restringere il campo in modo da determinare qualcosa una volta per tutte, più questo gli si spalanca di fronte con miriadi di altre vie, di altre porte che si spalancano, di altri rimandi. In fondo, questo tentativo di Aristotele di definire, di determinare ogni cosa che incontra sulla sua strada, è il tentativo di ridurre qualche cosa. Ma questo qualche cosa che cos’è? Sono i molti, sono questi che cerca continuamente di ridurre all’uno, e più lui cerca di ridurli e più loro aumentano perché ogni volta, nel tentativo di ridurre i molti all’uno, deve compiere certe operazioni, operazioni che richiedono l’esistenza dei molti, sennò non le fa. E, allora, si rivolge qui alla chiacchiera, alla retorica. Tra i problemi, poi, alcuni sono universali e altri particolari. Sono universale, ad esempio, problemi del tipo “ogni piacere è un bene e nessun piacere è un bene”; al contrario sono particolari i problemi come, ad esempio, “qualche piacere è un bene e qualche piacere non è un bene”. Rispetto ad entrambi i generi di problemi, inoltre, ciò che costruisce e ciò che demolisce un problema è comune ad entrambi… Qui comincia a interessarsi a un aspetto specifico, e cioè alla costruzione e alla demolizione di argomentazioni, in particolare alla demolizione. Il meccanismo – si tratta, in effetti, di un meccanismo – è sempre ed esattamente lo stesso: affermare o negare una inerenza. E come lo fa? Usando il quadrato logico, né più né meno: se io affermo che tutte le A sono B, se c’è almeno una A che non è B, ecco che ho demolito l’affermazione universale, perché non è più vero che tutte le A sono B. il discorso che fa in queste pagine, che non è molto interessante, sta nel mostrare che una certa cosa appartiene a un’altra oppure no. Ma come si mostra che appartiene, che inerisce? Attraverso l’analogia, ovviamente; quindi, attraverso ciò che i più ritengono – come dice molto spesso, i più saggi, i più illuminati – che sia vero. Si deve, perciò, parlare innanzitutto di ciò che demolisce una formulazione universale, sia per il fatto che è comune tanto ai problemi universali quanto a quelli particolari, sia per il fatto che le tesi sostenute dagli avversari consistono di più in una affermazione che in una negazione, e coloro che le discutono le demoliscono. Si tratta di vedere come si demolisce un discorso. È estremamente semplice: ciascun discorso è un’argomentazione; ciascuna argomentazione è sostenuta da una premessa maggiore, che è un universale; quindi, ogni demolizione dovrà necessariamente mettere in discussione l’universale. Come si mette in discussione, come si nega l’universale? Lo abbiamo detto prima: con il quadrato logico, cioè, trovando quel particolare che non rientra nell’universale, che lo nega; a questo punto l’universale crolla, è demolito. Tutti gli esempi e i discorsi che fa si riducono a questo, e cioè all’utilizzo, sempre e comunque, del quadrato logico. Per esempio, quando poi dirà che un bene maggiore è preferibile a un bene minore, anche questo viene dal quadrato logico, dalla considerazione che, se tutte le A sono B, allora anche qualche A sarà B. Nel quadrato logico si chiamano subalterne: che qualche A sia B appartiene necessariamente all’universale che afferma che tutte le A sono B. Ma le appartiene necessariamente sì e no, nel senso che appartiene se è un comando che io do – affermare che tutte le A sono B è, in fondo, un comando che io do, e quindi, la subalterna che dice che qualche A appartiene a B viene accettata immediatamente perché rientra nell’universale affermativa. Tuttavia, questo non toglie nulla al problema dell’universale “tutte le A sono B”: è proprio così? Le hai controllate tutte? Se non le hai controllate, che cosa significa che tutte le A sono B? È un mio comando, cioè, io dico che tutte le A sono B. Va bene, ma in realtà non sto dicendo niente perché non lo posso provare. E se non lo posso provare, allora rientra nella definizione. La definizione non ha una prova, non può essere provata; non potendo essere provata, deve essere accolta così; tuttavia, è la base, la premessa di ogni argomentazione, quindi, di ogni dimostrazione. A pag. 1239. Un altro schema consiste nell’osservare quelle realtà a cui, o a tutte o a nessuna, si dice che appartenga qualcosa. E, d’altro canto, occorre guardare alla specie e non all’infinita molteplicità delle realtà che sottostanno alla specie stessa; l’indagine, infatti, è più ristretta al suo ambito e limitata a poche realtà. Bisogna restringere il più possibile. D’altro canto, si deve partire da ciò che viene prima e poi procedere fino a ciò che non è ulteriormente divisibile. E qui c’è un problema, che lui stesso ha sollevato: se ogni cosa è molte cose, infinite cose, quando finiremo di dividere? Mai. Per esempio, se si dice che “c’è una scienza che ha per oggetto realtà opposte”, allora bisogna esaminare se quella stessa scienza ha per oggetto realtà relative, contrarie, quelle che si danno secondo un rapporto di possesso e privazione, e quelle contraddittorie. Cioè, le inseriamo nel quadrato logico e vediamo se è possibile affermare una particolare negativa che neghi una universale affermativa. A pag. 1241. D’altro canto, si può convertire tale schema trasformandolo da distruttivo a costruttivo. Se infatti appare chiaro che appartiene a tutte le realtà o alla maggior parte di esse, si dovrà pretendere che l’interlocutore esponga la sua tesi, formulandola in modo universale, oppure che faccia un’obiezione, indicando sotto quale aspetto le cose non stanno così come sono state formulate. Infatti, se non fa nessuna di queste due cose, il suo comportamento risulterà assurdo, visto che non vorrà abbracciare nessuna delle due tesi. Si pretende che l’interlocutore affermi un universale, solo allora possiamo combattere. Se non affermo un universale ma un particolare, allora è un accidente: può essere così, certo, ma può essere in qualunque altro modo. Come difatti accade, solo che per affermare qualcosa siamo costretti a togliere i molti; ma questi molti, che apparentemente togliamo, ci sono ed è per questo che è sempre facile confutare qualunque cosa, perché questa qualunque cosa ha molteplici aspetti. Basta che l’interlocutore ne dimentichi uno e lo si colpisce. È sempre relativamente facile abbattere qualunque argomentazione, perché per affermare qualcosa deve affermare un universale; per affermarla come universale deve togliere tutti i molti e ridurli all’uno; e tutti gli altri che sono lì, pronti ad essere utilizzati dall’avversario? Quindi, è sempre possibile confutare qualunque affermazione, inevitabilmente. A pag. 1245. Per chi demolisce, però, non c’è bisogno di partire da un accordo… Anche in questo caso potremo dire sì e no. Certo, si demolisce perché c’è un disaccordo, ma deve essere d’accordo su alcune regole, sennò non possiamo né provare né confutare alcunché. …né nel caso in cui sia stato detto che qualcosa appartiene ad “ogni” realtà, sia nel caso in cui si dica che non appartiene a “nessuna” di esse; se infatti mostreremo che non appartiene ad una “qualsiasi” realtà, avremo demolito l’affermazione ad “ogni” realtà, e allo stesso modo, se mostreremo che appartiene ad “una sola”, demoliremo l’affermazione che non appartiene a “nessuna”. Qui è sempre il particolare che demolisce l’universale, sia affermativo che negativo. Al contrario, chi mira a consolidare un discorso deve accordarsi in anticipo sul fatto, se qualcosa appartiene a qualche realtà, allora deve appartenere ad ognuna di esse, ammesso che tale presupposto risulti convincente. In realtà, infatti, non basta discutere di “una sola” realtà, per mostrare che la caratteristica appartiene ad “ogni” realtà, come ad esempio non è sufficiente dire che, se “l’anima dell’essere umano è immortale”, allora “ogni anima è immortale”. Quindi, bisogna mettersi d’accordo in anticipo sul fatto che se “un’anima”, qualunque essa sia, è immortale, allora “ogni anima è immortale”. Cioè, bisogna mettersi d’accordo sul fatto ho ragione io, in pratica. A pag. 1247. Occorre, poi, distinguere tanti significati quanti sono utili. Qui dice una cosa fondamentale. Ciascuna cosa è tantissime cose, è infinite cose. Quali prendiamo? Quelle che ci sono utili. Tutte le altre non ci sono utili, anzi, possono essere una minaccia. Quindi, dovremmo prendere soltanto quelle che ci sono utili a sostenere la mia tesi, per la mia ragione. Come, per esempio, se vogliamo consolidare un’affermazione, occorrerà mettere in evidenza tutte le realtà la cui natura rende possibile sostenere qualcosa, e si dovranno distinguere solo quei significati che risultano utili per il consolidamento; se, al contrario, vogliamo demolire un’affermazione, bisognerà mettere in luce i casi in cui il sostenere alcunché non è possibile, tralasciando gli altri. Ma ci si deve comportare così, ame anche ora, solo quando i diversi significati rimangono nascosti. È esattamente quello che vi dicevo, e cioè se ciascuna cosa, come dice lui stesso, è infinite cose, prendo soltanto quelle che mi sono utili. Ma rimane il fatto che tutte le altre cose permangono e se il mio interlocutore è sufficientemente abile le trova immediatamente e mi confuta all’istante. A pag. 1249. E poi si possono cambiare i nomi ricorrendo a termini più noti, come ad esempio, invece di dire “l’acribia” nel giudizio, si può dire “la chiarezza”, ed anziché “l’affaccendamento” si può dire “l’amore dell’operosità”. Infatti, se quanto è stato detto diventa più comprensibile, la tesi risulta più facilmente attaccabile. Per questo in retorica sembra preferibile non dare troppe spiegazioni quando si afferma qualcosa, perché ogni spiegazione offre all’avversario il destro per obiettarmi un sacco di cose. Inoltre, per mostrare che i contrari appartengono entrambi alla medesima realtà, bisogna guardare il genere; per esempio, se vogliamo mostrare che nella sensazione risiedono correttezza ed errore, diremo “poiché il provare sensazioni significa giudicare, e poiché è possibile giudicare sia in modo corretto sia in modo scorretto; quindi, anche nel provare sensazioni vi potranno essere correttezza ed errore”. Considerate questa argomentazione. Dice poiché il provare sensazioni significa giudicare, ma il poiché, questa congiunzione, lascia intendere che questa cosa sia già stata provata. Il provare sensazioni significa giudicare: perché? È possibile, certo. Qui viene dato per acquisito che la sensazione sia un giudizio.

Intervento: Potremmo intendere la sensazione come la conclusione di un sillogismo.

Sì, certo, possiamo fare questo e molto altro. Potremmo anche mettere in discussione una cosa del genere, per esempio affermando che la sensazione è l’avvio del giudizio, è perché c’è una sensazione io a questo punto mi chiedo il perché, quindi, costruisco argomentazioni. Lui stesso diceva che si parla per via del πάθος, delle sensazioni; quindi, che la sensazione sia un giudizio non è esattamente corretto, ma la sensazione prelude al giudizio, potremmo dire. Ora, ha ragione qui Aristotele a dire le cose che dice o ho ragione io? Entrambi, naturalmente; entrambe le argomentazioni sono sostenibili.

Intervento: Un fastidio qualunque segue a una serie di considerazioni.

Certo. Gabriele afferma A e io affermo non-A. Entrambi abbiamo ragione. Perché? Perché A e non-A sono simultanee, si coappartengono, così come ciascuna cosa è tantissime cose, ma queste tantissime cose coappartengono a ciò che affermo, la quale non ci sarebbe senza tutte le altre. Ecco da dove viene la possibilità di contraddire, lo stesso paradosso viene da lì, dal tenere separati l’uno e i molti. Ecco perché uno come Eraclito non aveva bisogno di una logica di questo tipo, perché non c’era nessuna contraddizione perché, se l’uno è i molti non è possibile costruire nessuna contraddizione. La contraddizione si costruisce nel momento in cui separo l’uno dai molti, ma sappiamo anche che non posso non separarli se voglio affermare qualcosa; quindi, affermando una qualunque cosa mi autocontraddico all’istante. Posso saperlo oppure no: se lo so, non me la prendo a male; se non lo so, se qualcuno mi fa notare che mi sto contraddicendo, la prendo malissimo. Inoltre, per mostrare che i contrari appartengono entrambi alla medesima realtà, bisogna guardare il genere; per esempio, se vogliamo mostrare che nella sensazione risiedono correttezza ed errore, diremo “poiché il provare sensazioni significa giudicare, e poiché è possibile giudicare sia in modo corretto sia in modo scorretto; quindi, anche nel provare sensazioni vi potranno essere correttezza ed errore”. Qui sfiora la questione, sembra quasi accorgersene ad un certo punto. I contrari appartengono entrambi alla medesima realtà. Se avesse aggiunto “necessariamente”, tutto si sarebbe risolto all’istante. E, invece, lui lo pone come un caso particolare, dove i contrari appartengono alla stessa realtà. Ma non è un caso particolare, la coappartenenza dei contrari è un qualcosa che appartiene a ciascuna parola, a ciascun atto. Questo, come dicevo prima, è il motivo per cui è facile confutare qualunque cosa: nel momento in cui separo l’uno dai molti sono preso nell’inganno, sono preso nella contraddizione perché voglio sostenere l’uno e anche i molti, e come faccio? Come faccio a sostenere l’uno se non è determinato? E se è determinato è determinato da che? Dai molti, ovviamente. A pag. 1253. D’altro canto, chi non è in grado di attaccare facilmente la tesi, potrà prendere in considerazione le definizioni, reali o apparenti, della realtà in questione, prendendo le mosse da molte di esse, nel caso in cui non ne basti una sola. Infatti, per chi si serve di definizioni, l’opera di demolizione risulta più facile; infatti, l’attacco mosso contro le definizioni è più facile. È chiaro che è più facile, perché è più facile mostrare che la definizione non è solo quella, posso definire quella cosa in tanti modi, perché, come lui stesso ha detto, le cose si dicono in tanti modi. Quindi, se l’interlocutore muove da una definizione, io ne do un’altra di definizione; chiaramente, modificando la definizione si modifica anche tutto il sillogismo, cioè, tutto ciò che implica. A pag. 1257. Inoltre, chiunque dice una qualsiasi cosa, in realtà, ne ha già dette molte, perché ad ogni affermazione ne seguono necessariamente molte altre… Qui sta dicendo qual è la questione, ma non si rende conto della portata di questa cosa. …per esempio, se si dice che “qualcuno è un essere umano”, ha già detto che è “un animale”, che è “vivente”, che è “bipede” e che è “tale da possedere intelletto e scienza”. Ma occorre stare attenti a che, tramite lo scambio, non si complichi ulteriormente la questione: infatti, talvolta è più facile demolire la conseguenza, talvolta, invece, è più difficile l’affermazione di cui si discute. Anche qui pone la questione come un caso particolare, senza accorgersi della portata di quello che sta dicendo, e cioè che dicendo una qualsiasi cosa ne ha già dette molte. Questa cosa è molte, quale prendo? Ha detto anche questo: quella che è più utile. Più utile per che cosa? Anche questo l’ha detto: più utile al piacere, all’ήδονή. E questo piacere in che cosa consiste? Nel compimento di qualche cosa, ha detto anche questo. E il compimento che cos’è? Il compimento è l’idea di avere tolto i molti e lasciato l’uno, quindi, di avere il controllo totale sulla cosa. Ha già detto tutto ma non ne tiene conto, così come avrebbe dovuto forse fare; e allora, sì, questa affermazione – dicendo una cosa ne ha già detto molte – avrebbe avuto una portata immensa. Noi potremmo aggiungere: le ha già dette tutte. Dicendo tre, hai detto sì un numero, ma li hai detti tutti, che devono esserci perché esista il tre. A pag. 1265. Per coloro che sostengono l’esistenza delle Idee, in realtà, esse sono in quiete e intelligibili… Le possiamo conoscere. …però è impossibile che, essendo in noi, esse siano immobili; infatti, è necessario che muovendoci noi, si muova contemporaneamente anche tutto ciò che sta in noi. E poi è evidente che sono pure sensibili, se sono in noi; infatti, giungiamo a conoscere la forma che risiede in ciascun oggetto mediante la sensazione della vista. Qui, nella foga di scagliarsi contro Platone, dimentica il fatto che per Platone le Idee non sono in noi ma sono nell’Iperuranio, ed è per questo motivo che sono immobili. In noi ci sono le Idee relative a ciascun sensibile, ma queste non sono le Idee di Platone. Questo libro non è l’idea del libro, è un libro; ma l’idea del libro non sta in me, non sta nemmeno nel libro, sta nell’Iperuranio. A pag. 1269. Altro esempio: se “la scienza si configura come un opinare”, anche “l’oggetto della scienza è oggetto di opinione”; se “la visione è una sensazione”, allora anche l’”oggetto visibile è un oggetto sensibile”. Però si può sollevare l’obiezione che per i termini relativi la connessione non avviene necessariamente come abbiamo detto; infatti, è sì vero che l’oggetto sensibile è oggetto della scienza, ma, d’altro canto, la sensazione non è scienza. Tutto quello che afferma si può confutare con estrema facilità. Ma l’obiezione non risulta affatto vera: infatti molti negano che sia scienza degli oggetti sensibili. Quanto abbiamo detto, per di più, non è meno utile per sostenere il contrario, come ad esempio che l’oggetto sensibile non è oggetto di scienza; infatti, neppure la sensazione è scienza. Lui stesso mostra immediatamente il pro e il contro. I pro e i contro sono sempre facili da provare perché dicendo una cosa ne dico infinite, praticamente le dico tutte, compresa quella che nega. Quella che nega, contrariamente a quello che pensava Gödel, non la posso eliminare, permane. Lo stesso teorema di Gödel è una riformulazione della separazione dell’uno e dei molti: se si coappartengono allora la matematica diventa coerente e completa, simultaneamente. A Gödel questo non andava bene, doveva essere una cosa o l’altra, tertium non datur. No, sono entrambe le cose, ed è questa la difficoltà che a tutt’oggi permane nel pensiero; difficoltà che Eraclito aveva immediatamente, sin da subito, risolta. Invece, mantenendo questa separazione, sorgono infiniti problemi, che sono sorti relativamente al pensiero. Questi problemi vengono da lì, dal tenere separati l’uno dai molti, cioè, come ci dice Hegel, dal pensiero religioso. A pag. 1275. Aristotele stesso si accorge come ciascuna cosa può essere usata sia contro che a favore. E ancora, si può prendere in esame la questione se realtà simili si comportino in modo simile; per esempio, se si suppone che ci sia un’unica scienza di più realtà, si può esaminare anche se c’è un’unica opinione, così come, se si suppone che “possedere la vista” significhi “vedere”, si può esaminare se “possedere l’udito” significhi “udire”. Lo stesso, poi, si dica per altre realtà, sia che esse siano reali sia che esse siano apparenti. Lo schema è utile in entrambi i versanti, distruttivo e costruttivo… Posso affermare o negare qualunque cosa, facendo il sofista, perché erano loro a fare questo. A pag. 1277. Infatti, se una caratteristica “appartiene” in modo simile o “sembra appartenere” a due realtà, se non appartiene ad una delle due non appartiene neppure all’altra, mentre se appartiene a una delle due, allora appartiene anche alla seconda; allo stesso modo, se due caratteristiche appartengono alla stessa realtà in modo simile, se una delle due non appartiene a quella determinata realtà, non appartiene neppure l’altra, mentre se una delle due appartiene, allora appartiene anche l’altra. Ha fondato finalmente tutto il pensiero occidentale, attraverso l’analogia. Dice “sembra appartenere”: c’è qualche altra forma di appartenenza che possiamo porre? No, ogni appartenenza è il “sembra” che appartenga. L’analogia è il fondamento della logica. Siamo al Libro terzo. A pag. 1287. Vi leggo l’incipit così capite di che cosa si tratta. Inoltre, la questione di quale, tra due realtà, sia preferibile o sia migliore, si deve esaminare nel modo che segue. Innanzitutto, però, occorre precisare che la nostra ricerca non verte su realtà molto distanti le une dalle altre e tra realtà, tra cui c’è una grossa differenza (nessuno, infatti, si trova in difficoltà di fronte all’alternativa se sia preferibile la felicità oppure la ricchezza). /…/ Quindi, di fronte a realtà con queste caratteristiche, è evidente che, una volta che si è mostrata la superiorità di una sola o di molte di queste realtà, la ragione sarà d’accordo nello stabilire che questa che si rivela superiore risulta essere la realtà preferibile. È meglio stare bene o stare male? Ovviamente, è una banalità, però, è utile in retorica per mostrare un’analogia: così come è meglio stare bene anziché male, per lo stesso motivo è preferibile condannare Catilina all’esilio perché lui rappresenta il male; siccome è meglio stare bene anziché male ed essendo lui il male, allora va eliminato. È questo l’utilizzo pratico, sennò sarebbero delle banalità. È l’analogia più banale ma è quella accolta da tutti; chi negherebbe che è meglio un gianduiotto che un cazzotto sul naso. Se accetti questo allora ti faccio accettare anche quest’altra cosa, che non c’entra nulla con questo ma che però ha già ottenuto in parte il tuo consenso perché sei già d’accordo su questo, e cioè che il bene è meglio del male. Anche emotivamente questo mette l’interlocutore nella disposizione di accettare anche la seconda, con tutte le dovute cautele.