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9 ottobre 2024

 

Porfirio Sentenze

 

Prima di avviarci a Porfirio, che fornisce le istruzioni per pensare, vorrei fare una considerazione intorno ancora ad Aristotele, che ci servirà. Aristotele, nel Perì Ermeneias, che si traduce con interpretazione, ma non ha nulla a che fare con l’interpretazione come oggi si intende, e cioè come esegesi, come spiegazione di qualche cosa. Il Perì Ermeneias è il fondamento della logica modale, praticamente. Qui, nel Perì Ermeneias, Aristotele ci ha mostrato, non mi ricordo se lo abbiamo precisato oppure no, come di fatto l’uno e i molti siano la stessa cosa. Diceva, cosa poi ripresa da Łukasiewicz, che abbiamo citato, che, se p è necessario, allora p è possibile. È un’affermazione che non si riesce a eliminare perché, se p è necessario è anche possibile, a fortiori è possibile perché, se non fosse possibile, non sarebbe neanche necessario. Si dice in questo modo che il necessario, cioè l’universale, comprende il particolare necessariamente, cioè il possibile. Ricordatevi il quadrato logico di Pietro Ispano. In alto l’universale affermativa, si scende giù e c’è la particolare affermativa appunto: se tutte le A sono B, qualche A è B necessariamente. Quindi, già Aristotele aveva posta in modo molto preciso la questione: l’universale è fatto del particolare, non si può separare. Che è un modo molto preciso per indicare, per riprendere anche, il famoso frammento di Eraclito: l’uno è i molti. Aristotele lo dice chiarissimamente: l’universale affermativa comporta la particolare affermativa, se tutte le A sono B vuol dire che qualche A è B, è inevitabile. Poi, però, Aristotele aggiunge una cosa interessante rispetto all’universale, perché, sì, tutte le A sono B, ma chi la dice questa cosa? E, allora, dice nel Perì Ermeneias, 14,23a. D’altro canto, si deve dire che l’affermazione è contraria alla negazione, oppure che un’affermazione è contraria ad un’affermazione? Così, il giudizio che dichiara “ogni uomo è giusto” è forse contrario al giudizio “nessun uomo è giusto”, oppure il giudizio “ogni uomo è giusto” sarà contrario al giudizio “ogni uomo è ingiusto”? Cioè, a un’affermativa si oppone come contraria, alternativamente, un’affermativa e una negativa: “ogni uomo è ingiusto” è un’affermativa; “nessun uomo è giusto” è una negazione. Poi, fa l’esempio di Callia. In realtà, se le espressioni della voce derivano dagli oggetti della mente… Oggetti della mente che, come sappiamo, vengono dal pathos, e non è un dettaglio irrilevante. …e se nella mente è contraria all’opinione che riferisce una determinazione contraria, nel caso, ad esempio, che l’opinione, secondo cui ogni uomo è giusto, sia contraria all’opinione secondo cui ogni uomo è ingiusto, sarà allora necessario che le cose stiano allo stesso modo anche a proposito delle affermazioni espresse con la voce. Dunque, ci sta dicendo, in modo chiaro, che questa affermazione universale “ogni uomo è giusto” è un’opinione, alla quale noi possiamo contrapporre un’altra opinione. Ma sempre di opinioni si tratta, di doxa, non c’è nessuna affermazione apodittica, cioè, universale, intesa nel senso epistemico. Queste cose sono quelle che hanno creato grossi problemi al pensiero neoplatonico, il quale, come ci dirà adesso Porfirio, ha continuato incessantemente a ribadire la necessità che l’uno non sia i molti, ma che l’uno o, meglio, che dall’uno procedano i molti e che questi molti siano altro dall’uno. E, infatti, Porfirio, nelle Sentenze, incomincia parlando degli incorporei, cioè, dell’intelligibile. Deve dimostrare che gli incorpori ci sono, ma sono ciò da cui procedono i sensibili, cioè, i corpi. Sentenza 2. Gli incorporei in sé, per la ragione stessa che sono superiori a ogni corpo e allo spazio, sono ovunque; e non in modo estensivo, ma indivisibile. Quindi, gli incorporei, gli intelligibili, sono superiori a tutto. Sentenza 7. Le ipostasi incorporee, quando scendono, si dividono e si moltiplicano nell’individuale per un rilassamento della potenza. Quando invece salgono, si unificano e spaziano in senso opposto verso l’insieme per la sovrabbondanza della potenza. Quindi, se si va verso la sostanza, verso i sensibili, è perché si perde potenza; quando si risale, invece, c’è una sovrabbondanza di potenza. Sentenza 8. Tutto ciò che genera per propria essenza, genera qualcosa di inferiore e tutto ciò che nasce si volge per natura a chi l’ha fatto nascere.

Dice “per natura”, che non è ulteriormente specificato. Tra i generanti, alcuni non si volgono affatto ai loro generati, altri si volgono a quelli e a se stessi, altri ancora si volgono soltanto alla loro progenie, ma non a se stessi. Sentenza 9. Ogni cosa che nasce ha da altro la causa del proprio nascere, ovvero nulla nasce senza causa. Ma tra le cose che nascono quelle che acquistano l’essere in seguito a composizione sono disgregabili e per ciò stesso corruttibili. Tutti gli esseri semplici e non composti, che acquistano l’essere nella semplicità dell’ipostasi, in quanto non disgregabili sono invece incorruttibili e si dicono generati non perché composti, ma perché dipendono da una qualche causa. Si riferisce ovviamente all’intervento dell’anima, che procede dall’Uno, che è l’ingenerato; l’intelletto e l’anima procedono invece dall’Uno, il quale non procede da niente, procede solo da se stesso. Sentenza 11. Le ipostasi divisibili, dotate della facoltà di abbassarsi al molteplice, hanno invece la possibilità di volgersi anche alla propria progenie. È in queste ipostasi, pertanto, che hanno avuto origine la colpa e l’infedeltà biasimevole. In loro il male è la materia, perché scelgono di volgersi a essa, mentre potevano rimanere rivolte al divino. Quindi, è colpa loro, in ogni caso. La cosa importante e fondamentale è che la colpa sia sempre dell’altro; questo è ineludibile, perché non è ammissibile che io possa sbagliare. Sentenza 12. (Questi incorporei) Si denominano infatti in base alla negazione di ciò che non sono, non in base all’affermazione di ciò che sono. È la teologia negativa: possiamo solo dire ciò che non sono, non ciò che sono. Questo però è interessante, perché dire soltanto ciò che qualcosa non è significa mettersi al riparo da ogni possibile obiezione. Non è questo, non è quest’altro; se, invece, affermo “è questo”, allora mi si può chiedere di provare questa affermazione. Sentenza 13. Alcuni incorporei si chiamano così e si concepiscono in quanto privi di corpo: tali, secondo gli antichi, sono la materia, la forma che è nella materia - quando la si pensa astratta dalla materia - e ancora le nature e le potenze. Così pure lo spazio, il tempo e i limiti. Tutti questi vengono chiamati incorporei perché sono privi di corpo. Ma vi erano già altre altri incorporei, così chiamati impropriamente, non perché privi di corpo, ma perché la loro natura non può assolutamente generare un corpo. Questo è l’elenco che fa lui degli incorporei. C’è comunque sempre una sorta di sottolineatura di quanto la materia sia il grado più infimo, ed è il motivo per cui non può, non è possibile assolutamente parlare di sinolo, cioè, di coappartenenza di forma e di materia. Sentenza 14. Le proprietà della materia secondo gli antichi sono queste: incorporea - perché diversa dai corpi - senza vita - perché non vivendo di per sé non è né mente né anima - informe, irrazionale, illimitata, impotente. Perciò non è “essere”, ma “non essere”. È non essere” non nel modo in cui il movimento è “non essere” e “non essere” è la quiete. È il vero “non essere”: immagine riflessa e fantastica della massa corporea, in quanto della massa è il costitutivo primario, impotenza e desiderio di ipostasi. È l’immobile che non sta in quiete, ciò che di per sé viene immaginato sempre nei contrari: piccolo e grande, meno e più, insufficiente ed eccessivo. È sempre in divenire e non permane ma non può fuggire: è mancanza totale dell’essere. Potremmo aggiungere noi: mancanza totale di possibilità di controllo. Potremmo accostarlo all’apeiron di Anassimandro. Per questo tutto quel che promette è menzognero, e quando lo si immagina grande è piccolo. È come un gioco che fugge nel non essere, perché non è fuga attraverso lo spazio, ma per allontanamento dall’essere. Ragion per cui anche le immagini riflesse in essa stanno dentro a un’immagine peggiore, come in uno specchio, dove una cosa posta da una parte la si immagina dall’altra e dà l’impressione di essere piena; e non ha nulla, mentre pareva avere tutto. Ora, verrebbe da domandarsi perché mai il neoplatonismo ce l’ha così tanto con la materia? In effetti, se ci pensiamo, tenendo conto dell’ipostasi dell’uno e lo si pone come il massimo Bene, allora lo si pone come assoluta astrazione, come alla massima distanza da tutto ciò che è sensibile, perché non deve essere in nessun modo sensibile, perché, se è sensibile, allora cade sotto i sensi e, se cade sotto i sensi, è oggetto di giudizio: bello, buono, caldo, freddo, ecc. Quindi, la materia, cioè il sensibile, deve essere posta alla distanza massima dall’uno, che è incorruttibile, che è la verità assoluta. Questione che, poi, il cristianesimo ha fatto sua. È importante questa nozione di materia, posta come livello infimo dell’essere, anzi, diventa non essere, in modo che ci sia la possibilità di stabilire con assoluta certezza ciò che è bene e ciò che è male e, quindi, avvalersene e sapere quindi chi sono i buoni e chi i cattivi. I cattivi sono quelli che si sono allontanati dal bene, che si sono allontanati talmente tanto che sono diventati non essere.

Intervento: La certezza della separazione.

Sì, esattamente. E questo è il fondamento del neoplatonismo: il bene e il male devono essere assolutamente separati. E non, come lascia intendere Aristotele, l’universale - che per i neoplatonici potrebbe essere l’Uno, il bene, la verità assoluta – che sia fatto di particolari, cioè, del male, si coappartengono; e non c’è l’uno senza l’altro, non c’è l’universale senza i molti, non c’è l’uno senza i molti. Se p è necessario, significa che p è possibile, cioè, se p è necessario significa che p è anche non necessario, simultaneamente. Questa è la tragedia della logica modale. Un po’ come fa la logica formale: avere a fondamento di ogni cosa l’analogia. Sentenza 16. Non c’è passività che là dove c’è corruzione… C’è una sorta di filo che attraversa tutte queste sentenze, ma tutto il neoplatonismo, un filo morale, che ci vuole dire che cos’è bene e cos’è male, continuamente. Non c’è passività che là dove c’è corruzione, perché accogliere passione è la via verso la corruzione, e il corrompersi è proprio di colui che patisce. Qui c’è già in nuce tutto il cristianesimo. Nessuno incorporeo si corrompe; o è o non è, in modo da non patire nulla. È un richiamo continuo, che possiamo fare anche noi, a ciò che dicevamo prima rispetto ad Aristotele. La corruzione: ecco i molti, cioè il particolare, che è nell’universale ed è ciò che lo corrompe. È come se l’universale scendesse negli inferi, laggiù, e c’è il particolare di cui è fatto. Ma questo è un problema perché, se è fatto anche del suo contrario, come posso porlo come il Bene assoluto? Non posso più. Sentenza 17. Proprio il suo (l’incorporeo) ineffabile espandersi fa sì che si ritrovi congiunto a un corpo. Perciò null’altri che se stesso lo lega e non lo sciolgono la rovina o la corruzione del corpo: può sciogliersi solo da sé deviando dalla simpatia per le passioni. Più morale di così! È chiaro che, se uno è preso dalle passioni è come l’universale preso dai particolari, che è una brutta cosa. Sentenza 18. L’anima si lega al corpo perché si volge alle passioni di quello, ma se ne scioglie di nuovo mediante l’impassibilità. È questo il problema, quindi, occorre la purificazione. Sentenza 20. Di certo vi sono due specie di morte: l’una, ben nota, del corpo che si scioglie dall’anima, l’altra - propria dei filosofi - dell’anima che si scioglie dal corpo. E non sempre una consegue dall’altra. Quindi, la morte dei filosofi è l’anima che si scioglie dal corpo; quindi, l’anima che abbandona il corpo perché non ha più bisogno del sensibile ma si volge all’uno. Questa, dice, è la morte per i filosofi; poi, c’è invece quell’altra morte, dove non è il corpo che si scioglie dall’anima, che perde l’anima, quindi la sua vita, ma è la vita che abbandona il corpo perché è un sensibile. Sentenza 23. Non soltanto negli incorpori c’è ambiguità di termini; della vita stessa si parla in molti sensi. Altra è infatti la vita del vegetale, altra quella dell’essere animato e altra quella dell’intuitivo, altra poi è la vita della natura, altra quella dell’anima e altra quella della mente; altra, infine, la vita di ciò che è al di là. Vive infatti anch’esso, benché nessuno degli esseri che ne conseguono possieda una vita paragonabile alla sua. La vita che si rivolge all’Uno: non c’è un’altra vita paragonabile a quella. Se avete vite, che non sono paragonabili a quella, abbandonatele, per volgervi alla contemplazione dell’Uno.

Intervento: La passione richiama l’esistenza dei molti.

Esattamente. Se si rivolge al sensibile, questo è fatto delle cose, dei sensi, appunto. Quindi, il problema è questo, posto da Aristotele nel De Interpretatione, ma poi anche e soprattutto nelle Categorie e poi negli Analitici secondi: è impossibile separare l’uno dai molti, perché è fatto dello stesso materiale, è la stessa cosa. Ma se non posso separare l’uno dai molti, non posso dividere nettamente il bene dal male e, quindi, non posso imporre il bene, non posso condannare il male, denunciarlo. Sentenza 25. L’essenza intuitiva è formata di parti simili l’una all’altra… Tutte affermazioni che non si sa bene da dove arrivino …di modo che gli stessi esseri si trovano sia nella mente particolare quanto in quella perfetta. Ma nella mente universale persino le parti sono comprese universalmente; in quella particolare tanto gli universali che i particolari sono compresi parzialmente. È già un modo per intendere come l’universale, in effetti, stia per conto suo. Il particolare comprende, sì, anche l’universale, ma parzialmente, mentre l’universale lo comprende in toto perché l’universale, essendo uno, comprende tutto e tutti; sottolineando ancora un’altra volta quanto l’uno, cioè l’universale, sia l’ipostasi perfetta. Tutto ciò che non è l’uno è imperfetto, perché viziato dai molti. Sentenza 26. Su ciò che al di là della mente si dicono molte cose basandosi sull’intuizione, ma lo si contempla in uno stato di non-conoscenza superiore all’intuizione, così come sul dormiente si parla molto nello stato di veglia, ma di cose conosciute e sperimentate durante il sonno. Il simile, infatti, si conosce col simile, in quanto ogni conoscenza è somiglianza col conosciuto. Perché? Non si sa. In altri termini, solo la contemplazione dà la conoscenza assoluta, è la contemplazione che ci porta alla verità. Sentenza 27. Il non essere, in un senso lo generiamo quando ci siamo separati dall’essere, in un altro, lo pre-intuiamo quando stiamo congiunti all’essere. Qui essere è inteso come uno, perché per Porfirio l’essere e l’uno si equivalgono, il più delle volte. Così, se ci separiamo dall’essere, non pre-intuiamo il non essere che sta sopra l’essere, ma generiamo un non essere che è una falsa impressione, come capita a chi è uscito fuori di sé. Del non essere infatti è autore chiunque può realmente risalire da sé al non essere chiara che sopra l’essere o discendere al non essere che è caduta dell’essere. Quindi, c’è un non essere che è sopra l’essere e un non essere che è la caduta dell’essere. Qui si pone il problema di Porfirio, che c’era già in qualche modo in nuce in Plotino, il quale però non se ne occupa. Questo uno, del quale non si può dire nulla, in effetti, è il non essere e, quindi, appare in una maniera horribile visu, che il non essere, cioè la materia, e l’uno siano lo stesso. Entrambi sono indicibili, ineffabili. L’altro è il non essere e, quindi, non ne possiamo dire niente; quell’altro è non essere perché al di sopra dell’essere; ma alla fine appaiono la stessa cosa. Sentenza 28. Gli antichi, che per quanto possibile volevano spiegare con un discorso razionale le proprietà dell’essere incorporeo, quando lo chiamavano “uno”, subito aggiunsero “tutto”, conformandosi a ciò che in qualche modo rappresentava l’unità delle cose conosciute per sensazione. Ma quando si accorsero perché tale unità era qualcosa di diverso, giacché questa entità complessiva “uno-tutto” non la vedevano nel sensibile, congiunsero all’“uno-tutto” l’“uno in quanto uno”, perché capissimo che nell’essere l’“esser tutto” non è qualcosa di composto e ci astenessimo dall’idea di una somma. /…/ Insomma, ce l’hanno mostrato attraverso le massime contraddizioni prese insieme, affinché ne bandissimo le rappresentazioni immaginifiche che derivano dai corpi e oscurano le proprietà conoscitive dell’essere. Queste massime contraddizioni dovrebbero indurci a bandire queste rappresentazioni che derivano dai corpi, cioè dai molti, che oscurano le proprietà conoscitive dell’essere. Perché i molti fanno questo: oscurano le proprietà conoscitive. In fondo, i molti oscurano l’uno, ci impediscono di accedere all’uno. Così come le passioni sono quelle cose che impediscono di accogliere Dio, di aprirsi e accogliere l’uno in sé. Sentenza 30. Dirai dunque così: se ciò che è nello spazio è anche fuori di sé, dato che è progredito nel volume corporeo, allora l’intuitivo non è nello spazio ma in se stesso… Potete pensare l’intuitivo come l’uno. …perché non è progredito nel volume; e se l’uno è immagine e l’altro modello, quello acquista esistenza volgendosi all’intuitivo, questo invece in se stesso: ogni immagine è infatti un’immagine della mente. /…/ Non si tratta di fusione, di mescolanza, di congiunzione o di avvicinamento, ma di una condizione diversa che si manifesta al di là delle relazioni che in vario modo uniscono cose di pari essenza e che è estranea a tutto ciò che cade sotto il senso. È sempre qualche cosa che è al di là, che è al di sopra. Sentenza 33. Il puro essere viene detto molteplice non per la diversità degli spazi occupati, per misure di volume o per somma, non per separazioni o delimitazioni scomponibili di parti, ma perché un’alterità immateriale, priva di volume e non moltiplicabile, lo divide in molteplicità. Quindi, questo puro essere, cioè l’uno, è diviso in molteplicità, e questo è un problema. Come diviso? Ha detto che è indivisibile e adesso lo divide? Per questo è anche uno; e non uno come un corpo, un oggetto nello spazio, un volume, ma “uno-molti”. Nel senso che è “altro”, in quanto è uno. Qui si trova di fronte alla questione che non è riuscito a eliminare: l’uno e i molti. La sua alterità si divide e si riunisce, perché non è qualcosa di avventizio o accessorio. Né esso è “molti” in quanto partecipi di qualcos’altro, lo è di per sé. Così è in azione in tutte le attività, eppure rimane ciò che è, nel senso che dà ipostasi a tutta la sua alterità attraverso l’identità, e l’alterità non si dà a vedere nella differenza di qualcosa da qualcos’altro, come avviene nei corpi. /…/ Nell’essere unità e identità precedono… Ecco come risolvere il problema. …e l’alterità nasce dalla tendenza all’azione propria dell’unità. Quindi, l’alterità è un effetto dell’unità. Per questo l’essere si moltiplica nell’indivisibile, il corpo invece si unifica nel molteplice e nel volume. Il primo dimora in se stesso, perché è unitariamente in sé e non esce, l’altro non è mai in se stesso ed è come se prendesse ipostasi nell’uscire. L’essere è appunto l’uno nel dispiego di tutta la sua azione, il corpo è una molteplicità che si sta unificando. Si deve quindi concludere così: il primo e l’“uno-altro", il secondo è il “molteplice-uno” e non confondere le proprietà di quello con le caratteristiche di questo. Quindi, il primo è l’uno-altro, ma c’è l’uno in prima istanza; poi c’è il molteplice-uno. Lui la risolve così. Dice che, sì, c’è l’uno, che è anche altro e poi c’è il molteplice-uno. Sì, dice, perché non riesce a togliere questa cosa; però, dice, a questo punto però il primo è l’uno-altro, nel senso che il molteplice, questo altro che è compreso nell’uno, tende comunque all’unificazione, tende comunque all’unità, perché l’unità è ciò da cui tutto procede, ciò a cui tutto volge lo sguardo nella contemplazione. Quindi, c’è, sì, il molteplice, ma questo molteplice comunque e sempre vuole tornare all’uno, ma non lo è. Quindi, viene eliminata questa coappartenenza, che c’era in Aristotele, tra l’uno e i molti, perché, sì, ci sono i molti in questo uno, ci sono i particolari nell’universale, ma questi particolari vogliono tornare all’universale a tutti i costi, perché è l’universale il primo di tutti. Sentenza 34. I predicati del sensibile e del materiale sono in verità questi: essere trascinato da ogni parte, essere in mutamento, prendere ipostasi nell’alterità, essere composto, di per sé disgregabile, esistere nello spazio, mostrarsi in un volume e quanti altri assomigliano a questi. Del puro essere, che prende ipostasi di per sé ed è immateriale, i predicati sono questi: essere sempre ciò che dimora in se stesso, trovarsi allo stesso modo rispetto alle stesse cose, essenziarsi nell’identità, essere per essenza immutabile e non composto, non esistere nello spazio e non essere disperso nel volume, non essere qualcosa che nasce né qualcosa che muore, e quanti altri sono simili a questi. Attenendoci ad essi, bisogna dire noi stessi né ascoltare da altri nulla che ne confonda la differente natura. Quindi, non prestate orecchio a chiunque dica qualcosa di differente, perché le cose stanno come dico io. Sentenza 35. E la parte che si abbassa verso la materia è dominata in quella forma secondo la quale si era abbassata e aveva familiarizzato con l’oggetto materiale, ma riottiene la potenza dell’anima intera e la ritrova dentro di sé, non appena abbandona la materia e rientra in se stessa. Poiché poi l’anima che si è abbassata nella materia manca di tutto ed è svuotata della sua potenza, mentre quella che sale alla mente ritrova la pienezza di sé nel possesso della potenza dell’anima totale, così i primi che conobbero la passione dell’anima chiamarono enigmaticamente, ma a ragion veduta, l’una Penìa, l’altra Pòros. Mancanza e abbondanza. Sentenza 38. Così, o sei capace di muoverti in armonia con lei, di farti simile alla totalità dell’essere, di non cercare più nulla, oppure cercherai e devierai nella visione di qualcos’altro. Se non cerchi nulla sta in te stessa e nella tua essenza… /…/ Perciò, chi è nato anche dal non essere, non è tutto: è compagno della povertà e ha bisogno di ogni cosa, e dunque abbandonato che abbia il non essere, allora è tutto… Cioè, abbandonare il non essere significa abbandonare la materia, il sensibile. Sarebbe l’apatia, il non patire più. Così lascia le cose che umiliano e sminuiscono e ritrova se stesso, soprattutto quando credeva che quelle cose piccole per natura fossero il suo “io” e non sapeva chi fosse. In verità: infatti, era lontano da sé e insieme era lontano dall’essere. Cioè, tu sei tutte queste cose meravigliose, però, ti sei abbassato al sensibile. E, quindi, ecco il famoso detto di Nietzsche, “diventa quello che sei”, che è un enunciato più gnostico che neoplatonico. Sentenza 39. Poiché “purificazione” significa per un verso ciò che purifica e per l’altro ciò che appartiene a chi si è purificato, le virtù di questo genere sono considerate in entrambi i sensi della parola “purificazione”. Esse, infatti, purificano l’anima e insieme la accompagnano una volta purificata, dato che scopo della purificazione è divenire puri. Ma poiché tanto il purificarsi quanto all’essere divenuti puri, consistono nella soppressione di ogni elemento estraneo, il bene sarà qualcosa di diverso da chi si purifica. Pertanto, se prima dell’impurità chi si purifica era buono, la purificazione è sufficiente. Ma, sia pure sufficiente, ciò che resta sarà il bene, non la purificazione. La natura dell’anima non era però il bene; stava piuttosto nella possibilità di partecipare del bene ed essere conforme al bene - altrimenti non sarebbe entrata nel male. Suo bene sarà quindi congiungersi al generante, suo male stare insieme alle cose posteriori. Cioè, il bene è stare vicino al generante, cioè all’uno; il male è allontanarsi dall’uno. Questione poi ripresa anche nel Medioevo. l’idea del male come allontanamento da Dio; il male non esiste di per sé, ma compare nel momento in cui ci si allontana per qualche motivo e si è trascinati giù… Sentenza 40. La mente non è l’origine di tutte le cose, perché è molteplice e prima del molteplice è necessario che vi sia l’uno. Che sia molteplici è chiaro, dato che le intuizioni che intuisce di continuo non sono una ma molte, e dato che non sono diverse da lei. Così se la mente sta con le intuizioni e quelle sono molteplici, anche la mente sarà molteplice. /…/ Chi si serve esclusivamente del senso contempla attingendo all’esterno e non si unisce con le cose che contempla: riceve soltanto un’impronta del contatto con esse. Così, quando l’occhio guarda l’oggetto visibile, è impossibile che vi si identifichi, perché non vedrebbe nulla, se non si trovasse a distanza. /…/ Risulta quindi chiaro che sia il senso sia chi se ne serve sono sempre condotti all’esterno, se vogliono cogliere l’oggetto sensibile. Se tu vuoi cogliere l’oggetto sensibile, devi uscire da te. E questo è male. Se non si estende al di fuori la mente, quando intuisce gli intuitivi, contemplerà anche se stessa, e quando si ritrae in sé, intuisce perché si ritrae tra gli intuitivi. Se poi gli intuitivi sono molteplici - perché la mente intuisce i molti e non l’uno - di necessità sarà molteplice anch’essa. Ma prima dei molti c’è l’uno; così è necessario che prima della mente sia l’uno. Qui è curioso come intervenga questa cosa, che non ha molto a che fare con ciò che dice prima; però, ci tiene a precisarlo: prima dei molti c’è l’uno. Prima del particolare, del contingente, c’è l’universale: questa è la questione. Sentenza 43. Memoria non significa conservare le immaginazioni, ma proiettare di nuovo cose di cui ci occupammo. Ma se le proietto di nuovo vuole dire che da qualche parte le avevo conservate. Sarebbe una contraddizione, ma la contraddizione è brutta e porta sempre verso il basso. Direi che le questioni essenziali sono queste. Quindi, avete un’idea di ciò che dice Porfirio e dell’insistenza sulla necessità che l’universale sia separato dal particolare. Cosa che non è in Aristotele, perché, sepP è necessario, allora è anche necessariamente possibile, e quindi non c’è possibilità di separarli. Tutto il lavoro fatto dal neoplatonismo, da Plotino in prima istanza, da Porfirio, da Giamblico, è ciò che ha formato il pensiero. Lo diceva anche il Beierwaltes: tutta la filosofia che ha fatto seguito al neoplatonismo è neoplatonica, cioè, non fa altro che ripetere questa cosa, che l’uno deve essere separato dai molti, necessariamente.

Intervento: Per salvaguardando…

Eh sì, perché i molti lo corrompono.

Intervento: In questo modo la verità assoluta esiste.

Esatto. E se c’è una verità assoluta posso imporla. Deve esserci una verità assoluta e, quindi, questa verità assoluta non può essere corrotta dai molti, in nessun modo, sennò non è verità assoluta. Capite come questo abbia costruito tutto il pensiero filosofico, non solo, tutto il pensiero, da quello scientifico a quello economico, politico, tutto.

Intervento: La questione dell’analisi…

L’universale deve essere liberato dai particolari. Ciò che escogita Porfirio è pensare che, sì, c’è l’uno-molti, perché questi molti non si riesce a toglierli, però questi molti vogliono a tutti i costi ritornare all’uno, perché è lì che c’è il Bene assoluto, è lì che c’è la verità. Quindi, i molti fanno quello che possono, ma cercano in tutti i modi di risalire all’uno che li ha generati.

Intervento: Parlavamo di logica neoplatonica. È come se i neoplatonici avessero affermato l’ineluttabilità dell’induzione, per cui non c’è più bisogno di attribuire il comando, come diceva Aristotele, perché tanto vogliono tornare all’uno.

Sì, tornare all’uno è la condizione, l’unica condizione perché il Bene assoluto è ciò che garantisce della verità.

Intervento: Quindi, l’universale è, senza bisogno di crearlo, di costituirlo.

Questa affermazione è apodittica, l’affermazione dell’universale. Si diceva negli anni ‘70 che l’interpretazione dell’analista non è apofantica ma apodittica. Apofantica significa che è sottoponibile a un criterio verofunzionale, cioè, può essere vera o falsa; quella apodittica no, perché dice l’universale. Come dire che l’interpretazione non può essere messa in discussione.