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9 ottobre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G. W. F. Hegel

 

A pag. 326. L’individualità che è a se stessa reale in sé e per se stessa. L’autocoscienza ha ora colto il concetto di sé che prima era soltanto quello che noi avevamo di essa: il concetto, cioè, di essere, nella certezza di se stessa, ogni realtà;… Più avanti. Ma dacché fine ed essere-in-sé si son dati a dividere come ciò stesso che sono l’essere per altro e l’effettualità trovata, la verità non si separa più dalla certezza che ora il fine posto vien preso per la certezza di se stesso e l’attuazione di esso presa per la verità; ma anche che il fine vien preso per la verità e l’effettualità presa per la certezza; anzi l’essenza e il fine in se e per se stessi sono la certezza della stessa realtà immediata, sono la compenetrazione dell’essere-in-sé e dell’esser-per-sé, dell’universale e dell’individualità; l’operare è in lui stesso la sua verità e la sua effettualità…. Qui parla dell’opera, del fare, ma occorre tenere conto che l’operare propriamente è il dire, è il primo operare. A pag. 328. L’operare nulla muta e contro nulla si volge; è la pura forma della traduzione dal non-venir-veduto nel venir-veduto, e il contenuto che vien messo in luce e che si presenta non è niente altro da ciò che questo operare è già in sé. Esso è in sé: questa è la sua forma, come unità pensata; ed esso è effettuale:… Quindi, questo operare non è nient’altro di ciò che è già da sempre. Questo naturalmente pone la questione dell’inizio, del come si comincia. È già da sempre o, come diceva Heidegger: siamo già nel linguaggio, non c’è un inizio. A pag. 332. Così l’individuo che procede all’azione sembra trovarsi in un circolo in cui ciascun momento già presuppone l’altro… Ecco qui: si è già nel linguaggio, ci sono tuti gli elementi. …e non sembra quindi poter trovare cominciamento alcuno; soltanto dall’operazione l’individuo impara infatti a conoscere la sua essenza originaria, la quale deve essere il fine suo; ma per operare deve precedentemente avere il fine. Se intendiamo tutto ciò come il dire, è chiaro che il dire è sempre incominciato, ed è già anche il fine, non c’è un fine oltre il fine, per cui si è sempre irrimediabilmente nel linguaggio. A pag. 334. …niente è per l’individualità che non sia mediante essa;… L’individualità è ciò attraverso cui le cose sono. …o non c’è effettualità (l’accadere delle cose) alcuna che non sia la sua natura e il suo operare, e non c’è operare né in-sé dell’individualità che non sia effettuale; e solo questi momenti sono suscettibili di comparazione. … Qualunque cosa egli operi, qualunque cosa gli possa incontrare, è lui che l’ha fatta, ed essa è lui stesso… Più chiaro di così. A pag. 335. L’individuo può dunque provare in sé soltanto gioia, dacché egli sa di non poter trovare nella propria effettualità niente altro che l’unità dell’effettualità medesima con lui, ovvero soltanto la certezza di se stesso vista nella sua verità, e di raggiungere perciò sempre il proprio fine. Ci sta dicendo, in un certo qual modo, che parlando c’è già la gioia – naturalmente, se ci si accorge che si sta parlando – perché nel parlare c’è già il cominciamento e il fine, è già tutto lì, non c’è da attendersi nulla. A pag. 335 (175). L’opera… Che a questo punto possiamo intendere come il dire. L’opera è la realtà che la coscienza si dà; è ciò in cui l’individuo è per essa coscienza quel ch’egli è in-sé, e in modo tale che la coscienza per la quale esso diviene nell’opera non è la coscienza particolare, ma quella universale; essa nell’opera si è trasposta in generale nell’elemento dell’universalità, nel spazio, privo di determinatezza, dell’essere. La coscienza ritornante dalla propria opera è in effetto la coscienza universale, - perché essa diviene la assoluta negatività o l’operare in questa opposizione -… Qui c’è sempre la dialettica, ovviamente. Ci sta dicendo che in questo operare, cioè nel dire, che cosa succede? Io dico qualcosa e mi ritorna, di questo operare che è il mio dire, come coscienza universale, in quanto è il negativo assoluto, cioè, è ciò che si oppone sempre, è ciò che mi dice che ciò che sto dicendo è, in quanto non è, ciò che non è, non è altro. A pag. 336. L’opera è;… Come dire che il dire è. …ovverosia è per altre individualità; ed è per esse una effettualità estranea al cui posto esse debbon porre la propria, per darsi, mediante il loro operare, la coscienza della loro unità con l’effettualità… Cioè: qualcuno parla, altri parlano. …oppure, il loro interesse per quell’opera, posto dalla loro natura originaria, è un interesse diverso da quello peculiare di quest’opera, la quale così vien mutata in qualcosa di diverso. È ciò che accade quando si discute. L’opera è perciò in generale qualcosa di effimero che si estingue per il controgioco di altre forze e di altri interessi, e che rappresenta la realtà dell’individualità piuttosto come dileguante che come compiuta. Qui è interessante perché il dire, in effetti, in una discussione, man mano che si dice dilegua, non c’è più, ci sono altre cose che intervengono, altre cose che modificano l’interlocutore, il quale modifica me: è la questione del mondo, di cui parla Heidegger. A pag. 338 (178). La necessità dell’operare consiste in ciò che un fine è senz’altro riferito all’effettualità;… Un fine di qualche cosa, il mio scopo, è riferito a qualche cosa che si effettui, che si produca. …e questa unità è il concetto dell’operare; si agisce perché in sé e per se stesso l’operare è l’essenza dell’effettualità. Nell’opera risulta bensì l’accidentalità che l’esser compiuto ha di contro al volere e al condurre a compimento;… Qui si intende bene, di nuovo, se ci si riferisce al dire; il dire che ciascuna volta che si dice è compiuto; è compiuto ma dilegua di fronte ad altro che si dirà. A pag. 339. …la verità consiste soltanto nell’unità della coscienza con l’operare… Cioè: l’operare è la consapevolezza di ciò che sto facendo; il dire è la consapevolezza che sto dicendo: questa è la verità. Potremmo dire che la verità sta nell’essere consapevoli del fatto che si sta parlando. …e l’opera vera è soltanto quell’unità dell’operare e dell’essere, del volere e del condurre a compimento. Alla coscienza, dunque, in forza della certezza che sta a fondamento dell’agire di lei, l’effettualità opposta alla certezza è essa stessa un qualcosa che è soltanto per la coscienza;… Il mio volere. Dunque, voglio dire delle cose e, quindi, le dico. Le cose che dico è come se si opponessero a ciò che volevo dire, perché sono altro da ciò che volevo dire. Si tratta, quindi, di trovare l’unità di questo elemento e del suo opposto, di trovare l’integrazione fra questi due elementi. L’integrazione fra questi due elementi è esattamente ciò che diceva prima, la verità, e cioè l’accorgersi che si sta parlando e che, quindi, se sto parlando allora ciò che voglio dire, sì, opera, nel senso che si tramuta in un dire, ma questo dire non è mai il mio voler dire; però, sono in una unità, non li posso disgiungere, non posso separare il mio voler dire dal dire. Questo perché, se anche poi non lo pronuncio, già nel mio voler dire io lo sto dicendo, comunque. …la coscienza fa esperienza dell’effettualità come momento dileguante;… La mia coscienza fa esperienza dell’effettualità, cioè di ciò che accade, come un dileguarsi di ciò che volevo dire nel mio dire, il quale mio dire a sua volta dilegua in ciò che segue. …e quindi l’effettualità medesima vale ad essa coscienza soltanto come un essere in generale, la cui universalità è un unum atque idem (lo stesso) con l’operare. Il particolare e l’universale fanno uno, sono uno e questo uno che fanno, dice a pag. 340, …è l’opera vera; e quest’ultima è la Cosa stessa che senz’altro si afferma e che vien sperimentata come ciò che ha forza di permanere, indipendentemente da quella Cosa che è l’accidentalità dell’opera individuale in quanto tale, delle circostanze, dei mezzi e dell’effettualità. Questa Cosa stessa è la parola, è l’atto di parola, che ha in sé il particolare e l’universale, ma anche l’operare, cioè il dirsi, il prodursi. Ora, ciò che permane non è ciò che io ho detto per la cosa specifica ma è il fatto che io dico, è il dire, è la parola: è questo che permane. Nella Cosa stessa, dunque, in quanto compenetrazione fattasi oggettiva dell’individualità e dell’oggettività stessa, all’autocoscienza è divenuto il suo vero concetto di sé, o essa è giunta alla consapevolezza della sua sostanza. Questa Cosa stessa, la parola, giunge alla consapevolezza della sua sostanza, cioè di ciò che essa è veramente; ed è fatta di universale e di particolare, compenetrati insieme, indisgiungibili, significante e significato. A pag. 341 (182). Onesta chiamasi quella coscienza che da una parte è pervenuta a questo idealismo, cui la cosa stessa esprime, e che, dall’altra, ha il vero nella cosa come questa universalità formale, - quella coscienza che sempre è intesa alla Cosa, che quindi si aggira nei diversi momenti o specie di questa, e che, non riuscendo a raggiungerla in un solo di essi o in un solo significato, proprio per questo se ne impossessa nell’altro momento, e così in effetto consegue sempre l’appagamento del quale questa coscienza, secondo il suo concetto, doveva divenire partecipe. Vada come vuole andare, essa ha sempre portato a compimento e sempre raggiunto la Cosa stessa, poiché questa, essendo questo universale genere di quei momenti, è predicato di tutti. Quindi, la coscienza ha sempre raggiunto la Cosa stessa, ha sempre raggiunto la parola, l’atto di parola in quanto unità dell’universale e del singolare in atto, che si sta dicendo. …la Cosa stessa è appunto, ad essa, unità della sua decisione e della realtà; la coscienza afferma che l’effettualità non sarebbe se non il suo essere in grado. A pag. 345 (187). Un’individualità (qualcuno) si accinge dunque a realizzare qualcosa; così sembra ch’essa abbia reso qualcosa una Cosa: essa agisce; nell’azione diviene per altri, e le sembra di avere a che fare con l’effettualità. Gli altri prendono dunque l’operare di quell’individualità per un interesse alla Cosa come tale e per il fine che la Cosa sia realizzata in sé, non importa se ciò sia promosso dalla prima individualità o da loro. Mentre essi così mostrano questa Cosa già da loro realizzata o, se ciò non sia, mentre offrono il loro aiuto e già vi si impegnano, ecco che quella coscienza è invece già uscita fuori dal punto in cui essi ritengono ch’ella sia; ciò che nella Cosa le interessa è il suo operare e darsi da fare, e mentre essi si accorgono che in ciò consisteva la Cosa stessa, si trovano quindi raggirati. Ma in effetto il loro accorrere in aiuto altro non era se non ch’essi volevano vedere e mostrare l’operare loro e non la Cosa stessa;… Qui Hegel sta dicendo, due secoli prima di noi, ciò che andiamo dicendo, e cioè che si parla, si opera, non per la Cosa che è in questione, ammesso che ci sia, ma unicamente per operare, cioè per parlare. Qualunque cosa si voglia dire, si voglia fare, ecc., non ha nessun altro fine se non l’operare, cioè il dire, se non continuare a dire, a affermare cose. Poiché ora è reso manifesto che il proprio darsi da fare, che il gioco delle sue forze vale per la Cosa stessa, ecco che la coscienza sembra mettere in movimento la sua essenza per sé e non per gli altri, e, preoccupata dell’operare in quanto suo e non in quanto operare negli altri, sembra anche lasciare costoro in pace nella Cosa loro. Ma essi di nuovo si sbagliano: la coscienza è già lungi dal luogo in cui opinavano ch’essa fosse. Essa non si occupa della Cosa come questa sua singola Cosa; anzi di essa come l’universale che è per tutti. S’immischia dunque nel loro fare e nell’opera loro, e, se non riesce più a levargliela di mano, se ne interessa tuttavia affaccendandosi col dar giudizi; se la coscienza imprime nell’opera il segno della sua approvazione e della sua lode, questo è inteso nel senso che nell’opera la coscienza non loda soltanto l’opera stessa, ma in pari tempo la sua propria magnanimità e discrezione consistente nel non aver guastato l’opera come opera, neppure con il proprio biasimo. Questo è interessante perché ci sta dicendo che non è la Cosa che importa ma è l’operare, cioè il dire della Cosa, è ciò che si dice. Qualunque cosa non è altro che un pretesto, un’occasione per potere affermare qualcosa, e il qualche cosa è assolutamente irrilevante. A pag. 347. …ed è Cosa soltanto come operare di tutti e di ciascuno; è l’essenza che è essenza di tutte le essenze, l’essenza spirituale. L’operare, cioè il dire, è di tutti e di ciascuno, perché ciò che sto dicendo lo sto dicendo io, sì, certo, ma è di tutti, nel senso che intanto lo dico e altri possono ascoltarlo, ma viene dal discorso di infinite altre persone che ci sono e che mi hanno preceduto nei millenni precedenti a me. Quindi, questo mio dire è tutte queste cose e non può farne a meno: sta in questo la sua universalità. Per questo motivo dice che è di tutti e di ciascuno: ciascuno dice delle cose, che sono sue, particolari, ma queste cose, che sono sue, anche non lo sono, fanno parte del mondo, direbbe Heidegger. Con ciò la Cosa stessa perde il comportamento di un predicato e la determinatezza di un’inerte universalità astratta, ed è piuttosto la sostanza permeata d’individualità; è il soggetto dove l’individualità è tanto come se stessa o come questa individualità, quanto come gli individui tutti; ed è l’universale che è un essere soltanto come questo operare di tutti e di ciascuno; è quindi un’effettualità, giacché questa coscienza la sa come effettualità sua singola e come effettualità di tutti. Il mio dire è mio e di tutti, direi necessariamente. Come abbiamo detto in altre occasioni, il linguaggio in cui mi trovo e di cui sono fatto non l’ho inventato io. A pag. 348. Capitolo b, La ragione legislatrice. L’essenza spirituale (il pensiero) nel suo semplice essere è coscienza pura ed è questa autocoscienza. La natura originariamente determinata dell’individuo (le sue caratteristiche) ha perduto il suo significato positivo di essere in sé l’elemento e il fine dell’attività di lui; essa è soltanto un momento tolto, e l’individuo è un Sé come Sé universale. Questa individualità c’è ma come elemento tolto perché diventa l’universale, diventa la parola, diventa il linguaggio. A pag. 350 (194). Ora, Hegel considera la questione etica, cioè, ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e comincia a riflettere su quali sono queste leggi etiche, se hanno un valore. Fa un esempio: “Ognuno ha il dovere di dire la verità”. In questo dovere enunciato come incondizionato viene subito ammessa la condizione: se egli sa la verità. Quindi il comando suonerà ora così: ognuno deve dire la verità, sempre a seconda della cognizione e della persuasione che egli ne ha. … Ma così l’universalmente necessario, il valevole in sé, cui la proposizione voleva esprimere, si è piuttosto invertito in una completa accidentalità. Può capitare che dica la verità come anche no. A pag. 351. … questa determinazione immediata della sostanza medesima è un contenuto tale che si mostrava piuttosto come perfetta accidentalità, e che, anzi, una volta elevato alla universalità e necessità, per modo che il sapere venga espresso come legge, dilegua. Io voglio che sia l’universale ma, una volta che lo elevo a universalità, mi accorgo che è fatto di niente, appunto perché è accidentale: che io dica la verità è un fatto totalmente accidentale. Un altro famoso comando è: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Andiamo direttamente alle conclusioni a pag. 352. Quell’agire per la prosperità degli altri, che viene enunciato come necessario,… Qui sta riflettendo su quelle leggi etiche che si configurano come necessarie, universali, e ci sta dicendo che non è affatto così. …è dunque così costituito che può forse esistere e forse no; che può, se l’occasione eventualmente si offra, essere un’opera, forse buona e forse no. Con ciò questa legge è tanto poco un contenuto universale, quanto la prima già considerata, e non esprime, - come invece, in quanto assoluta legge etica, dovrebbe, - qualcosa di in sé e per sé. Ossia tali leggi si arrestano al dovere, ma non hanno effettualità alcuna; esse non sono leggi, ma solo comandi. A pag. 353. Così l’essenza etica non è essa stessa immediatamente un contenuto, ma solo una misura per stabilire se un contenuto sia capace di essere legge oppure no, quand’esso non contraddica a se stesso. La ragione legislatrice è abbassata a una ragione soltanto esaminatrice. Ci dice che, considerato che di fatto queste leggi etiche non hanno nessun valore, l’unica cosa che possiamo considerare è se ciascuna di queste leggi è autocontraddittoria oppure no, cioè se è coerente oppure no. Tutto qui. Capitolo c, La ragione esaminatrice delle leggi. Andiamo a pag. 355. Qui parla della proprietà e si chiede se la proprietà sussista oppure no, deve cioè considerare se questo concetto di proprietà è autocontraddittorio oppure no. Siamo passati dalla legge, che voleva essere universale, e la legge etica, che voleva essere universale ma che universale non è, al considerare se una certa legge è almeno coerente, cioè, non è autocontraddittoria, e considera la questione della proprietà. A pag. 355 (200). Sia la questione: se debba essere legge in sé e per sé che la proprietà sussista; in sé e per sé, non perché giova ad altri fini; l’essenza etica consiste appunto in questo: che la legge sia eguale solo a se stessa, e che per questa eguaglianza con sé, fondata quindi nella sua propria essenza, non sia condizionata. A pag. 356. Nella comunanza dei beni, nella quale si provveda a ciò in modo universale e stabile, o ciascuno diviene partecipe di tanto di quanto ha bisogno, e allora questa ineguaglianza e l’essenza della coscienza a cui è principio l’eguaglianza dei singoli, si contraddicono reciprocamente;… In questa comunanza dei beni, se noi provvediamo in modo stabile, unitario, o ciascuno diviene partecipe di quanto ha bisogno, oppure distribuiamo egualmente, ma se diamo a ciascuno secondo il suo bisogno allora non è più eguale per tutti. Se, invece, facciamo per tutti allora ci troviamo di nuovo di fronte a una ineguaglianza perché c’è chi ha più bisogno e chi meno: un conto è dare mille euro a un poveretto, un conto è dare mille euro a uno ricchissimo che non sa cosa farsene. Quindi, la proprietà, secondo Hegel, ci appare contraddittoria. A pag. 357 (202). …il resultato sembra essere questo: che non si possa far luogo né a leggi determinate, né a un sapere di esse. Non ci sono leggi determinate, perché abbiamo visto che risultano vuote, né un sapere di esse, perché un sapere presuppone la non contraddittorietà, cioè la coerenza; solo allora so di questa cosa, se è coerente, se non si contraddice da sé. Solo, la sostanza è la coscienza di sé come essenzialità assoluta;… La coscienza che sa di essere essenzialità assoluta, cioè come la cosa più importante. …coscienza la quale, con ciò, non può spogliarsi né della differenza (insita) nell’essenzialità assoluta, né del sapere di questa differenza. Che il legiferare e l’esaminar leggi si siano dimostrati come nulli significa che entrambi, presi ciascuno singolarmente e isolatamente, sono soltanto momenti precari della coscienza etica; e il movimento nel quale essi sorgono ha il senso formale che la sostanza etica, attraverso questo movimento, si presenta come coscienza. Ci sta dicendo, come spesso è accaduto in questo libro, cose che poi Severino riprende, che se tengo separate le due cose, i due momenti, non vado da nessuna parte. Le leggi, poste come leggi etiche, si rivelano inconsistenti, nulle; non solo, ma se cerco di appuntarmi alla loro coerenza, mi accorgo che non sono nemmeno coerenti. E, allora, che fare? A pag. 358. La legge, in quanto legge determinata, ha un contenuto accidentale,… Lo abbiamo visto con l’esempio “Devi dire sempre la verità”. È accidentale, cioè, può capitare. …il che vuol qui dire che essa è legge di una singola coscienza di contenuto arbitrario. Quell’immediato legiferare è così la temerità tirannica che eleva a legge l’arbitrio, e riduce l’eticità a un’obbedienza ad esso, cioè a leggi che sono soltanto leggi e non anche comandi. Questo per quanto riguarda le leggi etiche: quello che io penso deve essere legge per tutti. È una modalità tirannica. Allo stesso modo, il secondo momento, in quanto esso è isolato, significa l’esaminar leggi, il muovere l’inamovibile e la temerità del sapere la quale, a forza di raziocini, si svincola dalle leggi assolute e le prende per un arbitrio a lei estraneo. Qui la questione se le leggi siano autocontraddittorie oppure no, dice Hegel, pone un problema, perché se mi metto a esaminare queste leggi… dice il muovere l’inamovibile e la temerità del sapere, come se avesse visto in queste leggi, in questa posizione etica, qualcosa di inamovibile. Adesso ci dirà perché è inamovibile. A pag. 358 (206). …in primo luogo, l’essenza spirituale (il sapere del popolo) è per l’autocoscienza come legge che è in sé; l’universalità dell’esaminare, universalità formale che non era in sé essente, è tolta. Questa universalità formale che non è in sé: se io pongo una legge come non contraddittoria, non sto dicendo niente di quella legge, pongo soltanto formalmente che è incontraddittoria. Va bene, però che ne facciamo? Quindi, questa universalità formale, che non era in sé, non aveva valore in sé, aveva valore soltanto all’interno, potremmo dire, di quel gioco linguistico. Quindi, è tolta. E, in secondo luogo, è una legge eterna che non ha il suo fondamento nel volere di questo individuo; anzi è in e per sé; è l’assoluto, puro volere di tutti che ha la forma dell’essere immediato. Questo puro volere non è affatto un comandamento che solo debba essere; anzi esso è e vale; è l’Io universale della categoria, che è immediatamente l’effettualità; e il mondo è soltanto questa effettualità. Ma dacché questa legge nell’elemento dell’essere vale senz’altro, l’ubbidienza dell’autocoscienza non è il servizio prestato a un padrone i cui ordini sarebbero un arbitrio e dove l’autocoscienza non si riconosca. Anzi le leggi sono pensieri della sua coscienza assoluta, pensieri che essa stessa ha immediatamente; non già ch’essa creda a loro, perché la fede considera certo anche l’essenza, ma un’essenza estranea. Mediante l’universalità del suo Sé l’autocoscienza etica fa immediatamente uno con l’essenza; la fede, al contrario, comincia dalla coscienza singola ed è il movimento di questa coscienza medesima tendente sempre ad andare verso tale unità, senza raggiungere la presenzialità di un’essenza. La fede non raggiunge mai la verità, il suo obiettivo. Quella coscienza, invece, ha tolto come sé singola; questa mediazione è compiuta; e solo perché è compiuta, quella coscienza è immediata autocoscienza della sostanza etica. Cita dall’Antigone di Sofocle

Non oggi né ieri ma sempre

Esso vive, e nessuno sa quando sia apparso.

Esse sono. Le leggi etiche. Ma che cosa vuol dire che esse sono? Il discorso di Hegel è abbastanza chiaro, e cioè l’etica non è altro che il mio sapere di tutto ciò che è giusto, da sempre, per gli umani. L’etica non ha un valore al di fuori di questo processo che l’ha fatta diventare nel corso dei millenni quella che è: io mi trovo ad avere dietro alle spalle tutto il lavoro che è stato fatto da parte di tutti coloro che mi hanno preceduto e che hanno mano a mano stabilito ciò che è etico, e mi trovo ad avere a che fare con questo. È per questo che è immediato per me: perché fa parte del linguaggio, quindi fa parte di me. Anche questa etica è sempre il risultato dell’operare di tutti e di ciascuno, che poi porta al sapere assoluto, che è quel sapere che non può non sapere di tutto ciò, che io sono il risultato, non solo di millenni di storia, ma anche di tutto ciò che io dico. È il singolare che esiste perché c’è l’universale, e l’universale, il tutti, esiste perché esisto io. È questo il pensiero innovativo di Hegel, anche riguardo all’etica, cioè, io contribuisco all’etica nel senso che affermando le cose che affermo, quindi, pensandole vere, giuste, ecc., do in qualche modo un contributo all’etica di tutti. Questi passaggi sono importanti perché mostrano il pensiero di Hegel, che non è un pensiero astratto, ma è quanto di più concreto possa pensarsi. Io sono quello che sono in virtù del fatto che ciò che dico è il risultato di ciò che è stato detto da migliaia di anni: il linguaggio non l’ho inventato io, mi ci sono trovato. E questo linguaggio è vecchio di quanto? Cosa è accaduto in queste migliaia, decine, forse centinaia di migliaia di anni? Non lo sappiamo. Una continua evoluzione, un continuo trasmutarsi; quindi, in ogni parola, in ogni opera – la parola è l’opera, per antonomasia – in ogni opera c’è il lavoro mio e di tutti, simultaneamente. La sintesi, l’integrazione di questi due momenti, ché non sono entità separate, è il sapere assoluto: quando so questo, e non posso non saperlo, ho il sapere assoluto, cioè, so tutto ciò che è da sapere, non c’è altro da sapere. Non c’è altro da sapere se non questo, e cioè che io so l’opera che faccio. Era questo che ci stava dicendo prima: che tutta la realtà non è altro che l’opera che io faccio. È questa la realtà, non ce n’è un’altra. E, quindi, a questo punto, torno a dire, io so tutto ciò che è da sapere, il mio sapere assoluto, non c’è altro fuori da questo, non c’è altro fuori dal linguaggio. Se io so del linguaggio, se io so che sono linguaggio, con tutto ciò che questo comporta, io ho il sapere assoluto, perché fuori da questo non c’è altro, non solo non c’è altro ma non c’è nemmeno la possibilità di un sapere al di fuori di questo.

Intervento: Questa ultima parte dà un senso a tante cose presedenti…

Questa è la caratteristica di Hegel, che alla fine si arriva a capire tutte quelle cose che prima apparivano ostiche. Lui lo dice in alcune occasioni che l’ultimo elemento è il primo, che senza questo primo non si arriva all’ultimo e che senza l’ultimo non c’è neanche il primo. Questa è proprio l’architettura della Fenomenologia dello spirito: lui, nel suo scrivere, ha messo in atto ciò stesso di cui stava parlando. Tra l’altro è curioso il fatto che ha scritto la Fenomenologia nel 1807 e, mentre le scriveva, man mano dava le cose scritte da licenziare alla stampa. Due secoli fa aveva detto l’essenziale, e cioè che non c’è nessun’altra cosa al di fuori dell’opera. L’opera è la realtà, è il tutto, è l’intero, direbbe Severino; è l’intero perché contiene in sé tutti i momenti, del particolare e dell’universale e dell’operare di questi, simultaneamente, per integrazione o per superamento, Aufhebung, direbbe Hegel. Due secoli fa diceva già questo, ma non è stato inteso granché a questo riguardo; soprattutto non è stata intesa questa cosa, che ho ritenuto importante, e cioè il fatto che si parla, non per la cosa, ma si parla per parlare. È questo che è in gioco: soltanto il dire, il potere affermare cose; la cosa in sé non interessa a nessuno. È soltanto la necessità di parlare, di affermare: è questo che importa, tutto il resto è irrilevante. La cosa stessa, come la chiama lui, è la parola; descrive la cosa stessa esattamente come la parola, cioè il singolare e l’universale che si compenetrano in atto, e che cos’è tutto ciò? È la parola.