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10/1/1996

 

Non posso conoscere alcun elemento se questo non è in relazione con qualche altro elemento, poiché non sarebbe nulla, sarebbe fuori dalla parola, poiché ciascun elemento è nella parola in quanto preso nella combinatoria linguistica, fuori da questa combinatoria non esiste in alcun modo. Ma se è in relazione con qualcosa e se non posso conoscerlo altrimenti che in relazione con qualcosa, allora ciascun elemento è pensabile soltanto in questa relazione, dunque esiste in questa relazione, e pertanto è uno e molteplice e quindi non è uno. Ma se non fosse uno, cioè il medesimo, allora nulla sarebbe individuabile. Non essendoci alcun elemento individuabile, allora neppure il significato, qualunque cosa si intenda con esso, sarebbe individuabile e pertanto utilizzabile nel gioco linguistico. La questione è quella del continuo e del discreto, come cioè potere individuare un elemento discreto se non è continuo, se cioè non è connesso con un altro elemento? Ma se è connesso con un altro elemento allora è un continuo con l’altro elemento, senza soluzione di continuità, e pertanto non è individuabile, cioè non potrò mai conoscerlo in quanto uno. Ma ciò che non posso conoscere esiste oppure no? Se esistesse sarebbe un’esistenza fuori dalla parola, e quindi nulla, se non esistesse, allora come potrei dirlo, e se esiste nella parola allora lo conosco, cioè posso dirlo. Dunque ciascun elemento è uno e non può essere uno. La freccia di Zenone si muoverà e resterà inesorabilmente ferma. Quiete e movimento, simultaneamente e necessariamente.

Questione di rappresentabilità o di pensabilità. Qualcosa può essere pensabile ma non essere rappresentabile. Perché qualcosa sia rappresentabile occorre che il suo rinvio sia rappresentabile, che cioè quest’ultimo abbia un rinvio tale che possa essere “misurabile”, cioè confrontabile con un altro elemento. Confrontabile e misurabile sono lo stesso?

Ma il problema è proprio la misurabilità, e cioè la considerazione che due elementi non siano tra loro misurabili e quindi non confrontabili. Il problema rimane quello del continuo.

Il continuo è un elemento linguistico, anche la misura. Lo stesso il pensiero e la rappresentazione. Anche rappresentare è misurare?

Limite è approssimazione, né potrebbe essere altrimenti.

Ma che cosa stiamo intendendo con “misura”? Il più e il meno, cioè la quantità, il “quanto” delle cose, delle cose e cioè delle parole. Ma il “quanto” delle cose è rappresentabile? Sono rappresentabili le parole? Con che cosa?

Res cogitans e res extensa. Non sono lo stesso, o forse si?

Il pensiero e il pensato. Con che cosa potrò distinguerli? Distinguere è misurare? Distinguere comporta il confrontare, e il confrontare con che cosa confronta, con la misura? O con che altro?

Che cosa dobbiamo intendere con “uno”? Qualunque cosa intenderemo questa non sarà esente da paradossi, pertanto occorrerà muovere in altre direzioni. Ma è possibile dare una definizione che sia esente da paradossi? Se ciascuna definizione comporta necessariamente un rinvio, allora posso definire x attraverso y e pertanto x sarà y. Ma se x è y allora x cosa sarà? Non potrò pensare né dire x senza dire y. Dobbiamo dire che x non è x? Perché se lo fosse non sarebbe y, ma per essere x deve essere y. Che cosa ci stiamo chiedendo con questo? Se ciascun elemento è se stesso soltanto attraverso altro da sé? Parrebbe. Tuttavia se dico un elemento linguistico questo è se stesso e non altro, ma questo lo posso soltanto pensare, dire, ma non provare. Ma lo posso negare? Negandolo negherei che sto dicendo quell’elemento, ma lo sto dicendo. La questione si pone allora in questi termini: dire che un elemento è se stesso non significa nulla, dire che non significa nulla non significa nulla. Il lessema “significa” non sarebbe pertanto un significante in quanto sprovvisto di significato poiché quest’ultimo non può essere identificato.

Ma dire che ciascun elemento linguistico è se stesso che cosa dice, se non che non è sostituibile con un altro e quindi è da quest’ultimo separato? Se affermo che in questo momento sto scrivendo, questo posso dirlo in modi differenti, ma ciascuno di questi dovrà essere riconducibile a quello che afferma che in questo momento sto scrivendo, altrimenti dirà un’altra cosa, e non questa. Ma ci sono casi limite in cui questa riconduzione può essere difficoltosa, e pertanto può risultare non decidibile se si tratti oppure no della stessa cosa. Di nuovo, che cosa diciamo dicendo che un elemento è se stesso? Adesso considerate Zenone, antico, Zenone di Elea e i suoi paradossi: il paradosso del movimento e il paradosso della quiete. È possibile dimostrare l’impossibilità del movimento, famoso esempio della freccia, l’arciere prende la freccia dalla faretra, incocca nell’arco, tende la corda, incocca si dice così, quando la corda è tesa a limite, allora scocca la freccia ma al momento che la freccia scocca per compiere un metro, dovrà compierne prima mezzo, poi un quarto, poi un ottavo, poi un sedicesimo poi....così via all’infinito, cioè la freccia non si muoverà mai da dov’è. A questo modo dimostriamo l’impossibilità del movimento e la quiete? Supponiamo che un elemento sia fermo, sia in stato di quiete, per potere dire che è uno stato di quiete occorre che tutto ciò che lo circonda sia fermo perché se qualcosa è in movimento allora questa quiete è relativa al movimento, è in relazione a qualche cosa, non è una quiete assoluta, occorre che tutto intorno sia assolutamente fermo, poi ci sono io che devo stabilire che questa cosa è ferma, devo essere fermo anch’io, se non sono assolutamente fermo non posso cogliere nulla neanche la quiete quindi nessun elemento può essere in quiete. E con questo Zenone ha liquidato sia il movimento che la quiete. Ciascun elemento non può né muoversi né stare fermo. Di cosa sono fatti questi paradossi? Come sapete i paradossi sono formulazioni che conducono il linguaggio alle estreme conseguenze, e illustrando l’impossibilità del movimento, per esempio, cosa facciamo? Utilizziamo delle procedure linguistiche. Utilizziamo delle procedure linguistiche che ci conducono ad affermare che il movimento non è possibile, ma con movimento cosa intendiamo? Che cos’è il movimento? Come definire il movimento? Il movimento possiamo indicarlo come un mutamento di stati, così in accezione più ampia e più generale possibile o una successione di stati. Stato è qualcosa che sta, che si suppone fermo, movimento è una successione di stati o di eventi o di accadimenti. Perché dobbiamo attenerci a qualche cosa che tutto sommato è assolutamente banale, normale, così come affermare che il movimento è una successione di stati o una successione di eventi o mutamento di stati, può non essere questo? Non può non esserlo, per una procedura linguistica, bisogna attenersi sempre alle definizioni più banali, più ampie e più generiche, quelle che dicono tutto e niente. Se noi dicessimo che il movimento non è una successione di stati dovremmo fornire un’altra accezione di movimento, ma sarà molto difficile non ricondurre quest’altra accezione a questa definizione: movimento come successione di stati, qualunque cosa si intenda con successione o con stati, in qualche modo è ciò che non può non dirsi, se si accoglie questo termine. Allora dunque movimento come successione di stati. Quali stati? Stati di che tipo? Questi stati sono atti linguistici, sono eventi extralinguistici? Prendiamo il famoso esempio della freccia, cosa dice Zenone dicendo che la freccia non si muove? A cosa si riferisce? Evidentemente al movimento in questa accezione, cioè una successione di stati perché la freccia non riuscirà mai a raggiungere quello successivo perché sarà sempre fermata da quello precedente. In questo senso la freccia non si muove, cioè non potrà raggiungere lo stato successivo. Effettivamente, se il movimento è una successione di stati, la freccia non riuscirà mai a raggiungere quello successivo perché sarà fermata sempre prima. Logicamente non fa una grinza. Se la freccia deve compiere prima un mezzo, poi un altro mezzo, poi un altro mezzo ancora, ma portando questo discorso all’infinito, anche per compiere qualunque stato, per passare qualunque stato dovrà passare quello precedente quindi si muoverà, però un momento, prima di quello precedente dovrà passare quello precedente ancora... (Non è a ritroso?) No, la divisibilità è a ritroso cioè deve fare prima un metro, poi mezzo metro, ma prima deve fare un quarto di metro, un ottavo di metro, un sedicesimo di metro...e così via all’infinito. Quando, a quale punto comincerà a muoversi? (...) Però non potremmo mai dire che si sta muovendo. (...) Il discorso di Zenone induce a pensare che all’infinito questa freccia non si muoverà mai, perché qualunque stato o infinitesimo di misura, dio voglia che questa freccia compia, prima dovrà farne un altro precedente e quindi portato all’infinito non potremo mai trovarci in momenti in cui possiamo dire: ecco si sta muovendo.(...) Un momento, prima abbiamo definito il movimento in questo modo, successione di stati, poi abbiamo applicato questa definizione al paradosso di Zenone, se utilizziamo questa nozione di movimento, allora effettivamente la freccia non si muoverà, perché non potremo mai dire che è passata a uno stato successivo, perché prima dovrà avere fatto quell’altro. Qual è un’obiezione? Due obiezioni: una è una soluzione, fornita da Peirce, da Russell e da altri a questo paradosso. I quali calcolano che dieci metri, ammesso che la tartaruga abbia un vantaggio di dieci metri su Achille, che Achille incontrerà la tartaruga esattamente in quel punto definito da dieci metri più un nono di metro. Ora 1/9 fa esattamente 1,1 periodico ed è una soluzione che funziona esattamente come funziona la nozione di limite in matematica. Il limite per x che tende all’infinito di 1 è 1, semplicemente, e così Achille incontra la tartaruga esattamente in quel punto, il problema rimane questo uno periodico, che funziona esattamente come viene utilizzato nella nozione di limite in matematica, come un artificio, e matematicamente funziona perché si usa nel calcolo, non c’è nessun problema a utilizzare nel calcolo numerico il limite, proprio nessuno, però la questione rimane intatta, perché uno può continuare a chiedere e allora, a che punto esattamente questo uno periodico termina? Dov’è il punto in cui si incontra? L’altra obiezione è che effettivamente la freccia dovrà sempre necessariamente raggiungere il punto precedente, qualunque punto noi stabiliamo però, per quanto piccolo sia il punto o vicino il punto che intendiamo stabilire, la freccia avrà sempre percorso una frazione di quella parte. E quindi non è esatto dire che la freccia non si muove, la freccia si è già mossa, si è già mossa nell’istante che deve raggiungere un punto qualunque, perché è vero che questo punto può essere avvicinato quanto si vuole, ma la freccia avrà raggiunto già un punto più ravvicinato e potrò sempre dire che ha raggiunto sempre un punto ravvicinato a qualunque punto per quanto vicino possa essere. Quindi possiamo dire che è già da sempre in movimento. Però in questo caso il movimento sarebbe a ritroso, perché noi la inseguiamo avvicinandoci sempre di più, la freccia è come se si ritraesse all’infinito, quindi movimento si, ma a ritroso, paradossalmente. Ma al di là di questo c’è forse qualche altra questione connessa con i paradossi, con la struttura dei paradossi, qualcosa a cui ho accennato prima, cioè suppone di rappresentare qualcosa che è pensabile. È pensabile che la freccia non si muova, ma non posso rappresentarla, se applico un pensiero, cioè le procedure linguistiche, alle stesse procedure linguistiche e cioè in questo caso al calcolo numerico, un’altra procedura linguistica, cosa ottengo? Questa è la questione. Il paradosso si è formato come qualunque altro nella supposizione di potere applicare la forma linguistica, la proposizione linguistica a una rappresentazione spaziale, in questo caso numerica, immaginando che una struttura linguistica possa essere applicata e rappresentata fuori dalla parola. La questione che pone ciascun paradosso è questa: può una procedura linguistica rappresentarsi, rappresentare sé stessa? No, non può farlo e perché? Perché l’unico strumento di cui dispone è la stessa procedura linguistica. Non è lontanissimo Wittgenstein da tutto questo, e allora che cosa dice il paradosso di Zenone? Dice che la nozione di movimento in un caso e nell’altro, cioè il fatto che posso dire che la freccia non si muove però di fatto lo vedo che parte, utilizza due nozioni che procedono da procedure linguistiche differenti. Una procedura linguistica può chiaramente dire di un’altra procedura linguistica, dicendo altre cose, ma non può dire di sé, non può mostrarsi se non utilizzando altri elementi, dicevamo prima, ciascun elemento per dirsi deve dire altro. Allora il movimento, nel primo caso utilizza una procedura che è quella della infinita divisibilità dello spazio, che non ha nessun referente, è soltanto un procedimento linguistico, nel secondo caso invece utilizza una nozione di movimento che semplicemente non tiene conto di questa divisibilità. Perché non ne tiene conto? Per via di un’altra procedura linguistica o, se preferite, di un altro gioco linguistico. La questione può sembrare complicata ma è semplicissima, vi faccio un esempio: ciascuno si trova a parlare continuamente, a compiere affermazioni, negazioni e una quantità sterminata di cose, può sapere benissimo che non è possibile in nessun modo individuare, isolare, stabilire un significato preciso, in nessun caso, sa questo, tuttavia continua a giocare altrove un gioco linguistico che invece fa come se tutto ciò non esistesse, e cioè come se ciascun elemento avesse un significato ben preciso. Però, dicevamo che anche se così non fosse, se un elemento non avesse un significato, non potrebbe essere utilizzabile e quindi non ci sarebbe neanche il gioco e allora si tratta di questo: quando dico qualcosa, nel dirlo faccio qualcosa ma dicendo qualcosa produco anche qualche cosa, questo qualcosa che produco non è altro che un altro elemento, vale a dire lo stesso elemento che si pone come altro da sé, non potrei in nessun modo parlare se ciascun elemento non si ponesse come altro da sé, se fosse identico, se non esistesse in relazione con altri, come dicevo prima, non sarebbe in nessun modo concepibile, eppure continuiamo a dire che è anche se stesso, se voi notate bene è sempre esattamente la stessa questione, soltanto enunciata in modi differenti, tuttavia due aspetti, e non c’è l’uno senza l’altro. Sto dicendo questo, e sto ponendo una questione più che come affermazione: il fatto che possa dire che la freccia scoccata dall’arciere si muove rapidissimamente e coglie il bersaglio, questo posso dirlo perché so anche che il movimento è infinitamente divisibile e che a questo riguardo la freccia non si muoverà mai. Provate a considerare questi come due aspetti della stessa questione. Perché dico che la freccia si muove e raggiunge il bersaglio? Cosa sto dicendo con questo? Qualcosa di più del riportare un evento di cui mi capita di assistere, questo evento non è fuori dalla parola. Questo gioco che mi consente di affermare che la freccia scocca e raggiunge il bersaglio è fatto, o può dirsi, perché è inserito in una struttura che è fatta di procedure, (...) qualcosa del genere, in questo caso la questione è posta in termini più radicali. Perché sono due facce della stessa questione? Se non sapessi, prendiamo l’esempio di prima, forse ci agevola, che nessuna cosa ha un significato provabile, se fossi assolutamente consapevole e certo di questo, potrei parlare? Un quesito. Se cioè, in altri termini, il linguaggio fosse soltanto una nomenclatura pura e semplice dove ciascuna parola corrisponde alla cosa, soltanto una nomenclatura, se non sapessi perfettamente che non è così, che il linguaggio non è affatto una nomenclatura ma che può indicare qualunque cosa, che ciascun elemento può indicare qualunque cosa e il suo contrario ecco, allora ci sarebbe l’eventualità che non solo cesserei di parlare, non potrei proprio parlare. Perché non potrei parlare? Perché il dire si limiterebbe al nominare delle cose, una volta nominata l’operazione terminerebbe, terminerebbe e sarebbe per tutti assolutamente la stessa cosa. Ora lasciamo stare la questione che tutto questo non è in nessun modo provabile e stabilibile, si tratta di un altro discorso ancora, consideriamo invece il fatto che per potere dire che le cose significano una certa cosa, devo potere, o meglio devo sapere che non è affatto così (...) Certo se ciascun lessema significasse sempre esattamente la stessa cosa, provate a immaginare che tipo di linguaggio sarebbe, non ci sarebbe la possibilità di movimento, il linguaggio sarebbe una semplice illustrazione di fatti, a questo punto a che scopo, per chi? Che questo sia un aspetto, una fantasia piuttosto diffusa è indubbio, ciò che stiamo dicendo è che questa fantasia è supportata e può esistere perché da, simultaneamente, la certezza che non è affatto così, cioè ciascun elemento, ciascun lessema non significa affatto quella cosa se non per un gioco che si sta svolgendo in quel momento, una questione complessa, tuttavia proviamo a considerarla così: perché mi agito, mi do da fare per dire che una certa cosa è quella, anche tra me e me, anche se non necessariamente devo persuadere o devo convincere qualcuno? Perché ho il dubbio che forse non è esattamente così, o quanto meno immagino che potrebbe non essere così, immagino comunque sempre che potrebbe non essere così, questione complessa, eppure se io non avessi questa certezza che non è così, tutto si fermerebbe come d’incanto, così, come dicevamo prima, avverrebbe con la quiete assoluta, ciascun elemento sarebbe immobile, fermo, potremmo giungere a dire che il linguaggio non esisterebbe.

- Intervento: C’è una sorta di analogia con l’arbitrarietà del segno in De Saussure, come nel gioco scacchi, dove i pezzi diventano significanti nel gioco.

Certamente.

- Intervento: Gli elementi linguistici di per sé non significano nulla, è nel gioco, in quello che si sta facendo...

Ormai Lei ha detto tutto, allora a questo punto qual è la questione del movimento? Perché la freccia si muove e non si muove? In un caso, molto semplicemente, io uso questo significante “movimento” nel significato, cioè nell’uso che in quel momento, parlando, viene stabilito dal linguaggio in cui mi trovo, se invece voglio che questo significante “movimento”, al di fuori dell’uso che viene fatto renda conto di sé, che cosa succede immediatamente? Che il movimento rinvia ad un altro movimento, questo movimento a un altro movimento, esattamente come avviene nel paradosso dell’autoreferenzialità, come se mi chiedessi qual è il movimento del movimento. Non è effettivamente un problema quello della infinita divisibilità del movimento, ma se io mi chiedo che cos’è il movimento non posso far altro che rispondermi: il movimento, nient’altro che questo. Quando Zenone si trova di fronte alla freccia e dice che questa freccia deve compiere prima dieci, poi cinque, poi...che cosa si sta chiedendo, si sta chiedendo che cos’è il movimento, che cos’è il movimento assoluto, se possa darsi un movimento assoluto, e trova che all’interno del movimento c’è un altro movimento e all’interno di questo movimento c’è un altro movimento ancora. Allora il problema attorno a cui si sono affaccendati i matematici è non avere colto questo, e avere cercato e avere continuato a cercare l’assoluto del movimento attraverso un calcolo numerico senza tenere conto che il calcolo numerico è un altra procedura linguistica, e che una procedura linguistica non può uscire fuori dalle procedure linguistiche. Allora è come immaginare, così come è avvenuto sempre rispetto a questi paradossi, che una procedura linguistica sia traducibile in un calcolo numerico extralinguistico, identico a sé che e quindi debba rispondere di sé, e non risponderà mai, salvo appunto continuare a dire esattamente la stessa cosa, cioè che il movimento è il movimento, cioè la freccia deve fare questo movimento, ma prima deve fare quest’altro movimento eccetera, quindi il movimento rinvia sempre a quello precedente, e così via all’infinito. Ma se questa è la struttura, potremmo dire essenziale di qualunque forma di paradosso (Intervento:...) Ecco, è una questione, e cioè come avviene che io non tenga conto effettivamente nell’uso che faccio, e qui ci colleghiamo al discorso di mercoledì scorso, che effettivamente ciò che sto facendo è un “utilizzo” metto utilizzo fra virgolette perché dire che sto utilizzando è come se io fossi fuori da questa procedura, posso dire io, come ho detto mille volte, proprio per una serie di procedure linguistiche, cioè mi trovo in un discorso che si fa, ecco come dunque accade di non tenere conto che si tratta sempre e soltanto di questo, e che invece, così come hanno mostrato per tremila anni questi paradossi è impossibile, è barrato. Se mai mi saltasse in mente di parlare di rimozione, lo farei a questo proposito, e cioè che sia rimosso questo aspetto e cioè ancora che non è possibile in nessun modo attribuire a una procedura linguistica un qual qualcosa che sia fuori dalla procedura linguistica. Così come l’impossibilità del movimento, che abbiamo esposta qui o della quiete, è la stessa cosa. Prendete il paradosso della quiete, occorre che tutto sia fermo, quindi anch’io, ma se sono fermo anch’io non posso neanche più dire che è fermo, ma anche in questo caso di cosa si tratta? Dell’applicazione di procedure linguistiche a qualche cosa che si immagina esistente di per sé. Con questo abbiamo in buona parte dissolto la questione stessa del paradosso, l’avevamo già accennata, anche nelle proposizioni ad un certo punto sfioro la questione, forse non in termini così articolati. È di nuovo un paradosso l’affermare che in questo istante io non sto parlando, può anche non essere una formulazione paradossale e probabilmente non lo è, dal momento che il paradosso è una costruzione, una costruzione che è stata inventata nell’applicare procedure linguistiche a elementi che si suppongono fuori dalle procedure linguistiche, lo stesso paradosso del mentitore, cioè dire io mento. Mento o dico la verità, dicendo: io mento? Se dico qualcosa ho detto questo ma ho mentito, ma se dico soltanto: io mento, ciò che ne segue come viene accolto? Come una menzogna o come una verità? Ma anche in questo caso si impone il paradosso se e soltanto se tanto il falso quanto il vero sono posti come elementi extralinguistici, e quindi improvabili, se no non possiamo parlare di paradosso, mai. Ecco, questo è un primo approccio alla questione, avevo posto più che altro delle questioni, poi Sandro ha affrettato il passo, se no eravamo ancora lì a indicare come di fatto la nozione di paradosso sia discutibile, perché a quali condizioni posso parlare di paradosso? Che in un modo o nell’altro si dia la supposizione che una procedura linguistica possa essere applicata a qualcosa che non è una procedura linguistica o, detta altrimenti, che una procedura linguistica possa rendere conto di sé non ricorrendo ad altre procedure linguistiche. Con questo abbiamo introdotta la questione del paradosso. Proseguiamo mercoledì prossimo...