INDIETRO

 

 

9-12-2015

 

Stiamo arrivando alla questione centrale di questo testo di Derrida La voce e il fenomeno, cioè a ciò che più ci interessa riguardo al segno. Tenete sempre conto che lui è partito dalla critica a Husserl: C’è motivo di credere che nel linguaggio la rappresentazione della realtà non si aggiungono qui o là per la semplice ragione che originariamente è impossibile distinguerle rigorosamente da rappresentazioni e non si deve certo dire che ciò si produce nel linguaggio il linguaggio in generale è questo /…/ Un segno non è mai un avvenimento se avvenimento vuol dire unicità empirica insostituibile e irreversibile (retoricamente sarebbe un hapax legómenon, che è quell’elemento che all’interno di un testo interviene una volta sola) perché un segno che avesse luogo soltanto una volta non sarebbe un segno, un segno sicuramente idiomatico (cioè che riguarda l’idioma di ciascuno, qui è implicito che un segno per essere tale deve essere riconosciuto dagli altri parlanti, anche perché il segno è qualche cosa che significa qualcosa per qualcuno) un significante in generale deve essere riconoscibile nella sua forma nonostante e attraverso la diversità di caratteri empirici che possono modificarlo (perché un significante deve essere riconoscibile, che io lo dica, che lo scriva, lo trasmetta, in qualche modo però deve essere sempre riconoscibile) esso deve restare lo “stesso” (sottolineato) e per poter essere ripetuto come tale nonostante e attraverso le deformazioni che ciò che si chiama “l’avvenimento empirico”, mi fa necessariamente subire (per esempio se io parlo e dico un qualche cosa con una voce normale questo qualche cosa rimane lo stesso anche se lo dico con la voce roca del mal di gola) esso, un fonema o un grafema è sempre necessariamente altro in una certa misura ogni volta che si presenta in una operazione o una percezione (infatti può essere scritto, può essere detto) ma può funzionare come segno il linguaggio in generale soltanto se un’identità formale permette di riprenderlo e di riconoscerlo, (in qualunque modo sia scritto, detto, nominato, evocato eccetera comunque questo elemento mantiene qualche cosa di identico che consente di riconoscerlo come tale, questa è la questione) esso implica dunque necessariamente una rappresentazione (perché sia riproducibile deve essere rappresentato, non può essere l’elemento concreto perché questo è dipendente dagli umori del tempo, delle cose, cambia continuamente, è la stessa differenza tra il particolare e l’universale, tra il divenire e l’incontrovertibile) questa identità è necessariamente ideale, (un identità per essere tale non deve essere concreta, reale, non può esserlo perché gli oggetti cambiano, mutano quindi deve essere ideale, deve essere quindi un’idea cioè universale) dunque essa implica necessariamente una rappresentazione Vorstellung) come rappresentazione luogo dell’idealità in generale e come Vergegenwärtigung, la possibilità della ripetizione riproduttiva in generale (cioè come “Repräsentation in quanto ogni avvenimento significante è sostituito dal significato come della forma ideale del significante” cioè perché questa rappresentazione abbia luogo come idealità occorre che sia riproducibile, cioè ogni avvenimento significante può essere sostituito con un altro appunto può essere scritto, può essere detto, può essere pronunciato in vari modi) dato che questa struttura rappresentativa è la significazione stessa io non posso avviare un discorso effettivo senza essere originariamente impegnato in una rappresentatività indefinita (Sta incominciando a dire delle cose importanti, ci sta dicendo che la struttura rappresentativa è la significazione stessa, struttura rappresentativa vale a dire questa rappresentazione, questa idealità è la significazione stessa, quindi non posso avviare un discorso, un qualunque discorso senza trovarmi immediatamente impegnato in una rappresentatività indefinita, cioè una rappresentazione che rinvia ad altre rappresentazioni che rinviano ad altre rappresentazioni all’infinito perché questa è la significazione stessa, la cosa significa in quanto rinvia, preso in un continuo rinvio) sia che si tratti di espressione o di comunicazione indicativa (come per esempio la deissi) la differenza tra la realtà e la rappresentazione tra il vero e l’immaginario, tra la presenza semplice e la ripetizione ha già da sempre incominciato a cancellarsi, (questa è l’altra questione importante perché per esempio Husserl voleva proprio questo invece, mantenere una distinzione ferma tra ciò che è la rappresentazione e ciò che è invece la realtà semplice della cosa cioè la realtà evidente, la cosa in “carne ed ossa” come dice Husserl) Sia che si tratti di espressione o di comunicazione indicativa la differenza tra la realtà e la rappresentazione, tra il vero e l’immaginario, tra la presenza semplice e la ripetizione ha già da sempre incominciato a cancellarsi. Il mantenimento di questa differenza nella storia della metafisica che è ancora in Husserl non risponde al desiderio ostinato di salvare la presenza e di ridurre o derivare il segno? (ricordate che questa era l’idea di Husserl, arrivare alla cosa stessa “ in carne e ossa”, deve ridurre il segno cioè deve eliminarlo appunto come diceva precisamente la volta scorsa Derrida, deve arrivare a saldare il significante al significato, è questo che consente la rappresentazione pura, immediata del fenomeno della cosa stessa. Il segno è la mediazione, è la mediazione per definizione, è un rinvio, è un differire. Vi ricordate che Derrida usa il termine “differenza” sia nell’accezione normale del termine comune cioè come non uguaglianza di qualche cosa a qualche cos’altro sia nell’accezione latina “de ferre” cioè del portare oltre, dello spostare, “differire” si dice anche in italiano “differire un qualche cosa da …”) Il che è anche vivere nell’effetto assicurato, assicurato e costituito nella ripetizione della rappresentazione della differenza che nasconde la presenza (per Derrida fare questo che vorrebbe Husserl comporta anche questo perché il segno è ciò che consente la significazione, però dice che nasconde la presenza, per questo Husserl voleva evitarlo, la nasconde in quanto la differisce) affermare come abbiamo appena fatto che nel segno la differenza non ha luogo tra la realtà e la rappresentazione sarebbe come dire che il gesto conferma questa differenza è la cancellazione del segno (dunque la differenza non ha luogo tra la realtà e la rappresentazione come voleva Husserl, la differenza sta nel segno stesso, tra significante e significato dove l’aveva già messa De Saussure, ricordate la barra famosa?) Con la differenza tra la presenza reale e la presenza nella rappresentazione come “Vorstellung” così con il linguaggio tutto un sistema di differenze si trova trascinato nella “de costruzione” (la decostruzione è esattamente ciò che ha in animo di fare Derrida, decostruire il discorso metafisico, la decostruzione per Derrida non è nient’altro che cogliere o smontare tutti i pezzi della metafisica in questo caso, per vedere se questi pezzi sono sostenibili, hanno la possibilità di dirsi in qualche modo, di darsi soprattutto, adesso l’ho detta in modo un po’ spiccio) tra il rappresentato e il rappresentante in generale cioè il significato e il significante, la presenza semplice e la sua riproduzione, la presentazione come Vorstellung e la ripresentazione come Vergegenwärtigung (cioè questa decostruzione avviene smontando il segno generalmente distinguendo tra il rappresentato e il rappresentante, significante e significato, la presenza semplice e la sua riproduzione, quindi smontando il segno) si arriva così contro l’intenzione espressa di Husserl a far dipendere la Vorstellung” stessa in quanto tale dalla possibilità della ripetizione (quindi ha detto qui “si fa dipendere la rappresentazione dalla possibilità della ripetizione” perché ci sia rappresentazione occorre che ci sia riproduzione, ri-presentazione, quindi dice che se c’è una ripetizione di qualche cosa è possibile rappresentare, ché la rappresentazione è già una ri presentazione quindi è una ripetizione, se io devo rappresentare questo aggeggio lo ri-presento, lo rappresento, lo riproduco per esempio una storia mia, una immagine qualunque, ma è sempre comunque una ripetizione, perché ci sia rappresentazione, dice dunque qui Derrida, occorre che ci sia ripetizione) Si deriva la presenza del presente dalla ripetizione (non il contrario) è perché c’è ripetizione che io posso derivare il presente (per potere rappresentare qualche cosa e senza rappresentazione questa cosa non c’è perché abbiamo visto che il progetto di Husserl è di arrivare direttamente alla cosa ma non riesce a evitare la rappresentazione, e allora è soltanto la ri presentazione di qualche cosa cioè il ritornare di qualche cosa che fa esistere il primo, “si deriva la presenza del presente dalla ripetizione” è ripetendo qualcosa che io posso dire che qualcosa è presente, soltanto dopo questa cosa è presente, dico che è presente ma lo dico dopo, la presenza del presente, il presentarsi della cosa è possibile a condizione che ci sia una ripetizione, cioè ci sia una rappresentazione) Il concetto di “idealità” deve essere naturalmente al centro di una tale problematica (tutto si gioca qui, sul fatto che la rappresentazione è ideale, non è mai concreta è un’idea) la struttura del discorso non può essere descritta secondo Husserl che come idealità, idealità della forma sensibile del significante per esempio della parola, che deve restare la stessa (vi ricordate perché era così importante l’idealità, perché è ciò che consente la ripetizione, ciò che consente quindi di dire che qualcosa è lo stesso) l’idealità della forma sensibile del significante che deve restare la stessa che lo può solamente in quanto idealità, idealità del significato o del senso posto che non si confonde né con l’atto con cui si pone né con l’oggetto tanto che questi due ultimi possono eventualmente non essere ideali, l’idealità infine in certi casi per l’oggetto stesso che assicura allora è ciò che avviene nelle scienze esatte, la trasparenza ideale e l’univocità perfetta del linguaggio. (questa idealità è fondamentale, in quanto è ciò che sempre consente di potere riconoscere un qualche cosa come lo stesso, ma per poterla riconoscere come lo stesso abbiamo visto prima che occorre una ripresentazione, cioè una rappresentazione, senza rappresentazione tutto questo non può darsi) ma questa idealità che è soltanto il nome della permanenza dello stesso (quando parla di idealità intende il permanere dello stesso, che rimane lì, che sta, e come sta? Sta in quanto riconoscibile ciascuna volta come lo stesso, quindi sempre in un percorso a ritroso, sempre in un percorso che lo ri produce, sempre quindi in un differimento, sempre quindi in una differenza) e la possibilità della sua ripetizione non esiste nel mondo e non viene da un altro mondo, essa dipende interamente dalla possibilità degli atti di ripetizione è costituito da questa, il suo essere è proporzionale al potere di ripetizione, l’idea assoluta è il correlato di una possibilità di ripetizione indefinita si può quindi dire che l’essere è determinato da Husserl come idealità cioè come ripetizione (perché se per Husserl il linguaggio stesso è idealità questa idealità Derrida qui ce la fa scoprire passo dopo passo come l’essere stesso, cioè come ciò che è riconoscibile come tale sempre identico a sé, l’essere) il progresso storico ha sempre per forma essenziale secondo Husserl la costituzione di idealità da cui ripetizione e dunque la tradizione sarà assicurata all’infinito, la ripetizione e la tradizione cioè la trasmissione e la riattivazione dell’origine (qui ci dice che cosa intende per “tradizione”: è la trasmissione, la riattivazione dell’origine, la riattivazione cioè la ripresentazione)e questa determinazione dell’essere come idealità è proprio una valutazione un atto etico teorico che risveglia la decisione originaria della filosofia nella sua forma platonica (dice che determinare l’essere come idealità è un atto etico teorico che rimanda alla filosofia di Platone, Platone parla della idealità, dell’idea come l’essere e cioè come ciò che è sempre identico a sé in quanto idea) talvolta Husserl l’ammette ed è un platonismo convenzionale a cui egli si è sempre opposto (Husserl si è sempre opposto al platonismo) quando afferma la non esistenza o la non realtà della idealità è sempre per riconoscere che l’idealità è secondo un modo che è irriducibile all’esistenza sensibile o alla realtà empirica anzi alla loro finzione (cioè sta dicendo che Husserl quando afferma la non realtà dell’idealità è sempre un altro modo per mettersi contro Platone in qualche modo, l’idealità di Platone è l’idea che sta lassù e Husserl continua a dire che questa cosa non esiste, non è un fenomeno, ricordatevi che Husserl punta al fenomeno a stabilire la possibilità della determinazione del fenomeno in quanto tale. Conclude determinando l’ ὄντος on come edos, Platone “determinando l’essere come idea Platone faceva esattamente questo una finzione” né più né meno) Il segno è estraneo alla presenza a sé del presente vivente ed è per questo che lo si può dire della presenza in generale ciò che si crede poter riconoscere sotto il nome di intuizione e percezione (è importante, perché dice che il segno è estraneo alla presenza a sé di qualche cosa? perché il segno è un rimando, è un rinvio, è ciò che la presenza immediata di qualche cosa rinviando ad altro fa sì che questo altro renda il primo presente, perché poi è di questo che si tratta, per questo il segno non può mai essere presente qui nell’atto, perché è sempre differito, il segno è questo differire) Perché se la rappresentazione di discorso indicativo è falsa nel monologo vuol dire che essa è inutile (e qui è critica Husserl quando parla del monologo interiore per cui diceva che la rappresentazione di questo discorso interiore deve potersi togliere in qualche modo perché la percezione arrivi immediatamente, perché se è viziata da un discorso interiore comunque c’è un supplemento, c’è qualche cosa in più, la percezione non è più quella che deve essere “in carne ed ossa” sempre la stessa) Quindi se il soggetto non indica nulla a se stesso vuol dire che esso non può farlo e non lo può perché non ne ha bisogno, essendo il vissuto immediatamente presente a sé nel modo della certezza e della necessità assoluta, la manifestazione di sé a sé attraverso la delega o la rappresentazione di un indice è impossibile perché superflua, sarebbe in tutti i sensi di questa parola “senza ragione” dunque senza causa, senza causa perché è senza fine, zwecklosos dice Husserl (se la cosa dice Husserl è immediatamente presente a sé senza nessuna delega o rappresentazione a qualche cosa che lo debba rappresentare, questa cosa è senza ragione, senza una causa, infatti dice “sarebbe la non alterità” la non differenza nell’identità della presenza come presenza a sé, tutta chiusa e definita) ben inteso questo concetto di presenza non comporta soltanto l’enigma dell’apparire di un ente nella prossimità assoluta a se stesso, designa anche l’essenza temporale di questa prossimità (perché dice che c’è un enigma? “enigma dell’apparire di un ente nella prossimità assoluta a se stesso” che non sarebbe nient’altro che l’enigma dell’identità a sé di un elemento. Questa presenza assoluta è l’identità a sé di qualche cosa ma questa identità necessita di un raddoppiamento: se io dico che “A = A” questo raddoppiamento della A mi sta dicendo che per stabilire l’identità io devo raddoppiare qualcosa, raddoppiandolo lo pongo all’interno di un rinvio dove c’è la prima A che rinvia alla seconda e la seconda che certifica la prima, ma tutto questo è un segno, è un rinviare del segno, cioè un differire in tutte le due accezioni, differendo in questo modo la presenza della prima A non è più assoluta, non si mostra se non c’è la seconda che dice che è uguale alla prima, e cioè che la prima è se stessa. Questo è il problema cioè l’enigma di cui diceva) La presenza a sé deve prodursi nell’unità indivisa di un presente temporale per non aver nulla da farsi sapere per la procura del segno (cioè per potere eliminare il segno deve essere presenza a sé, questa presenza indivisa di un presente temporale hic et nunc) Una tale percezione o intuizione di sé per mezzo di sé nella presenza non sarebbe solamente l’istanza nella quale la significazione in generale non riuscirebbe a realizzarsi ma assicurerebbe anche la possibilità di una percezione o di un’intuizione originaria in generale cioè la non significazione come principio dei principi e più tardi ogni volta che Husserl vorrà indicare il senso dell’intuizione originaria ricorderà che essa è l’esperienza dell’assenza e dell’inutilità del segno (sta dicendo che una tale percezione immediata così come la pensava, la voleva Husserl, comporta un problema, e cioè se non c’è questo differire un elemento da sé a sé, questo sdoppiamento per così dire, per stabilire l’identità dice che non c’è significazione, per potere stabilire questa intuizione originaria, questa intuizione originaria cancella la significazione e allora in certo senso avremmo l’intuizione originaria, cioè la percezione originaria che non significa niente perché non c’è nessun rinvio e senza rinvio non c’è significato) Nonostante tutta la complessità della sua struttura la temporalità ha un centro insostituibile, un occhio, un nucleo vivente ed è la puntualità dell’adesso attuale (la questione della temporalità ripresa poi anche da Heidegger come sappiamo bene è importante, infatti ha un centro insostituibile perché per potere avere questa percezione immediata, piena, assoluta questa deve essere puntuale, cioè deve essere nell’istante non può essere differita in un altro momento, deve essere tutta qui e adesso, in questo istante) la apprensione dell’adesso è come il nucleo, l’apprensione è necessaria quindi per la costituzione di questa percezione immediata, è come il nucleo di fronte ad una coda di cometa di ritenzione e ogni volta non v’è che una fase puntuale ad essere attualmente presente mentre le altre vi si aggrappano come coda ritenzionale (cioè dice Husserl c’è soltanto questo qui e adesso, tutte le altre cose si aggrappano a questo “qui e adesso” come dice Husserl come una coda ritenzionale che ritiene delle cose, mantiene delle cose però in subordine a ciò che è stato nell’istante preciso. Qui si incomincia a intendere perché parla del batter d’occhio, o del tempo del battere d’occhio) l’adesso attuale è necessariamente e resta qualcosa di puntuale, una forma che rimane per una materia sempre nuova (adesso si interroga su cosa sia questo adesso attuale, quando parlo di “adesso” sto dicendo che cosa?) è a questa identità dell’adesso attuale che si riferisce Husserl quando dice “im selben Augenblick”, nello stesso momento, da cui siamo partiti e non vi è d’altronde alcuna obiezione possibile all’interno della filosofia verso questo privilegio dell’adesso, questo privilegio definisce l’elemento stesso del pensiero filosofico, è l’evidenza stessa (è l’adesso che mi da l’evidenza in ciò che io vedo in questo istante, in questo istante puntuale, lì c’è l’evidenza) il pensiero cosciente stesso dirige ogni concetto possibile della verità e del senso cioè questa evidenza stessa, attuale, del punto dell’istante è ciò da cui è possibile costruire la verità, il senso tutto quanto (per Husserl che dice “non lo si può sospettare una cosa del genere senza incominciare a enucleare la coscienza stessa a partire da un altrove della filosofia che toglie ogni sicurezza e ogni fondamento possibile al discorso” che è quello che vuole fare Derrida) ed è proprio intorno al privilegio dell’adesso, dall’adesso che si svolge in ultima istanza questo dibattito che non può somigliare a nessun altro tra la filosofia sempre filosofia della presenza e un pensiero della non presenza che non è forzatamente il suo contrario né necessariamente una meditazione dell’assenza negativa anzi una teoria della non presenza come “inconscio” (qui sta dicendo che contro la metafisica che ha sempre basato tutto sull’evidenza, il fatto che qualche cosa sia immediatamente evidente a sé e quindi è coglibile in sé, se questo non fosse, nella metafisica, non ci sarebbe la possibilità della conoscenza, se la cosa non si manifestasse; se è immediatamente presente qui, è questo che mi dà la garanzia della verità. Quando parliamo della verità come ὀρθότης, come adeguamento alla cosa, ma la cosa deve essere evidente, deve essere presente se no è adeguato a che? Derrida immette adesso un pensiero della non presenza, dice che non è il contrario della presenza ma è un’altra cosa e allude alla non presenza come qualche cosa che per essere presente deve essere differita su un'altra cosa, un’altra cosa lo richiamerà come presente, lo presenterà come presente, ricordate l’esempio della “A = A”) Il predominio dell’adesso non fa soltanto sistema con l’opposizione fondatrice della metafisica cioè quella della forza o dell’edos o della materia, come opposizione dell’atto e della potenza, l’adesso attuale è necessariamente e permane qualcosa di puntuale una persistente forma per sempre nuove materie, (qui cita Husserl) questo predominio dunque che è quello che consente alla metafisica di distinguere tra la cosa e la sua rappresentazione (cosa che per Derrida incomincia a essere un problema, per la metafisica invece è fondamentale potere distinguere) essa (questa differenza) assicura la tradizione che continua la metafisica greca della presenza in metafisica moderna per la presenza come coscienza di sé, metafisica dell’idea come rappresentazione, essa dunque definisce il luogo di una problematica che confronta la fenomenologia con ogni pensiero della non coscienza che sia in grado di avvicinarsi alla posta vera e propria e all’istanza profonda della decisione il concetto di tempo, non è un caso se le Logische Untersuchungen sulla coscienza intima del tempo confermano il predominio del presente e spingono nello stesso tempo il troppo tardi del divenire cosciente di un contenuto inconscio cioè la struttura della temporalità implicata da tutti i testi di Freud (dice che non è un caso che il lavoro di Husserl respinga questo movimento dell’adesso stabilito dal dopo, perché è in questo movimento che per Derrida e in Freud si situa l’inconscio, cioè io vengo a sapere di qualche cosa in un contraccolpo, ma non vengo a sapere rispetto a ciò che sto dicendo perché questo qualcosa che sto dicendo rinvia a un qualche cos’altro che mi dà il senso di quello che sto dicendo, perché altrimenti non saprei di che cosa sto dicendo) La coscienza “Bewusstsein” è necessariamente essere cosciente in ognuna delle sue fasi /…/ ci si accorge allora in fretta che la presenza del presente percepito (cioè il fatto che io mi accorgo che qualcosa è presente) tutto questo può apparire come tale solo nella misura in cui essa (la presenza del presente) compone continuamente con una non presenza ed una non percezione cioè il ricordo e l’attesa primaria, ritenzione e protenzione (ha detto poco prima che per potere stabilire che qualcosa è la riproduzione di qualche cos’altro occorre poterla paragonare “il presente dunque appare come tale in cui si compone immediatamente con una non presenza”, il presente è quello che è perché rinvia, pensate sempre alla “A = A” è più facile, la prima A è presente solo perché rinvia alla seconda, che non è presente nella prima quindi la presenza della A per potere essere presente necessita di una non presenza che è la seconda A, e questa seconda A dà alla prima la sua presenza immediata, cioè come presenza a sé, immediata vuole dire immediatamente evidente cioè identica a sé. Occorre ricordarsi che lui chiama il “ricordo” come “ritenzione”, il ricordo in effetti ritiene qualche cosa e l’“attesa” di qualche cosa che deve tornare come “protenzione”, ritenzione – protenzione “tenere di nuovo” “tenere per qualche altra cosa”. Dice qui che) la differenza tra la ritenzione che è il ricordo ma non ancora riprodotto, è soltanto una ritenzione di qualche cosa e la riproduzione quindi tra il ricordo primario e quello secondario (lì dice Derrida c’è una differenza, c’è sempre una differenza quando c’è un rinvio ovviamente. L’ultimo capitolo: “La voce che mantiene il silenzio” il silenzio è quello della differenza, nella differenza non c’è voce, questa differenza tra significante e significato per esempio non c’è, non è né un significante né un significato, non dice niente appunto perché non essendo né un significante né un significato non dice, né ha niente da dire perché non c’è un qualche cosa che occorre che si dica, semplicemente differisce, è ciò che consente il differire e quindi l’esistere del segno in definitiva) Il silenzio fenomenologico non può dunque ricostituirsi se non con una doppia esclusione o una doppia riduzione quella del rapporto all’altro in me nella comunicazione indicativa, quella dell’espressione come strato ulteriore superiore ed esteriore a quella del senso (questo silenzio fenomenologico, questa barra dice Derrida è la barra che c’è nel rapporto tra me e l’altro nella comunicazione indicativa: quando dico qualche cosa, mi dico qualche cosa, “mi dico”, è come se mi rappresentassi in quanto altro e poi dice) quella dell’espressione come strato ulteriore, superiore ed esteriore a quella del senso (non c’è soltanto il senso che io mi dico, ma c’è, effettivamente, tra l’espressione cioè il significante e il senso permane una barra, quando dice che uno parla tra sé e sé, quando si dice “hai agito male” “non puoi più continuare a comportarti così” dice questa è soltanto una falsa comunicazione è una simulazione, non è una comunicazione vera e propria, cosa che a noi interessa fino ad un certo punto anche se è in certi casi una ripetizione anche quella. Qui parla del verbo “essere” parla di modalità temporale di queste frasi “hai agito male” eccetera e dice che questa modalità temporale non è indifferente) perché queste frasi non sono frasi di conoscenza ciò significa che non sono immediatamente nella forma della predicazione, esse non usano immediatamente il verbo “essere” e il loro senso, se non la loro forma grammaticale non è al presente verbale di un passato in forma di rimprovero, esortazione al rimorso o alla riparazione (tutte queste cose non comportano il verbo essere come senso del predicare qualcosa, non sta predicando niente, adesso vediamo perché lui dice questo) L’indicativo del verbo essere è la forma pura e teleologica della logicità dell’espressione, meglio l’indicativo presente del verbo essere alla terza persona e piuttosto ancora proposizione del tipo “S è P” nella quale “S” non sia una persona che si possa sostituire con un pronome personale, avendo quest’ultimo in ogni discorso reale un valore soltanto indicativo (sta muovendo una critica a Husserl rispetto al parlarsi, che Husserl dice “vuole qui restaurare” e dice che non è un parlarsi da sé a sé a meno che quest’ultimo non prenda la forma dirsi che “S è P” cioè è un parlarsi fra sé e sé a condizione che sia un parlare predicativo, cioè affermi qualche cosa) è qui che bisogna parlare nel senso del verbo essere mantiene con la parola cioè con l’unità della φωνή del senso un rapporto molto singolare /…/ L’espressione pura, l’espressione logica deve essere per Husserl un medium improduttivo che viene a riflettere uno strato di un senso pre espressivo (per Husserl l’espressione pura, l’espressione logica, deve essere soltanto quel tramite attraverso cui è possibile riflettere l’immagine pura, quindi deve essere improduttiva, non deve produrre altre cose, deve restituire soltanto la cosa in sé) La sua sola produttività consiste nel far passare il senso nell’idealità della forma concettuale universale (questa è l’unica cosa che deve fare, prendere la cosa e volgerla in concetto, concetto identico a sé, significante – significato, deve prendere il significante e trasformarlo in un significato) benché vi siano ragioni essenziali perché tutto il senso non sia completamente ripetuto nell’espressione e benché questa comporti delle significazioni dipendenti e incomplete, il τέλος, il fine dell’espressione integrale è la restituzione nella forma della presenza della totalità di un senso dato attualmente all’intuizione (quindi il fine dell’espressione integrale è) restituire la cosa in sé, identica a sé questo è il suo fine, essendo questo senso determinato a partire da un rapporto all’oggetto il medium dell’espressione deve proteggere, rispettare, restituire la presenza del senso nello stesso tempo come essere davanti dell’oggetto disponibile per uno sguardo e come prossimità a sé nell’interiorità (questo dovrebbe essere per Husserl il modo in cui è possibile farsi un’idea di qualche cosa, ma un idea corretta, che sia corretta cioè che rappresenti esattamente l’oggetto, quindi deve poterla riprodurre. Husserl ammette che debba essere riprodotta, però questa riproduzione deve essere protetta, deve rispettare assolutamente la presenza, quindi quando lo ripete deve ripetere esattamente l’oggetto, perché se lui ha fatto tutte le operazioni per benino, ha tolto tutti le aggiunte che intervengono, allora ha la percezione diretta della cosa e l’ha lì, in carne e ossa, e lui se la ripresenta, se sai evitare ogni intromissione di altro riesci a riprodurre sempre la stessa primitiva evidenza) Il pre dell’oggetto presente ora davanti è un contro nello stesso tempo nel senso del tutto contro della prossimità e dell’incontro (quindi il “pre” dell’oggetto presente dice che è tutto qui appunto) il suo essere ideale non essendo nulla fuori dal mondo (quindi è il mondo) deve essere costituito, ripetuto ed espresso in un medium che non intacchi la presenza e la presenza a sé degli atti che lo compongono, un medium che preservi nello stesso tempo la presenza dell’oggetto davanti all’intuizione e la presenza a sé la prossimità assoluta degli atti a se stessi (è l’idea che voleva Husserl) l’idealità dell’oggetto non essendo che il suo essere per una coscienza non empirica non può essere espressa che in un elemento la cui fenomenalità non abbia la forma della mondanità, la voce è il nome di questo elemento (qui Derrida porre la questione a cui volevo giungere, ve lo ridico “Occorre giungere a una coscienza non empirica ma ideale che non può essere espressa che in un elemento la cui fenomenalità non abbia la forma della mondanità” ora che cosa risponde a questa descrizione? “La forma della mondanità”, cioè non sia intaccato dalle cose del mondo cioè la voce,) la voce si ascolta, i segni fonici, le immagini acustiche, nel senso di De Saussure, la voce fenomenologica sono ascoltati dal soggetto che li proferisce nella prossimità assoluta del loro presente (quando io mi dico qualcosa questo qualcosa che mi dico è presente qui e adesso) il soggetto non deve passare fuori di sé per essere immediatamente investito dalla sua attività di espressione, le mie parole sono vive perché sembrano non lasciarmi, non cadere fuori di me, fuori dal mio respiro in un allontanamento visibile, non cessare di appartenermi, di essere a mia disposizione senza accessorio, così in ogni caso si da il fenomeno della voce la trascendenza apparente dunque della voce dipende dal fatto che il significato che è sempre di essenza ideale “Bedeutung “ espressa è immediatamente presente all’atto di espressione (parla di trascendenza apparente del segno significato/significante, questa dipende dal fatto che non c’è un significante senza un significato, questa presenza immediata dipende dal fatto che il corpo fenomenologico del significante sembra cancellarsi nel momento stesso in cui è prodotto, il “corpo fenomenologico del significante” cioè la parola, l’immagine acustica sembra cancellarsi nel momento in cui si produce, si cancella a vantaggio del significato) sembra appartenere fin d’ora all’elemento dell’idealità. Esso si riduce fenomeno logicamente trasforma in pura diafanità l’opacità mondana del suo corpo, questa eliminazione del corpo sensibile e della sua esteriorità è per la coscienza la forma stessa della presenza immediata del significato (per potere accedere al significato il significante deve cancellarsi, deve cancellarsi nel senso che non può essere simultaneamente presente al significato, la voce che dice qualche cosa non è simultaneamente presente o meglio non può permanere mentre interviene il significato, perché il corpo fenomenologico del significante, l’immagine acustica sembra cancellarsi nel momento stesso in cui si produce.