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9 novembre 2022

 

L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger

 

Proseguiamo, dunque, con la seconda parte. Dopo Anassimandro, nella seconda parte ci sono le considerazioni di Heidegger. La terza parte sarà poi dedicata a Parmenide, Heidegger ne fa una lettura straordinaria, di un’acutezza e di una precisione notevolissime. Direi che questo è uno degli scritti dove dà il meglio di sé. A pag. 67. Qui comincia a fare delle considerazioni sul detto di Anassimandro che, detto ventisei secoli fa, pare non ci riguardi più, è una cosa antica, per cui non serve più a niente. …è evidente che ciò che il detto esprime ci è inaccessibile, anzi estraneo: tutto ciò non ci riguarda più. Se a ciò aggiungiamo quanto fin dal principio abbiamo dovuto ammettere, cioè che assai poco ci è stato tramandato, e quel poco è incompleto, l’intero nostro progetto di andare alla ricerca dell’inizio della filosofia occidentale non diventa forse estremamente problematico? È quindi il momento di formulare senza remore le perplessità suscitate da tale progetto, che riassumiamo in quattro punti: 1) Tra noi e l’inizio della filosofia occidentale c’è uno spazio di duemilacinquecento anni. /…/ 2) …anche se ci fosse possibile, sulla base di nuove fonti… /…/ Solo per costatare, alla fine, che la filosofia nel frattempo è progredita moltissimo? /…/ 3) E se anche si arrivasse ad ammettere che questo antiquato sopravvive pur sempre in ciò che è venuto in seguito… allora ...un tale significato svanirebbe ugualmente non appena prestassimo attenzione a quanto grossolano e fin troppo misero sia il modo in cui questi detti e questi insegnamenti ci si presentano… /…/ 4) Infine, anche qualora ci si dovesse concedere che la semplicità e la rozzezza di questi detti non ci deve impedire di pensarne a fondo il contenuto… /…/ In maniera tale che non ci imbattiamo in nulla che potrebbe smuovere, se non addirittura sconvolgere in modo durevole e definitivo noi “uomini d’oggi”… A pag. 69. Chi parla da queste perplessità? In verità – noi stessi. E con ciò abbiamo già senz’altro il dato più importante ed evidente. Noi, quindi. Noi, come ci comportiamo noi quando diciamo “spazio di tempo insuperabile”, “antiquato”, “grossolano e misero”, “irreale (fantasmatico)”? Nel sollevare queste perplessità ci comportiamo come se fossimo senz’altro pronti a prestare ascolto all’inizio della filosofia occidentale; anzi, non solo pronti ma naturalmente anche preparati a lasciarci dire qualcosa; ci comportiamo come se fossimo assolutamente in grado di decidere se tale inizio abbia qualcosa da dirci oppure no, e pensiamo addirittura che si tratti di uno sforzo genuino, andando fieri per la cautela critica con cui ci apprestiamo a un progetto come quello di indagare l’inizio. Ci comportiamo così. Ma se proprio nel fare ciò fossimo prigionieri di un’illusione? Un’illusione che addirittura trarrebbe alimento dal prendere a pretesto quelle perplessità? Forse lo si fa in buona fede, ma non si tratterebbe ugualmente di una grande illusione, che, per l’appunto, prende a pretesto quelle perplessità? /…/ In che cosa consiste l’illusione di cui siamo da molto tempo prigionieri? Consiste nel fatto che l’uomo si è convinto che l’antico sia antiquato, che l’antiquato sia il passato, e che il passato sia ciò che non è più – che non è più essente – e che, in quanto non-essente, è il nullo. /…/ Ma questo auto-inganno è forse casuale? E se non lo è, per quale ragione si è diffuso in modo così ampio? Esso scaturisce da un pregiudizio profondamente radicato riguardo all’uomo e al suo rapporto con la storia, il pregiudizio che tale rapporto consista di conoscenze storiografiche e si basi su di esse. Questa era una considerazione intorno alla difficoltà che si incontra nell’approcciare testi come quello di Anassimandro. Difficoltà che è fatta dei nostri pregiudizi: noi supponiamo di sapere oggi molto di più di quanto sapessero allora e, quindi, ci comportiamo come un adulto di fronte alle parole di un bambino. A pag. 73. Ma che cos’altro potrebbe ancora riservarci questo indubitabile abisso temporale tra noi uomini d’oggi e l’inizio della filosofia? Quale possibilità nascosta potrebbe essere ancora in attesa all’interno di questo nudo dato di fatto? Proviamo ad accennare a tale possibilità servendoci di una metafora. Nel suo cammino attraverso un’arida contrada, un viandante deve allontanarsi sempre più dalla fonte alla quale aveva attinto una prima e ultima volta. In tal modo – in termini obiettivi – la sua distanza dalla fonte aumenta sempre più: egli se la lascia alle spalle e, via via che la distanza cresce, perde l’orientamento, sicché alla fine la fonte rimane lontanissima e inaccessibile. Posto che il viandante muoia di sete, perché muore? Il perché non può che essere l’eccessiva distanza dalla fonte, con cui egli non ha più alcun rapporto. Ma perché mai la distanza eccessiva dalla fonte non sarebbe più un rapporto con essa? Anche qualora la distanza fosse sufficientemente grande, il rapporto con la fonte cesserebbe forse di essere un rapporto? Oppure la distanza eccessivamente grande dalla fonte è pur sempre ancora un rapporto con essa, un non-rapporto, ma comunque, appunto, un rapporto, e addirittura per nulla indifferente? Forse che il viandante, man mano che aumenta la lontananza dalla fonte, si libera di essa? Esce forse dal rapporto con essa? È vero il contrario. Infatti, non accade piuttosto che la fonte lo incalzi in modo tanto più assillante quanto più egli è prossimo a morire di sete? Non è proprio là – in termini obiettivi – lontanissima fonte a determinare la sua rovina? Non è forse questo il dato di fatto: che la rovina cui il viandante va incontro proseguendo sempre in avanti nel suo cammino non è determinata da nient’altro che da quella fonte? Una metafora. Ora, se fossimo proprio noi, nel nostro rapporto con l’inizio della filosofia occidentale, questi viandanti progredienti e progrediti? E se non solo oggi, ma da lungo tempo il progresso della filosofia occidentale altro non fosse che un costante, crescente andare in rovina in relazione al suo inizio? Qui c’è tutto Heidegger, naturalmente. L’idea è che è in quell’inizio che c’è qualcosa degno di essere pensato. E se nella storia di questo andare in rovina – e proprio in essa – fosse appunto l’inizio a incalzare e a pressare colui che progredisce nel cammino? E se, in questo suo incalzare e pressare, l’inizio fosse costantemente presente nella sua estrema vicinanza – vicino in modo ancora del tutto diverso da come si è potuto indicare con la metafora della fonte e del viandante? E se questa estrema vicinanza dell’inizio dovesse rimanere velata proprio a causa del progresso? Qual è la questione del detto di Anassimandro, in fondo dell’inizio della filosofia: è la domanda “qual è l’essere dell’ente?”, cioè, “che cosa dà all’ente la sua enticità?”, “perché l’ente è quello che è?”. Qui c’è una domanda e lui insisterà sul fatto che tutto procede da una domanda. A pag. 75. Dobbiamo tenere conto della possibilità che ciò che è antico, quindi antiquato, non sia l’inizio, ma che siamo noi a essere talmente invecchiati da non potere nemmeno più comprendere un inizio, e che non lo possiamo comprendere proprio perché ci richiamiamo a ciò che è oggi moderno e progredito. Dobbiamo quindi concepire anche la possibilità che l’iniziale dell’inizio non sia un che di primordiale e primitivo, poiché ciò che spacciamo per primitività altro non è che la semplicità che caratterizza tutto ciò che è grande – una semplicità che però noi non capiamo, giacché non vediamo la grandezza, essendo da lungo tempo diventati troppo piccoli. Solo ciò che esso steso è grande, o per lo meno conosce la grandezza in un senso essenziale, infatti, può incontrare nuovamente ciò che è grande. Qui è come se dicesse che solo un grande può avvicinarsi alla grandezza degli antichi. Glielo concediamo, dopotutto è Heidegger… A pag. 76. In breve: noi, gli ottusi prigionieri, gli invecchiati, i rimpiccioliti, gli inetti, dobbiamo fare i conti con la possibilità che non siano l’inizio e la sua peculiarità a impedirci di avvicinarci a esso, ma che siamo noi stessi, e precisamente senza saperlo, a impedirci di andare alla ricerca dell’inizio. Questo ostacolo consiste dunque in niente di meno che nella nostra incapacità di avere a che fare inizialmente con l’inizio. Solo chi può avere a che fare inizialmente con l’inizio dispone della preparazione interna necessaria al progetto di andare alla ricerca dell’inizio. La questione che sta ponendo va al di là della semplice ricerca dell’inizio della filosofia. In effetti, si può adattare a chiunque. In fondo, la domanda dell’essere dell’ente, che appare come una domanda astratta, astrusa, ecc., non è forse ciò che ciascuno si pone quotidianamente, ininterrottamente, ogni volta che deve prendere una decisione, ogni volta che afferma qualche cosa, sta ponendo una domanda dell’essere dell’ente: le cose stanno così? ho ragione o torto? è bello o brutto, buono o cattivo? Ecco, queste sono tutte domande dell’essere dell’ente, che chiedono se le cose stanno così oppure no; quindi, è tutt’altro che una domanda astratta per filosofi strampalati. Si tratta poi di accorgersi che l’inizio, anche di un percorso di vita, non è scomparso: ciascuno è tutto ciò che ha vissuto, ché non scompare; posso rinnegarlo, posso fare di tutto per farlo sparire, ma io sono il risultato di tutte queste cose. Da qui la celebre frase di Nietzsche: “ciò che fu, io volli che fosse!”. Tutto ciò che mi è accaduto di bello, di brutto, ecc., io ho voluto che accadesse, ho fatto in modo che accadesse. Posso accorgermene oppure no, posso accoglierlo oppure no, ma rimango il risultato di tutte queste cose. Da qui l’altra famosa frase, sempre di Nietzsche: “diventa ciò che sei!”, cioè, accogli ciò che è la tua storia, il tuo percorso, ciò che ti ha condotto a essere ciò che sei, quello che sei qui e adesso. A pag. 77. Noi siamo i discendenti pre-cursori di quella storia che è iniziata con l’inizio della filosofia occidentale, ovvero di quella storia che accade costantemente di nascosto mentre “noi” andiamo in rovina in relazione all’inizio. Dice siamo i discendenti pre-cursori, nel senso che discendiamo da ciò che siamo stati, dalla nostra storia, dal nostro vissuto, dal nostro percorso, da tutto quanto. Siamo, quindi, i precursori di tutto ciò che questo ha prodotto e che produrrà. Abbandonare l’inizio significa la rovina, in che senso? Abbandonare l’inizio significa non avere più il riferimento di ciò che si è e, quindi, ricorrere all’idea che sono in un certo modo, per esempio, per cause biologiche, neurologiche, accidentali, ecc. No, io sono il risultato di una serie infinita di scelte che ho fatte e che continuano a persistere, nelle mie decisioni. Se non ci riuscirà più di giungere nella vicinanza della grandezza dell’inizio, allora tutto ci sarà negato, persino la possibilità di andare in rovina con grandezza e dignità. Se perdo questo inizio, sia nella storia del pensiero, sia nella storia personale… Ora, la grandezza dell’inizio, riferito alla filosofia, è facile da intendere, si pensa subito a Parmenide, a Zenone, ecc., ma riguardo a sé, la grandezza dell’inizio, anche in quel caso sono le domande che ciascuno si pone sin dall’inizio. Da quando incomincia a parlare, da quando è nel linguaggio, si pone delle domande, che poi scompariranno, esattamente come è accaduto per la storia del pensiero. I famosi “perché” dei bambini, certo, appaiono ingenui, e sono ingenui perché non hanno ancora molti strumenti, ma potremmo dire che c’è comunque una grandezza dell’inizio, perché quando ci si affaccia al linguaggio ci si pone, senza volere, senza sapere, senza avere alcun elemento, ci si pone la domanda intorno al linguaggio, vale a dire, intorno all’essere dell’ente. Un bambino si pone la domanda intorno all’essere dell’ente: perché le cose sono così, mamma? Ovviamente, immagina che la mamma possa rispondere. La storia del pensiero, in fondo, è la storia di ciascuno. E come nel pensiero le domande fondamentali sono quelle che meritano di essere pensate, così nella storia di ciascuno, anche le domande del bambino in fondo sono domande che meritano di essere pensate, sono quelle domande che il filosofo prenderà sul serio: perché le cose sono così anziché essere in un altro modo? È una bella domanda, provate a rispondere. Eppure, sono le domande che un bimbetto si pone, che poi scompaiono, esattamente come sono scomparse le domande del pensiero filosofico, per lo stesso motivo. Heidegger sa qual è il motivo: è l’essere travolti dagli enti, l’essere sempre alla rincorsa degli enti, sempre a correre dietro a qualche ente, sempre nuovo e, quindi, da dominare. Per mostrare al mondo quanto io sono forte ho continuamente bisogno di enti da dominare; se non ci sono enti, è finita: come posso dimostrare di essere il più forte se non ho nessuno da battere, nessun duello da compiere? Questo per dire che la domanda che lui si pone, la domanda filosofica per eccellenza, sull’essere dell’ente, non è poi così astratta e squinternata, è la domanda che riguarda il vivente, ζοον λογον εχων, il vivente provvisto di linguaggio, e soltanto lui può porsi questa domanda, il bruco non ha di questi problemi. Ma noi sì, e questo Heidegger lo sa bene. E, infatti, da dove viene questa domanda? Dall’uomo, naturalmente, è l’uomo che si pone questa domanda e nel domandare fa esistere queste cose.

Intervento: quando lei diceva che gli umani oggi sono travolti dagli enti, mi fa pensare che, rispetto alla domanda, a questo punto sia l’ente a dover rispondere.

Sì. Questo è l’aspetto religioso, perché avviene subito questa separazione tra me e l’ente, come direbbe Fichte, tra l’Io e il non-Io, tra l’Io e tutto ciò che si oppone all’Io. Quindi, l’ente è, certo, l’opponente, il negativo, il negativo che deve essere domato. Come si doma l’ente? Sapendo che cos’è; ecco che allora arriva la risposta dall’ente, perché io so che cos’è l’ente, cioè, ho risposto alla domanda che cos’è l’essere dell’ente.

Intervento: Credo che Heidegger non abbia colto il problema della separazione…

È una questione che, in fondo, è sempre stata presente. Nella migliore delle ipotesi si è giunti a considerare il fatto che le cose sono nella parola, ma manca quel passaggio fondamentale che cambia tutto: non è che le cose sono nella parola, ma le cose sono parole. Non devo cercare una cosa nella parola, no, tutto ciò che c’è è parola. E quando cerco l’essere dell’ente, per esempio scientificamente, lo interrogo, lo matematizzo, gli faccio tutto quello che mi pare, trovando di volta in volta sempre altre parole, altri enti. Ma gli enti sono parole e, quindi, nella cosiddetta ricerca scientifica, di fatto, si trovano sempre altre parole, si va avanti e si trovano sempre parole, si va avanti ancora e si trovano altre parole ancora, poi altre parole, altri racconti, altre storie, vorrei quasi dire, altri miti. Questo fino al punto in cui… Aristotele ci era arrivato, quando parla della materia. La materia: come la definiamo? Se la definiamo, la definiamo sempre come materia signata, come forma, ma la materia sfugge sempre: vogliamo parlare della materia ma, in realtà, parliamo della forma, cioè, stiamo parlando di parole, continuiamo a parlare di altre parole, per cui dov’è la materia, dov’è la cosa in sé? È una costruzione, non è che non la possiamo raggiungere, non c’è, non c’è mai stata. Quindi, l’impossibilità di raggiungerla non dipende dalla incapacità, dalla scarsezza di mezzi, di strumenti, ecc., ma dipende dal fatto che questa cosa che io voglio raggiungere si sposta mano a mano che ne parlo, perché questa cosa che voglio raggiungere è anche lei un’altra parola, questa “cosa in sé”, che io immagino, fantastico, è un’altra parola. È sempre la stessa questione di Aristotele: voglio cercare la materia e trovo sempre la forma, cioè una parola. E da lì non posso uscire, per via del fatto che è così che funziona il linguaggio: dicendo una cosa, immediatamente questa cosa si sottrae dileguando in un’altra; quindi, non è più quella, quella è scomparsa. A pag. 78. Questo smodato, fatuo rovistare nella propria generazione e, in misura più ampia, nella cosiddetta “situazione attuale”, a poco a poco dà la nausea. Per fortuna in caso di necessità si può prendere la dovuta distanza da tutto ciò. Davvero funesto è però il fatto seguente: la frenetica premura per la situazione attuale si trasforma in un’intima rovina, poiché alimenta un inganno di fondo, ovvero l’opinione secondo cui meditando sulla situazione attuale si darebbe inizio al domandare serio:… Partiamo dai fatti, partiamo da ciò che conosciamo. …starebbe qui la ben nota e mai attuata “decisione”. Tuttavia questo modo di considerare e valutare la situazione è solo un’arbitraria e per di più errata trasposizione dell’atteggiamento di autoriflessione morale al rapporto con la storia e alla storia stessa. In altri termini, con il volere partire dalla situazione attuale chiaramente si sconfessa l’inizio. Parto da come sono io oggi certo, ma io oggi sono così perché sono il risultato di tutto ciò che mi è accaduto, che ho fatto, che ho pensato, ecc., io non sono nient’altro che questo, non esisto se non in questo modo. A pag. 79. Una descrizione della situazione storica condotta con la profondità e l’ampiezza di Nietzsche è qualcosa che ha luogo una sola volta, nella misura in cui scaturisce da una necessità straordinaria, ed è irripetibile. Il compimento di una simile opera è stato ottenuto al prezzo dell’immane destino di questo grande uomo. Un compito di tal genere non può essere sbrigato così, incidentalmente, come parergo, e infatti ha logorato l’intera storia interiore ed esteriore di una personalità del rango di Nietzsche. Potremmo dire che lui si è interrogato sulla situazione attuale, certo, ma nella situazione attuale che cosa ha colto? Che la situazione attuale non è altro che volontà di potenza, cioè, nell’attuale io sono la volontà di dominare le cose, non sono nient’altro che questo. La totale illusione in cui sguazzano allegramente gli uomini d’oggi nella loro attualità emerge forse nel modo più chiaro dal fatto che Nietzsche, nonostante la sconfinata letteratura che lo riguarda – anzi proprio a causa di essa – non viene capito. Solo pochi iniziano oggi a presagire qualcosa del compito e dell’impegno di comprendere, cioè di far agire il destino di Nietzsche come accadimento fondamentale della nostra storia più intima. Il che ovviamente non significa affatto “professare” la filosofia di Nietzsche. Nessuna vera filosofia, se intesa nella sua verità, si lascia professare. Non è un atto di fede. Adesso qui incomincia a porre la questione in termini più precisi, e cioè l’inizio, la domanda fondamentale: che cos’è l’essere dell’ente. A pag. 81. Prendiamo quindi in considerazione soltanto ciò che in esso è incontestabile e “ci sta davanti” per così dire in modo evidente. Che cos’è? Risposta: il detto parla di τά ὂντα, l’ente, dice qualcosa dell’essere dell’ente e cerca in qualche modo di fondare ciò che ha detto dell’ente, indicando in che senso l’ente dev’essere così com’è. In breve: il detto è un fondante dire dell’essere passando per l’ente. Ciò contrassegna indubbiamente la più antica testimonianza della filosofia occidentale, e quindi l’inizio, per quanto lo conosciamo. Dire dell’essere dell’ente, che muove dall’ente. Trent’anni dopo, siamo nel ‘62, Heidegger in Tempo e essere vuole invece cogliere l’essere senza passare dall’ente. Come fa? Semplicemente tenendo conto, come fa qui in buona parte, dell’essere così come lo ponevano gli antichi, come presenza, come ciò che è presente adesso. Ecco il tempo, ciò che si temporalizza, ciò che è presente in questo momento, ma questo tempo presente non può scartare né il tempo passato né il futuro; quindi, questo tempo, anche se Heidegger non lo dice così, è la simultaneità di queste tre figure del tempo. Muove, quindi, questa domanda intorno all’essere aggirando la questione dell’ente; poi, l’aggira fino a un certo punto perché rimangono i problemi, che lui non risolve alla fine, e cioè che in ogni caso parlando dell’essere sta parlando dell’ente, sta parlando di qualcosa, e il qualcosa è un ente. E da lì non ne è uscito, perché ha tenuto separati l’essere e l’ente, fino alla fine, non si è mai accorto della cosa più semplice, più banale, più ovvia: l’ente e l’essere sono due momenti dello stesso, non c’è l’uno senza l’altro, non posso pensare l’essere senza l’ente e l’ente senza l’essere. Cosa che avverte senza accorgersene ma che avrebbe risolto tutti i suoi problemi, mentre tenendo separate le due cose, ecco che allora come si connette con l’essere, come si connette l’uno con i molti, come si connette l’infinito con il finito, che cosa consente di parlare di queste due cose? Sono due facce della stessa cosa, due momenti dello stesso, e l’essere e l’ente sono due momenti della stessa cosa, di ciò che appare. A pag. 82. Il detto non è semplicemente un’asserzione, ma è risposta. Qui introduce la questione della domanda. Il detto non viene così, dal niente, ma è la risposta a un domandare. Per quanto possa essere controverso in sé, e anche per l’interpretazione, non v’è dubbio che il contenuto del detto, nel suo essere risposta, si radichi essenzialmente in un domandare. L’inizio non può quindi essere contenuto nel detto in quanto tale, bensì nel domandare a cui il detto risponde. Il dire fondante, in quanto dire che risponde con il fondamento, contiene in sé il domandare. Che cos’è il domandare? È un rinvio, un porre una relazione, un cogliere, uno stare nella relazione. Se questo domandare viene accantonato non si coglie minimamente l’intero contenuto del detto. Un tale domandare infatti non è per nulla solo il modo in cui esso giunge alla risposta, cioè il modo in cui il detto nasce, e che potrebbe essere tralasciato una volta che esso è nato; al contrario, il detto non parla affatto come il detto che è se non parla rispondendo, cioè se non viene pronunciato al tempo stesso, e ancor prima, come domanda. Ciò che sta dicendo qui Heidegger, e che sembra una banalità, in realtà è molto importante, perché dice che la domanda continua, persiste, nonostante qualunque risposta. La risposta non toglie la domanda, anzi, la risposta rinvia continuamente la domanda, la fa sussistere e permanere. La domanda non si toglie, è la domanda ciò da cui sorge ogni cosa. Poi, spesso la risposta serve ad accantonare la domanda, cioè ad accantonare l’inizio; ma questo inizio, come dice giustamente Heidegger, occorre che continui a domandare. Tutto ciò che produce sono risposte a questa domanda, ma ciascuna risposta si porta appresso questo inizio e lo mantiene, lo conserva in sé, non lo cancella.

Intervento: La domanda viene posta, ragionando nei termini di Anassimandro, dove c’è disaccordo.

Sì, dove qualcosa appare per quello che è, determinato. Perché è determinato? Posso domandarmi solo se lo pongo come determinato. Nell’accordo non c’è domanda, in quanto ogni cosa è indeterminata, è l’πειρον, l’indelimitato, l’indeterminato, l’infinito. A pag. 83. L’inizio è dunque un iniziare nella modalità di un domandare. Andando alla ricerca di un contrassegno dell’inizio l’essenza dell’inizio ha assunto per noi una determinazione più chiara. Il domandare: è questo l’inizio. Il domandare, cioè un essere in relazione con. L’inizio in quanto iniziare; l’iniziare in quanto domandare; il domandare in quanto apprensione dell’essere tramite il domandare; il domandare in quanto domanda dell’essere. Dice bene, l’iniziare in quanto domandare, il domandare in quanto apprensione dell’essere tramite il domandare, cioè, è tramite il domandare che io apprendo l’essere, perché ciascuna domanda, potremmo anche dire così, è una domanda dell’essere dell’ente, la domanda domanda questo: che cos’è l’essere dell’ente o, che cos’è l’ente.

Intervento: Verrebbe da pensare che sarebbe necessario imparare a parlare in questi termini. C’è il disaccordo, la differenza, ecc., quindi c’è una domanda, viene fornita una risposta, che non può chiudere il domandare, e da lì si va avanti.

Sì, ed è anche il motivo per cui si continua a parlare, perché sennò uno pone una domanda, gli viene fornita una risposta e finisce lì, e non parla più. A pag. 84. L’ente è ciò che viene interrogato. A proposito di che cosa lo si interroga? A proposito di ciò che determina l’ente in quanto ente, cioè l’essere. È dell’essere che si domanda. Ogni domanda è una domanda dell’essere dell’ente. L’essere è ciò di cui si domanda. Sappiamo però che il dire è il fondante dire dell’essere. È nel dire che si fonda l’essere, che appare l’essere. Non ci si limita ad annunciare che cos’è l’essere, ma si dice perché esso ha questo carattere. Il domandare del “che cosa” si sviluppa nel domandare del fondamento del che cosa. Il domandare è un andare alla ricerca del fondamento essenziale dell’essere, un sondare l’essere. Questo sondante domandare dell’essere dell’ente lo chiamiamo l’apprensione dell’essere tramite il domandare. Io apprendo l’essere tramite il domandare. Anassimandro avrebbe detto attraverso la discordia, potremmo anche dire il πόλεμος. L’ultima frase, Questo sondante domandare dell’essere dell’ente lo chiamiamo l’apprensione dell’essere tramite il domandare, è importante. C’è la necessità della domanda, ma la domanda presuppone l’esistenza del linguaggio, sennò come faccio a domandare? Il linguaggio è un continuo domandare dell’essere dell’ente? Parrebbe di sì, anche sulla scorta di Anassimandro. Sembrerebbe, in effetti, che il linguaggio sia un domandare continuo. Dicevamo forse tempo fa che il linguaggio non è altro che affermare cose, ma affermo cose in seguito a un domandare. Dico “è così”, ma è così cosa? C’è una domanda alle spalle, che qualcuno mi stava ponendo, alla quale rispondo “sì, è così”. Però, qui ci sarebbe una questione interessante. Heidegger non è che la coglie moltissimo, ma è perché non coglie la questione del linguaggio, quindi, non si accorge che perché ci sia domanda occorre che ci sia linguaggio. E, allora, solo a questo punto è possibile pensare che il linguaggio, di fatto, è il domandare stesso, il domandare è il linguaggio. Si potrebbe anche andare oltre, naturalmente, e porre un’altra questione: perché si domanda continuamente? Qui risponde Nietzsche: per dominare l’ente. Ma, come potete facilmente intuire, è una sorta di circolo vizioso, il vizio sta nel fatto che non c’è uscita. È il linguaggio che dicendo pone qualche cosa che non è quella cosa – la dico in modo molto rozzo – che io voglio che sia, perché ne volevo dire un’altra, per cui devo aggiungerne un’altra per poterla dominare, e quindi ogni volta che parlo sorge una domanda: è quella la cosa che volevo dire? La risposta è sempre no, non è mai adeguata, sufficiente, conclusiva. Perché? Lui lo dice, ma naturalmente non se ne accorge parlando di Anassimandro e dellπειρον: perché il significato dell’ente è πειρον, l’essere in quanto πειρον. Tutte le questioni che pone Heidegger appaiono complesse, e lo sono; possono però apparire molto più chiare se si tiene sempre conto del fatto che quando di parla di ente e di essere, possiamo tranquillamente parlare di significante e di significato. Essere come significato: è il significato che dà la significatività al significante. A pag. 91. …ci portiamo e poniamo dinanzi ciò a cui (l’ente) la domanda va rivolta. Lo abbiamo chiamato “ciò che viene interrogato”. Quest’ultimo, prima ancora di essere investito da un domandare, e mentre lo è, dev’esserci noto, quindi risultare in un primo momento affatto scontato e non degno di domanda. Ciò che viene interrogato è ciò che è anzitutto noto e non problematico. Ma appunto questo noto, se deve poter essere interrogato, deve nel contempo essere in qualche modo ignoto, oppure poter diventare ignoto. Il non-problematico deve diventare problematico in riferimento a ciò in vista di cui viene interrogato, cioè in riferimento a ciò di cui si domanda. La formulazione problematica non si limita a porci genericamente dinanzi ciò che viene interrogato, bensì distingue in esso ciò che è problematico e ciò che non lo è, in modo tale che proprio il non-problematico emerga nella sua problematicità. Sta ponendo una questione in realtà molto semplice. Noi ci interroghiamo sull’essere come se non sapessimo dell’essere, ma lo utilizziamo ininterrottamente, per cui come facciamo a non saperlo, come facciamo a non conoscerlo? Eppure, non lo conosciamo, ma lo utilizziamo ininterrottamente; quindi, facciamo come se in realtà lo conoscessimo, e in un certo senso lo conosciamo perché lo usiamo a proposito. E, allora, è problematico questo essere, cioè è degno di essere interrogato o non è problematico, una banalità? Ovviamente, lui opta per la problematicità dell’essere – diversamente non avrebbe scritto questo libro –, e cioè sul fatto che l’essere dell’ente è ciò che prioritariamente si interroga e si vuole sapere. Si crede di sapere. Infatti, a un certo punto cita il δοξάζειν, il credere di sapere dell’essere, ma in realtà non si sa nulla dell’essere. D’altra parte, ogni parola che utilizziamo, ogni significante ha un suo significato, ne conosciamo il significato? Cosa diciamo quando diciamo che conosciamo il significato? Sì, certo, possiamo dire di conoscere il significato, ma che cosa conosciamo? Quelle tre o quattro parole che gli attribuiamo, ma ciascuna di queste tre o quattro parole a loro volta sono significanti provvisti di significato, e così via all’infinito. Quindi, che cosa sappiamo del significato? Qui interviene una questione, che potrebbe essere interessante, Heidegger non ne parla: la distinzione tra un sapere teoretico e un sapere utilizzare, cioè l’utilizzare il significato come se fosse un utilizzabile, uno strumento, come un cacciavite. A pag. 92. Conosciamo l’ente in ciò che esso, di volta in volta, è. Perché mai allora ci ostiniamo a porre di nuovo la domanda: che cos’è l’ente? Conosciamo questo ente in quanto lavagna, libro, scala, porta – sappiamo che cosa esso, di volta in volta, è, ne conosciamo il “che cos’è”, l’essenza; eppure ci troviamo subito in imbarazzo non appena dobbiamo dire in modo chiaro e definitivo in che cosa consiste l’essenza di un libro o di una scala. Emerge così che abbiamo senz’altro una certa cognizione del “che cos’è” (dell’essenza) dell’ente, ma non una vera e propria conoscenza di esso. Per distinguerla da quest’ultima, chiamiamo la prima la “precognizione” dell’ente nel suo “che cosa” e “così” contingente. Tale precognizione dell’essenza rientra in quella familiarità con l’ente in cui ci immedesimiamo, e che, senza entrare troppo nel dettaglio, reclamiamo senz’altro come nostra. Precognizione dell’essenza: possiamo porla come l’aver imparato a utilizzare qualche cosa, come qualche cosa che ha a che fare con l’utilizzabile. Io utilizzo un cacciavite, ma se dovessi dire dell’essenza del cacciavite mi troverei in imbarazzo, non saprei bene come definirla, so usare questi strumenti ma non so che cosa sono. Questo vi rende conto immediatamente di ciò che lui intende con “precognizione” e la conoscenza, il sapere. La precognizione dice che io lo uso, quindi, ne so già qualcosa. A pag. 93. Che cos’è che, in generale, fa dell’essente un essente, del tutto a prescindere dalla sua specie e dal suo ambito di appartenenza? Rispondiamo: l’essere. È l’essere che fa dell’ente quello che è. Con questa risposta però non risolviamo la domanda dell’essere, all’opposto non facciamo che riconoscerne anzitutto il carattere problematico: l’ente è il noto, il suo essere è l’ignoto. È una situazione piuttosto bizzarra: posso dire che l’ente è noto, ma l’essere, cioè ciò che fa dell’ente quello che è, non è noto. Come è possibile una cosa del genere? Dovrebbe a maggior ragione essere noto l’essere, se è quello che dà all’ente la sua enticità. L’ente è il non-problematico. L’essere è il problematico. Quando domandiamo “che cos’è l’ente?”, domandiamo dell’essere. Ci portiamo dinanzi il non-problematico nella sua problematicità.