9 dicembre 2020
L’attualismo di G. Gentile
Dobbiamo cercare di trarre il massimo profitto da ciò che ci sta dicendo Gentile. Sta dicendo delle cose importanti. Per esempio, rispetto alla questione della ragione sufficiente, il principio di ragione è un mito. Potremmo riassumere così: il principio nihil est sine ratione, è lo slogan della metafisica, né più né meno. È la metafisica che ha bisogno di questo, che ogni cosa abbia una sua origine, una sua causa determinabile, individuabile, riconoscibile, ecc. A questo punto Gentile ci mostra un aspetto straordinario, e cioè che tutta la ricerca avvenuta in un paio di millenni è il tentativo malriuscito e fallimentare di giustificare il pensiero metafisico, che è necessario. La metafisica non è niente altro che un modo di esporre rozzo, farraginoso e entro certi limiti poco utile, dicevo, un modo di esporre l’astratto. L’astratto, vale a dire, la determinazione di qualche cosa, la possibilità di affermare qualcosa, per poterlo dominare, naturalmente, non c’è nessun altro motivo. È questa la questione che ha inteso Nietzsche, e cioè che non c’è nessun altro motivo. Trovare un principio di ragione. Perché? Per potere dominare le cose, per potere dare alla metafisica un suo principio di ragione, a sua volta. Questa è la superstizione, che ha bisogno di miti, come tutte le superstizioni, e uno di questi principi è il principio di ragione sufficiente. Gentile giunge a dire è una cosa che è letteralmente impensabile, che è il modo più radicale di esporre il funzionamento del linguaggio: pensiero pensante e pensiero pensato sono i due modi con cui ciascuno approccia ciò che incontra, cioè altri pensieri, altre fantasie, naturalmente. Il problema è che non posso pensare il pensiero pensato. Non lo posso pensare, perché se lo penso, nel momento in cui lo penso è pensiero pensante. Quindi, il pensiero pensato non è pensabile. Ma anche il pensiero pensante non è pensabile, perché pendolo diventa pensiero pensato. Pertanto, nessuno dei due momenti risulta pensabile; tuttavia, non posso pensare l’uno senza l’altro simultaneamente. Ecco la questione della simultaneità, ecco la questione del funzionamento del linguaggio. Questo è il modo più radicale, come dicevo prima, per intendere il funzionamento del linguaggio, quanto meno di avvicinarcisi. Nessuno di questi due momenti è pensabile, ma sono necessari entrambi, come direbbe Hegel, per il movimento dialettico. Quindi, se isolo uno dei due, questo non è più pensabile, dilegua, svanisce nel nulla; posso pensarlo attraverso l’altro, che a sua volta non è pensabile. Ecco la questione, ecco il linguaggio, ecco il modo in cui funziona. Il fatto è che non posso non isolare, e sta qui la seconda parte del problema, cioè non posso pensare l’uno senza pensare l’altro che a sua volta non è pensabile. Ma non posso d’altra parte non isolare un qualche cosa che, una volta isolato, diventa impensabile, non lo posso pensare, non lo posso dominare, determinare. E questo è il funzionamento del linguaggio: ho necessità del pensiero pensato, cioè dell’astratto, ma non posso pensarlo fuori dal concreto, e il concreto non posso pensarlo se non determinandolo, cioè attraverso l’astratto, il pensiero pensato. Ma nessuno dei due è pensabile, per i motivi che vi ho detto. È questa la questione che mi ha condotto ad affermare tempo fa che, in realtà, si parla di niente, si pensa niente. Dopo questa breve premessa, torniamo al testo di Gentile. Siamo sempre al Sistema di logica, Vol. I, Parte Seconda, Capitolo Secondo, Il principio di ragione sufficiente. Per vedere l’inanità della logica della ragione sufficiente basta infine por mente al significato del pensiero logico come pensiero che si dice dell’essenza. Questo pensiero, non è, abbiamo detto, fuori dell’essere, come affermazione estrinseca soggettiva che debba cogliere l’essere. Il pensiero logico sorge come mediazione dello stesso essere che riesce a esser veduto dal pensiero come pensiero, ancorché per sé stante oggettivo (astratto). Il pensiero logico vede questo innanzitutto come pensiero. Esso, abbiamo detto, risponde alla domanda socratica: τί έστιν. Altrimenti la risposta (A = A) sarebbe determinazione soggettiva a mo’ di Protagora, che è ciò che la logica fin da Socrate intende assolutamente evitare. Sarebbe l’immediato e irrelato, l’essere come immediato. Questo essere è la realtà, ogni realtà, tutta la realtà, non discriminata, si noti, come realtà pensata e realtà esistente (verità di ragione e verità di fatto), perché questa discriminazione non è, né può essere altro che, essa stessa, pensiero: ossia l’essere che nel suo pensarsi (o esser pensato) si discrimina, come in generale si afferma per quel che è. Sta continuando a dirci che qualunque cosa faccia per arginare l’inarrestabilità del pensiero, qualunque cosa sarà un altro pensiero. Il pensiero infatti che è vero, ossia che ha valore logico, non è, come si è accuratamente avvertito di sopra, un’affermazione soggettiva dell’essere, la quale presupponga a sé l’essere:… Io affermo l’essere, quindi, se lo affermo questo essere c’è già da qualche parte. poiché fino a quando si rimane con questo presupposto si rimane nell’impensabile che la logica deve superare. Se penso l’essere come l’immediato, come l’irrelato, mi trovo di fronte all’impensabile, sempre e comunque; che è quello che la filosofia deve superare se vuole dire qualche cosa. E lo supera soltanto se l’affermazione in cui il pensiero consiste sarà bensì l’opposto del pensiero onde noi, a nostra volta, la togliamo ad oggetto della nostra affermazione, ma sarà tuttavia mediazione intrinseca all’essere, che nel riflettersi sopra di sé si pone identico a se stesso. Non è altro che il passaggio da A ad A=A. Questa è la sola verità concepibile come per sé stante, o logo astratto dal nostro pensiero. E in tale verità, legata a se stessa dalla necessità ond’è vero ciò che è opposto al proprio contradittorio non può non esser racchiuso tutto ciò che abbia valore di verità (verità di fatto) pel pensiero. Come dire: c’è il pensiero; se il pensiero esiste allora tutto ciò che si oppone al pensiero non è pensiero. Ciò che possiamo dire che non esiste è ciò che non è pensato. Capitolo Terzo, I termini del pensiero logico. Paragrafo 1, Differenza immanente all’identità del pensiero. L’essere che è pensiero pensato… Se penso l’essere è necessariamente pensiero pensato, se lo penso; perché se lo sto pensando, in teoria, mentre lo sto pensando non sarebbe pensiero pensato, ma sappiamo che se io mi fermo a pensarlo, è pensiero pensato immediatamente. …è dunque il sistema chiuso della mediazione in cui l’essere è identico a se stesso,… L’unico modo per pensare qualcosa è la mediazione, è il segno, per pensare devo usare segni, cioè rinvii. …negando la propria astrattezza di essere immediato,… Perché è questo che si nega. Se penso l’essere, io nego l’essere immediato; per potere pensare l’essere, questo deve essere mediato hegelianamente dal non-essere; cioè, l’essere non è non-essere, quindi, l’ho mediato. Per potere pensare l‘essere devo compiere questa mediazione, sennò non penso niente: sarebbe l’essere parmenideo, quello irrelato, che non è neanche pensabile. …e ponendo come vera la mediazione in quanto è falsa l’immediatezza. Possiamo dire semplicemente, poiché la non contraddizione e il terzo escluso non sono se non il logico svolgimento della identità dell’essere, che l’essere come pensiero pensato è il sistema chiuso dell’identità dell’essere con se medesimo: A = A. Questo è il pensiero pensato, l’astratto. Ora il concetto di identità, affinché non sia essa stessa quell’astrazione che è l’immediatezza, importa non pure la identità, ma anche la differenza di cui la identità dev’essere la risoluzione. Il rischio è quello di prendere questo A=A come l’immediato, come l’immanente, che è lì immobile, irrelato, ecc., anche se di fatto lui stesso è relazione; però, se poniamo questa relazione come l’immediato, ricadiamo nel problema di prima. Cioè l’intelligibilità di A = A implica che nella stessa equazione ci siano termini correlativi, che siano due, o non uno: e che l’unità (identità) perciò sia conciliazione della dualità (differenza);… Cioè, occorre sempre una dualità da ricomporre, occorre che ciascun elemento mostri sé e il suo opposto: l’in sé e il per sé. E qui introduce una cosa, che è poi quella che riprese Severino. Paragrafo 2, Differenza come distinzione, o analisi. Come l’affermazione dell’essere per la logica del pensiero pensato è l’affermazione intrinseca all’essere stesso, che affermandosi è quel che si pensa; così quest’analisi è l’analisi che di se medesimo l’essere stesso,… L’analisi che il pensiero fa di se stesso. …in quanto pensiero, fa al cospetto, per dir così, del pensiero pensante, per propria intima virtù. Che se l’affermazione dell’identità A = A non fosse distinzione dei due A concorrenti nel rapporto d’identità, essa non sarebbe affermazione. Sta dicendo che perché ci sia questa affermazione di identità occorre che le due A esistano, ma esistano come distinte. Vale a dire, occorre che esista qualche cosa che è impensabile – la A in quanto tale, che non è pensabile se non relazione a se stessa – per potere pensare. Questo è notevole, perché naturalmente questa A impensabile esiste unicamente dopo che l’ho pensata, solo allora posso pensarla come impensabile. Prima non posso pensarla come impensabile, non la penso e basta; per poterla pensare come impensabile devo averla pensata; quindi, deve essere già nella relazione A=A. Paragrafo 3. Se, dunque, A e A sono differenti come pensiero, essi non sono soltanto differenti, ma si distinguono. E il pensiero non è soltanto sintesi di A con A, ma anche analisi di A = A in A e A. L’analisi di A=A, cioè la scomposizione A e A è una scomposizione in due elementi che, presi per sé, sono impensabili. Ma so che sono impensabili solo se ci penso, e cioè se li trasformo in pensabili, e per essere pensabili devono essere in relazione. È una bella questione. Non è molto lontano da ciò che dicevo prima rispetto al linguaggio, al pensiero pensato e al pensiero pensante: non posso pensare nessuno dei due, non posso pensare nessuna delle due A, ma siccome penso allora ciascuna delle due A c’è, certo, ma in relazione; solo così posso dire che non è pensabile. In fondo, il dire che non è pensabile è il risultato di una serie di sillogismi formali. Paragrafo 7, Il termine come analisi degli irrelativi. Se A è pensiero pensato, che, staccandosi dal termine concomitante, non è più termine o membro del pensiero, ma qualche cosa che si pensi già in sé perché in sé compiuta, esso non può sottrarsi alla legge fondamentale del pensiero logico, e non essere identico a sé, risolvendo in se stesso la propria astratta unità nella mediazione a = a. Scritto questa volta in minuscolo. Se io penso alla A vuole dire che è già in relazione. Questo elemento, ci dice Gentile, è già in relazione con se stesso, la singola A è già un a=a. Cioè, se per l’analisi spezziamo la sintesi, e fissiamo un termine della sintesi, il termine suo, non più termine, si media dentro di se stesso e la sintesi risorge dal fondo dell’analisi. Il termine allora si fa rapporto e unità di termini, per cui soltanto è dato realizzare l’analisi pensando il termine del primo rapporto. In conclusione, il termine del pensiero, come analisi che si distingue dalla sintesi, è sintesi, e perciò non è più termine. Questo termine, la A, se io volessi prenderla per se stessa, non sarebbe più un termine. Non sarebbe più un termine perché, per poterla prendere per se stessa, questa A già si scompone in a=a, cioè nei suoi elementi; ma questi elementi sono in relazione tra loro. E adesso vediamo la parte successiva dove vedrete che è quello che fa Severino, e cioè la determinazione di un elemento è dato non solo da A=A ma dalla formula (A=A)=(A=A). Guardiamo ora il termine datoci dall’analisi in quanto l’analisi s’immedesima con la sintesi. Quello di prima era un modo per dirci che non c’è analisi senza sintesi, e viceversa. Qui siamo sempre nell’astratto. L’analisi è la stessa sintesi qualora quei termini che essa divide, li tenga bensì divisi, ma nel rapporto reciproco della loro sintesi. A è A in quanto ciascuno di questi due termini è diverso dall’altro, ma come identico all’altro: vale a dire, l’uno è l’altro, perché l’uno suppone l’altro, ed è pensato perciò con l’altro: e nessuno dei due si può pensare da solo, irrelativo. Sarebbe l’essere parmenideo. Il che importa che il pensiero ne pensa uno, in quanto da esso passa all’altro termine; e ciascuno quindi non è pensiero, ma termine, limite, del pensiero; il quale è pensiero perché dall’uno torna all’altro con quella circolarità che abbiamo detto essere la espressione propria della sua legge fondamentale. Sarebbe la dialettica, cioè per pensare uno devo pensare l’altro, ma l’altro, per essere pensato, deve pensare anche l’uno. Paragrafo 9, Il termine mobile, o l’analisi dell’analisi. La sintesi, se lasciasse staccare da sé l’analisi, come par necessario quanto si abbia riguardo al momento della distinzione senza la medesimezza, vedrebbe fissare i suoi termini come sintesi essi stessi. Cioè, se io voglio staccare per analisi degli elementi, anche questi, una volta staccati, comunque saranno sempre una sintesi. E così empiricamente sembra che avvenga, ponendosi perciò il pensiero non come A = A, ma, poiché A = (a = a), come un sistema di equazioni: (a = a) = (a = a); dove a avrebbe un valore analogo ad A, in modo che ogni equazione si risolverebbe in una coppia di equazioni, e il pensiero si dividerebbe e suddividerebbe dentro se stesso, all’infinito. Né sarebbe mai quindi ravvisabile se non come un pezzo di cielo, solo arbitrariamente limitato dall’occhio dello spettatore, laddove per se stesso si stende sterminatamente lontano lontano negli abissi irraggiungibili: poiché nessuna sintesi è unità così ampia da non permettere al pensiero di procedere a una sintesi più alta, più comprensiva e quindi più compatta; e nessuna analisi è così determinata da non permettere un’ulteriore analisi de’ suoi elementi. Per forza, sono cose che penso io; certo che posso farlo. Cioè, dire che il pensiero è a = a, non è altro che dire che esso è A = A. Non c’è differenza di sorta, ma semplice ripetizione di una stessa funzione. Paragrafo 10, Il mito dell’analisi dell’analisi. Cioè: dell’infinita scomposizione. Il pensiero pensato come analisi di analisi è un mito. Il pensiero, come pensiero pensato, e perciò pensabile, è sintesi di analisi, o analisi di sintesi. Quando noi lasciamo sciogliere l’A di A = A in a = a, abbiamo la sintesi, ma non abbiamo né la sintesi dell’analisi, né l’analisi della sintesi. E non pensiamo più, perché il pensiero, come abbiamo dimostrato, non è sintesi senz’analisi. Se faccio l’analisi devo necessariamente fare anche una sintesi. Necessariamente, perché anche se prendo analiticamente gli elementi, per quanto piccoli, questi dovranno essere in relazione a qualche cosa, quindi, sempre in una sintesi, se non altro in relazione al loro significato. Quindi la necessità di pensare il pensiero come chiuso dentro i suoi termini, quasi membra vive dentro al circolo della vita, senza poterne uscire. Il mito suddetto doveva necessariamente sorgere dalla necessità di dare al pensiero, già come pensiero pensato, il modo di svolgersi, arricchirsi e sottrarsi pertanto a questa scheletrita e stecchita identità tra sé e sé, in cui esso si fissa e irrigidisce come A = A, quando non era possibile escogitare un modo razionale di concepire e intendere veramente tale svolgimento. È il problema platonico della sinossi (mettere insieme) delle idee, fondata sulla loro κοινωνία ( comunità, vicinanza), e quello aristotelico dell’apodissi che non è un sillogismo, cioè il sillogismo, ma la catena dei sillogismi. L’apodissi è il metodo dimostrativo, appunto, una catena di sillogismi. Ma quella logica non aveva coscienza dell’opposizione tra pensiero pensato e pensiero pensante (logo astratto e logo concreto); e riducendo tutto a pensiero pensato, sforzavasi poi di trovar tutto in esso; e per ficcarvi dentro quel che ripugna alla sua natura, finiva per renderlo impossibile o assurdo, o solo pensabile per fantastiche rappresentazioni, qual è questa dell’infinito, o indefinito, firmamento delle idee, termini del pensiero. Lo svolgimento di cui ha bisogno il pensiero pensato, o meglio, di cui il pensiero pensante sente il bisogno quando ha pensato il suo pensiero pensato, è un bisogno a cui soltanto esso pensiero pensante può provvedere. Sta dicendo che tutta la filosofia, da Socrate fino a lui, non ha fatto altro che isolare il pensiero pensato, l’astratto. Chiaramente, posto l’astratto, tornava il problema di prima: e la ragion d’essere? E il principio di ragione, dove sta? Non sta da nessuna parte, naturalmente, è un mito. Questo problema non può risolversi senza il concreto, cioè, come potremmo dire più propriamente, senza il linguaggio. Ed è la questione centrale che ci dirige in tutto questo lavoro, e cioè la questione dell’incominciamento: da dove incominciamo? Ci vuole una realtà, ci vuole un qualcosa. Da dove cominciamo? Tutta la filosofia, tutto il pensiero, la fisica, tutto quanto, ha pensato di incominciare dalle cose, immaginando che le cose siano quelle che sono, e da qui la metafisica. Invece, noi abbiamo incominciato, anziché dalle cose, dal fatto che stiamo parlando. Questo è il nostro incominciamento. Quindi, senza avere la necessità di una realtà presupposta che dia la garanzia di un principio, di un incominciamento. Paragrafo 11. L’interpretazione, e la sintesi di analisi. Sta dicendo che il concreto, mentre l’astratto è unità di analisi e sintesi, cioè sintesi dell’analisi e analisi della sintesi, il concreto no, è sintesi della sintesi. …essendoci bensì una sintesi di sintesi finché il nostro pensiero è in cammino, e in quanto si prescinde da ogni posa e da ogni tappa, attraverso cui egli pur passa nel suo cammino; ma non essendoci più se non una sintesi di analisi, quando si sia raggiunta la mèta, nonché in ogni istante, in cui esso possa soffermarsi quasi pervenuto ad una mèta provvisoria, o ad una stazione di riposo. La sintesi di sintesi è del pensiero pensante; e il pensiero pensato è soltanto sintesi di analisi. Il linguaggio, dunque come sintesi di sintesi, cioè, se potessimo pensarlo sarebbe solo sintesi di sintesi. Il problema, ce lo ha detto lui stesso, è che non possiamo pensare la sintesi senza l’analisi, non possiamo pensare il concreto senza l’astratto; è una fantasticheria, nella quale lui stesso cade immaginando di potere determinare il pensiero pensante come sintesi di sintesi. Sì, ma se non lo posso pensare se non attraverso l’analisi, cioè attraverso il concreto, posso anche dire che è sintesi di sintesi, ma in realtà sto dicendo niente. Capitolo IV. Il giudizio. Paragrafo 3. Critica dell’astrattezza grammaticale e necessità di liberare la logica dal giogo della grammatica. La grammatica che lavora sul vocabolario lavora perciò sull’astratto, e presuppone sempre alle sue classificazioni analisi di analisi, senza sintesi, onde il linguaggio si spogli del suo valore spirituale e si fissi come meccanismo scomponibile e ricomponibile nei suoi pezzi. Questo è esattamente ciò che fa la linguistica; è la definizione più esatta di linguistica: prende il linguaggio, prende il soggetto, il verbo, ecc., e li considera come se fossero enti per sé stanti. Ora, per astratto che sia il logo della logica che andiamo esponendo, bisogna pure che esso sia e valga come pensiero: pensiero, come abbiamo visto, che si afferma e si garantisce negando il proprio opposto… Se c’è pensiero c’è questa dialettica continua. …e si chiude in sé e circola nella sintesi de’ suoi termini; e che ha perciò una vita, sintesi del meccanismo della parola grammaticalmente considerata. Di qui la necessità di liberare la logica da ogni giogo grammaticale; ossia di non introdurre nel concetto del pensiero pensato nessuna delle distinzioni con cui procede la grammatica nello studio dei segni del pensiero (γράμματα). Questa è la direzione che lui ci mostra, cioè, di non pensare più la logica come una grammatica, come continua a fare tutta la filosofia del linguaggio (Carnap, Quine, ecc.), che fa questo, scompone la logica nei suoi elementi. Come fece Quine nel libro La grammatica della logica. Che cosa fa la grammatica della logica? Isola i termini e li considera per sé stanti, cioè astratti dal concreto. Ma il concreto in questo caso, in che cosa consiste? Dobbiamo fare attenzione perché il concreto qui non è altro che il loro utilizzo, cioè, io svincolo un elemento dal modo in cui lo utilizzo, immaginando che esista per sé senza utilizzo. Isolare l’astratto dal concreto è pensare che un elemento esista senza il suo utilizzo, senza essere un utilizzabile o, per dirla in una parola, senza essere un elemento linguistico: perché se è un elemento linguistico è un utilizzabile. Questo per anticipare una questione che a Gentile interessa, e cioè della inscindibilità del soggetto e del verbo. Sta dicendo che non posso prendere grammaticalmente, come fa la linguistica, il soggetto per se stesso, scomporlo, analizzarlo, ecc., e poi, separatamente, il verbo. No, dice, il soggetto senza il verbo non c’è, non c’è senza predicato. Naturalmente, è sempre la medesima questione sulla quale Gentile pone l’accento: non posso isolare un elemento dal suo opposto, da ciò che lo fa esistere; non lo posso fare perché non esisterebbe più neanche quell’altro; se io tolgo il predicato al soggetto, il soggetto scompare. E, quindi, che cosa analizzo? Niente. Paragrafo 4. Inscindibilità del nome dal verbo. Si può dire dunque, che la grammatica del pensiero (o logica) sia quella che supera l’astrattezza della semplice grammatica delle parole e conosce pertanto il nome come nome del verbo, e il verbo come verbo del nome; in guisa che dove il grammatico non vede altra realtà che quella del nome, il logico vegga anche quella del verbo; e viceversa. Insieme, simultanei. Paragrafo 7. Definizione del giudizio. Che cosa significhi intendere logicamente il nome e il verbo della sintesi logica, già ci è noto. Significa che non li prendiamo astrattamente, ché se tolgo l’uno, tolgo anche l’altro. Il soggetto non è il nome come una parola o parte del discorso, né come un’idea che sia da unire con un’altra, ma che intanto possa esser fissata in se stessa: è un termine del pensiero, che solo per una analisi di sintesi può esser distinto dall’altro termine, che è il suo predicato. Un’analisi di sintesi, cioè, un’analisi che prevede comunque una sintesi. Ma anche il predicato è un termine come questo. In che consiste la differenza tra un termine che è soggetto, e l’altro che è predicato? I due termini sono tra loro correlativi, in quanto adempiono due funzioni correlative: e uno è termine terminato, l’altro termine terminante. Termine terminato sarebbe il soggetto, il termine terminante sarebbe il significato; per dirla più semplice, significante e significato. Infatti il pensiero è lo stesso essere:... il pensiero è essere, non c’è essere che non sia pensiero. …è, abbiamo detto, l’essere del pensiero, o essere pensato. Quindi A e A = A dicono lo stesso con la differenza, che A non si può pensare, e A = A è appunto il pensamento di A. A non lo posso pensare, anche se aveva fatto quel gioco delle due a piccole: a=a. È comunque sempre una relazione, un rinvio, un rimando. A=A non è che il modo in cui io posso pensare A, sennò non la penso. Quindi ancora, se il pensiero è pensiero determinato, chiuso dentro due termini di cui è relazione, esso è la determinazione di un termine, che altrimenti sarebbe indeterminato e però non sarebbe pensato. Il termine nel suo rapporto con l’altro è pensato, o determinato in quanto è quello che dev’essere determinato, e nell’altro cerca appunto il suo termine, o terminazione, o determinazione che si dica. Il pensiero pertanto è sintesi di termini in quanto determinazione che un termine determinante fa di un termine indeterminato. /…/ Diremo perciò soggetto il termine terminato della sintesi onde l’essere si media nella sua identità con se stesso; e predicato, il termine terminante della stessa sintesi. L’unità del termine terminato e del terminante è la determinazione del pensiero, in quanto pensiero pensato. Lo aveva già detto prima rispetto alla sintesi di soggetto predicato. Se isolo il soggetto, questo diventa come la A di A=A. Soggetto e predicato, non è altro che il dire che questo è quest’altro, cioè A=A. Tutto il discorso che aveva fatto prima relativamente ad A=A ci porta a questo: il soggetto è il predicato. È il predicato che ci dice che cosa è il soggetto; se tolgo il predicato, il soggetto non è più niente, e viceversa. Paragrafo 8. Universalità e necessità del giudizio nel predicato. Orbene, quest’attività, in cui si concentra tutto il potere determinante del pensiero (né c’è pensiero che non sia determinazione, A = A … Questo è ormai chiaro: il pensiero è determinazione, cioè, pensiero pensato. …è il principio degli attributi del pensiero: universalità e necessità; giacché se il termine terminato è pensato mediante la determinazione ond’è terminato, esso come pensato diventa universale e necessario. Universalità e necessità. Nell’ A=A, la seconda A è quella che rende A quello che è. Potremmo dire che la prima A è il singolare, la seconda A l’universale, perché è la seconda A che dice che cos’è veramente la prima A. Quindi, abbiamo la universalità del significato – il significato e universale, mentre è il significante il singolare, l’immanente – che ci dà la necessità del significante, in quanto lo determina per quello che è, ma ci dà questa necessità in quanto il significato è universale. È come se imponesse al significante, al ciò che si dice, una universalità. Questo perché nel momento in cui dico qualche cosa, questo qualche cosa trae il suo essere quello che è dal significato. Dico un significante, ma il significante non c’è senza il significato; questo significato è la necessità del significante: il significante ha necessità del significato, sennò non c’è neanche il significante. Ecco, dunque, in che cosa consiste la necessità: nella necessità che il significante abbia un significato. L’universalità consiste nel fatto che il significato, che si attribuisce al significante, si impone nel significante necessariamente, potremmo dire, come universale. Perché? Se il significato è la necessità del significante, allora vuol dire che non può non esserci se è necessario. Se non può non esserci vuole dire che non è che potrebbe anche non esserci. Quindi, se il significato non può essere non universale allora è universale; non può essere, come dice Gentile, problematico, cioè può esserci oppure no, ma è universale. E questo ha degli effetti mentre si parla? Le cose che dico, hanno di necessità un significato, che io lo sappia o no, in genere non si fa molto caso. Però, se dico una cosa vuole dire che è quella; non solo è quella, ma non potrebbe essere un’altra, è quella. Posso cambiare idea dopo cinque minuti, questo è possibile farlo, ma mentre la dico è quella, quindi è universale, poiché necessariamente se stessa. Paragrafo 9. Particolarità del giudizio nel soggetto. L’essere naturale non è universale, anche se abbracciato dal pensiero nella sua totalità. Di che ha sentore la filosofia presocratica, concependo perciò il cosmo come uno degl’infiniti cosmi che si succedono nel tempo. L’essere naturale è questo essere naturale che c’è: non quello che noi pensiamo distinto dagl’infiniti altri esseri naturali diversi (semplicemente possibili, dice Leibniz) ma tuttavia numerabile come uno di questi infiniti; bensì l’unico essere, imparagonabile a qualunque altro, in quanto quel che esso è, nessun altro può essere. Questo è l’essere del pensiero, che è quello, non può essere un altro. Esso perciò, di fronte al pensiero che, abbracciandolo, lo trascende e ne esorbita, è un essere particolare. In quanto tale, è fuori del pensiero; né può a nessun patto pensarsi. Il suo pensarsi consiste proprio nel suo cessar di essere particolare e farsi universale: non poter essere più trasceso da un pensiero che gli scivoli sopra, ma farsi esso stesso pensiero in modo da restare esso nella dualità onde si media come pensiero; e quindi il pensiero stesso, chiuso e circoscritto dentro i due termini dell’identità in cui la mediazione consiste. L’universalità sta nel distendersi dell’essere nel pensiero, in cui si riflette, e si adagia, legando a sé il pensiero, dentro quei termini in cui si pone. L’essere universale è l’essere come pensiero, in quanto identità di essere e pensiero o, come si può anche dire, di essere con se stesso. Se l’essere è pensato è universale. Gentile giunge a questo facendo il discorso dell’essere naturale come impensabile, l’essere di Parmenide: se l’essere è pensato non può essere pensato che come universale. Se lo pensassi come particolare non sarebbe più l’essere della totalità, ma un essere che può essere ma anche non essere; e torniamo alla questione di Leibniz dei mondi possibili. Se l’essere infatti del termine terminato si fissa per sé nel suo momento analitico, esso non è né universale, né necessario; ma non è propriamente né anche pensiero. A quel punto non è neanche pensabile. Se fosse pensabile allora vorrebbe dire che non è fissato per sé ma è fissato per altro, cioè nel linguaggio: è un segno, un rinvio. Diventa materia cieca di pensiero, non ancora assorta alla luce di questo. D’altra parte, se l’essere del termine terminante si fissa egualmente nel suo momento analitico, esso non determina niente e riesce quindi un pensiero vuoto, in cui non si pensa nulla. Sarebbe il significato senza il significante. Bisogna che, superando da ambe le parti l’immediata posizione analitica, e il particolare del terminato si universalizzi nella sintesi del giudizio, e l’universale del terminante a sua volta si particolarizzi; bisogna e che il contingente diventi necessario, e che il necessario attinga l’attualità del contingente. Di nuovo c’è una sintesi: il contingente non c’è senza il necessario, e il necessario non c’è senza il contingente. Questo perché se deve essere necessario occorre che sia qualcosa, che sia un quid, ma questo quid è contingente. Il necessario, quindi, necessita del contingente, e viceversa.