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9 settembre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al paragrafo 8. Logica e relazione. L’affermazione che il pensiero è il divenire dell’autocreazione e che in essa il pensiero crea sé come creazione del mondo, cioè come incessante creazione e annullamento di se stesso – l’affermazione cioè che l’unità evidente e certa di essere e di non essere ha il duplice senso indicato nel paragrafo 6 – costituisce il centro della “logica del concreto”. Qui sta distinguendo tra la logica del concreto e la logica dell’astratto. La quale è la dimensione in cui si sviluppa la “logica dell’astratto”. Questo è sempre presente in Gentile, ma viene da Hegel, evidentemente, e cioè il concreto necessita dell’astratto e l’astratto necessita del concreto, sono due momenti dello stesso. “La logica dell’astratto è la logica del pensiero astratto (cioè del pensiero come “momento” del tutto in cui consiste il pensiero concreto), ossia del pensiero in quanto oggetto a se stesso, considerato nel momento astratto della sua oggettività (considerato cioè come oggettività e quindi come “momento”, che essendo parte è astratto), e rinnovante nel pensiero la posizione dell’essere, che è puro essere”. Se io penso il concreto non posso pensarlo che astrattamente; posso pensarlo perché c’è il concreto, ma se lo penso lo penso astrattamente, cioè, lo determino. …la logica dell’astratto – consiste appunto in questo, che il puro essere non può riuscire a essere identico a sé perché (in quanto esterno al pensiero) non può essere relazione e divenire, mentre il concetto, essendo pensiero (sebbene astratto), riesce ad essere, ed è effettivamente identico con se stesso. Quindi, è inutile pensare a qualcosa fuori dal linguaggio. “Differenza che si può schematicamente fissare, dicendo che l’essere (naturale) è A, e il concetto, invece, o essere pensato, è A=A …, che è la sola vera identità”. Dove il testo lascia chiaramente intendere che se è impossibile che il puro essere sia divenire, invece l’“essere pensato” (pensiero astratto, concetto) “riesce ad essere, ed è effettivamente” divenire. Sta dicendo qui che la A da sola non esiste, ma ha bisogno per esistere di essere un concetto, e quindi di essere A=A. L’essere naturale, come dice Gentile, sarebbe la prima A della relazione, ma questa prima A della relazione non c’è senza il concetto, cioè se non è presa nella dialettica. Cosa che tra l’altro anche Peirce aveva inteso molto bene: gli elementi di una relazione esistono nella relazione, da soli non esistono. Gentile porta quella tesi alla sua formulazione più rigorosa, derivandone l’essenza dal metodo hegeliano. Nel primo “momento” del quale, infatti, l’“intelletto” isola astrattamente la “determinazione” (sì che essa, così isolata, corrisponde al puro essere gentiliano); e la determinazione isolata “si contraddice” (secondo momento del metodo) e “passa nell’opposto” (diventa altro, che è opposto anche quando il passare è un circolo che ritorna al punto di partenza); dove questo passare è l’instaurazione essenziale della relazione. La relazione si produce nel passare in altro, cioè nel divenire. È divenire. Il divenire è relazione, nient’altro che questo. Certo, se per Hegel il divenire, e dunque la relazione, è la conseguenza dell’isolamento delle determinazioni, invece per Gentile esse, in quanto isolate, quindi isolate dal pensiero, sono un che di immediato e di statico, il loro isolamento non può cioè produrre alcuna relazione – e la relazione è il pensare, il pensare che è già presente nel “pensiero astratto” considerato dalla logica dell’astratto. A me non pare che per Hegel il divenire, e dunque la relazione, è la conseguenza dell’isolamento delle determinazioni: se sono isolate anche per Hegel non c’è nessuna relazione, deve esserci qualcosa che le mette in relazione, ovviamente. Paragrafo 9. Relazione e divenire. D’altra parte A=A è “rapporto originario”, che esclude un “A non ancora integrato nel rapporto A=A”… Come dicevamo prima, la A da sola non esiste. …giacché A non ancora integrato è il puro essere naturale, che quindi non può appartenere a tale rapporto (e questo dar risalto alla differenza tra A e A=A è uno dei motivi per cui Gentile, come si diceva nel paragrafo precedente, lascia sullo sfondo l’identità di relazione e divenire). Qui verrebbe da pensare che Hegel fosse più avanti: A=A, sì, va bene, però per lui, per via dell’Aufhebung, A=(A e non-A), e non A=A. Ma, daccapo osserviamo, se la relazione A=A non fosse divenire, come potrebbe essere, tale relazione, “pensiero in quanto oggetto a se stesso”, “pensiero pensato”? visto che soltanto l’atto del pensiero può essere divenire, ciò che non è divenire (come appunto sarebbe un A=A che non fosse risultato di un divenire) non tornerebbe a costituirsi come puro essere presupposto al pensiero? Sì, certo, se pongo A=A fuori dal divenire, è chiaro che lo pongo come un presupposto fuori dal pensiero, perché non è più un concetto. La risposta di Gentile sta nel concetto di “circolo”, che sta al centro della logica dell’astratto. A=A è un ritornare a sé, dove il “sé” si costituisce nel punto di incontro tra l’inizio e la fine del circolo: “l’essere in tanto è pensato” (cioè può essere oggetto del pensiero), “in quanto … ragguagliandosi a se stesso si differenzia tuttavia da se stesso”. È il movimento che indicavamo tempo fa come la spirale, cioè torna su se stesso ma spostato, non è più lo stesso. Sennonché – osserviamo – il “ragguagliarsi” è il chiudersi del circolo in A=A; ma proprio per questo il chiudersi è risultato di un “differenziarsi”, ossia di un divenire. Tale “differenziarsi” non può essere che l’uscire da un A che è soltanto A e non ancora A=A, per tornare ad A realizzando se stesso. Mentre abbiamo visto che la A, fuori da A=A, cioè da A come concetto, non c’è. Questa è l’obiezione che fa Severino. Questo circolo non va confuso con il circolo costituito dalla “negatività originaria” di cui parla nel paragrafo 6, ossia dall’atto di autocreazione del pensiero. Il circolo dell’autocreazione, toccando il proprio inizio, si pone come produzione, cioè pensiero dell’essere, che in quanto “oggetto del pensiero” è quell’“essere identico a se stesso”, quell’A=A che è circolo nell’altro senso, peraltro complementare, cioè nel senso del “ragguagliarsi a se stesso”. Ma proprio perché l’attualismo richiede che la relazione sia divenire, l’attualismo va incontro a un’antinomia di fondo. Infatti, l’A che è il punto di partenza del circolo non è forse daccapo il puro essere che il realismo presuppone al pensiero? Qui è la questione del punto di partenza: da dove incomincia? Dalla A, certo, ma sappiamo che la prima A non c’è senza la seconda A. Se si nega che la relazione sia divenire, essa si presenta come puro essere presupposto;… Se io tolgo questa A dal divenire e la lascio lì da sola, è una presupposizione, perché rimane fuori dal concetto. …ma se si afferma che la relazione sia divenire, il divenire procede da un inizio che, in quanto distinto dal risultato, è a sua volta puro essere presupposto al pensiero –… Se io affermo che la relazione sia divenire allora questo divenire procede da un inizio, differente dal risultato. …non essendoci pensiero prima della relazione e soltanto il pensiero essendo relazione. Il problema rimane aperto. Rimane aperto a condizione di immaginare questo processo fuori del linguaggio. Solo così c’è la domanda e la ricerca del punto di partenza, dell’origine, del fondamento, cioè di qualche cosa che garantisca tutto quanto, che sorregga tutto. In effetti, pensato fuori dal linguaggio, il problema rimane aperto, ma rimane aperto perché fuori dal linguaggio non ha nessuna soluzione. Ma se noi, invece, consideriamo che questo cominciamento non sia nient’altro che l’essere già da sempre nel linguaggio, ecco che allora questa A non posso isolarla dal concetto, perché se io la penso in un modo qualunque – e qui ci rifacciamo alle pagine precedenti – se quindi la penso astrattamente, la posso pensare astrattamente perché c’è il concreto, perché sono nel linguaggio. Pensandola astrattamente, certo, la isolo, ma posso isolarla perché sono nel concreto, perché sono nel linguaggio. Quindi, posso dire che questa A è il primum movens perché sono nel linguaggio, cioè non è un immediato ma è sempre e comunque un mediato dal linguaggio: se lo penso in qualunque modo, anche il più astratto immaginabile, comunque è nel linguaggio. Quindi, la A non può assolutamente essere fuori dal pensiero, come vorrebbe Severino con la sua critica a Gentile, ponendo la necessità di un primo, che quindi è fuori della relazione. È la questione che poneva già Peirce nella relazione A è B: certo, la A è il primo, ma è il primo perché c’è il secondo; se io tolgo il secondo, tolgo anche il primo; ed è questo il problema, che non c’è più il primo. È questo che sfugge, ma sfugge perché se si considera il tutto come una elucubrazione che non tiene conto del linguaggio, allora, sì, certo, il problema non solo rimane aperto ma non ha nessuna soluzione.

Intervento: …

Esatto. Una res cogitans che pensa e una res estensa che sta lì. Due momenti, ma non dello stesso, come ha pensato Hegel, ma come due separati. Con la piena valorizzazione della logica aristotelica, Gentile coglie il senso autentico di tale logica e del suo principio. In Aristotele, infatti, il “principio fermissimo” (principio di non contraddizione), come principio dell’ente in quanto ente, è innanzitutto principio della realtà diveniente (certamente disposto ad esserlo anche della realtà immutabile), ossia è il principio, innanzitutto, di un A che è sì, necessariamente, A=A, ma è A=A sino a che A, divenendo, non è più e diventa non-A – dove è la stessa identità di A con sé a non esser più e a diventare altro da sé, e l’identità permane come identità degli altri enti B, C, D … che continuano ad essere (fino a che non giungerà il loro turno) quando A non è più. Qui c’è una questione che va ripresa, perché per Hegel non è proprio così, perché per lui A è uguale ad A e non-A. Se io tolgo l’Aufhebung, certo, la A rimane uguale a A finché la A rimane A, immaginando, come dicevamo prima, che la A sia fuori del linguaggio, cioè sia un ente a sé stante, quindi, fuori dal linguaggio. Solo così posso pensarlo come qualcosa di identico, di immutabile, qualcosa che è necessariamente A. Ma se, come dicevamo prima, lo pensiamo nel linguaggio, allora dire che A=A non significa nient’altro che A, in quanto la pongo e proprio perché la pongo, è nel linguaggio, e dicendo A=A dico che è uguale a se stessa, ma anche non lo è, perché per essere A è necessario che sia anche non-A, e cioè che sia la negazione di ciò che non è. Rifacendoci ora alle considerazioni svolte nel paragrafo 6 intorno alla logica del concreto, e riproponendo quanto si è osservato qui sopra sul rapporto tra il circolo della “negatività” originaria e il circolo dell’identità (A=A), il rapporto tra il contenuto della logica del concreto e di quella dell’astratto può essere indicato nel modo seguente. Da un lato, il divenire dell’atto del pensiero, che avendo coscienza di sé si crea (ed è la stessa autocreazione della realtà), è un circolo che, giungendo a sé, pensa il pensato (la realtà del mondo) come pensato da sé, atto pensante, ossia pensa sé come pensante la realtà del mondo; e tale realtà. In quanto pensata, è determinata, ossia è pensata secondo quell’altro circolo – il circolo della logica dell’astratto – che è la regola, cioè il principio della determinatezza della realtà del mondo. Per potere pensare il concreto devo pensarlo astrattamente; non posso separare il concreto dall’astratto: entrambi sono due momenti dello stesso. Dall’altro lato, la determinatezza di tale realtà… Cioè, l’astratto. …è determinatezza della realtà diveniente, storica, spazio-temporale, in cui anche il mondo consiste. Sì che il divenire, in quanto unità di essere e non essere, in cui l’autocoscienza consiste (e questo è il primo dei due lati indicati), è, insieme, il divenire di quell’unità di essere e non essere nella quale consiste la storia, la dimensione spazio-temporale del mondo (e questo è il secondo lato), e di cui si è detto che, evocato per la prima volta dal pensiero greco, va dislocandosi via via, lungo la storia del sapere filosofico, in modi diversi (il divenire, inteso come realtà indipendente dal pensiero, come fenomeno, come pensiero, come linguaggio), fino a trovare la propria collocazione adeguata nell’attualismo, che pone il divenire come atto del pensiero attuale. Paragrafo 11. La società trascendentale. Si dice ad esempio, in quest’ultima opera: “Nessuno penserà mai, nell’atto di pensare qualche cosa, che si possa pensare che il suo non sia il pensiero vero: quello che prima o poi tutti accetteranno perché pensato bensì da lui, ma da lui fedele interprete di tutti” (Genesi e struttura della società, cap. II, par. 5). Anche la seconda parte di questa frase dipende da quel “nessuno penserà mai”: nessuno pensa, nell’atto di pensare qualcosa, che quel che egli pensa non sia ciò che è capace di essere accettato da tutti; e sia accettato non perché è lui a pensarlo, ma perché egli sente che esso ha questa capacità – “nessuno può sentire altrimenti, nonostante tutti gli errori ond’è cosparsa la storia delle umane asserzioni” (e nonostante “i problemi in cui può essere impegnata la sua vita, o quella del suo popolo, o quella di tutta l’umanità”). L’uomo è cioè sempre convinto, nell’atto in cui pensa e agisce, di pensare il vero e di compiere il bene, giacché anche quando, compiendo qualcosa, proverà rimorso, è convinto che il bene che sta per ottenere è superiore a quello che egli ha rimorso di non compiere. Nell’atto di pensare (o di fare, che in quanto umano è sempre un pensare) l’uomo – ogni uomo – è cioè convinto di pensare il vero; ma in verità (cioè secondo la verità innegabile della coscienza attualistica dello spirito) egli ha fede di pensare la verità. ha soltanto fede, che sarà superata da altre forme di fede. Un teorema, anche questo, troppo spesso dimenticato dalla cultura filosofica. Sta dicendo che la verità è una fede. In effetti, la verità è il prodotto di una serie di considerazioni, di argomentazioni fatte di sillogismi formali. Ora, sappiamo del sillogismo formale. Mendelson, senza saperlo, senza volerlo, è stato chiarissimo a questo proposito: il sillogismo formale non può garantire niente, non può nemmeno garantire se stesso. La deduzione non può dire di se stessa nemmeno di essere vera, non può garantirlo perché deve ricorrere a qualche cos’altro che non è lei. Questo qualcos’altro, che è l’induzione, ha bisogno della deduzione per essere garantito. Il teorema, quest’ultima formula valida di una proposizione, non garantisce nient’altro se non che è un teorema, ma non garantisce nessuna verità, in nessun modo. Non è possibile garantire nessuna verità al di fuori del gioco che si sta facendo e dalle regole che si stanno seguendo. Quella cosa che gli umani chiamano verità è una fede, garantita da niente e da nessuno. Ciò nondimeno, quando qualcuno pensa, quando pensa, pensa che ciò che pensa sia vero. D’altra parte Gentile scrive anche: “La verità allora (cioè per il fatto che nell’atto di pensare si è sempre convinti di pensare il vero) non è verità per quel certo contenuto che a volta a volta essa ha: qualunque ne sia il contenuto, essa ha certa forma per cui nell’atto del pensarla il pensiero non può pensarla che universalmente vera”. Però questa stessa affermazione di Gentile non intende avere un contenuto qualunque, non intende essere la semplice fede che le cose stiano come essa dice che stanno, ma intende escludere come falsa la propria negazione. Così come l’attualismo non è la semplice fede in un certo contenuto, ma esclude, in base a una certa fondazione, il presupposto realistico e ogni affermazione di realtà immutabili. Ci sta dicendo, e questa è la critica che fa a Gentile, che non ha un contenuto qualunque, non tende a essere una fede che le cose stiano così; no, dice Severino, Gentile pensa davvero di dire la verità, e cioè che qualunque affermazione contraria sia falsa. Che è esattamente ciò che sta facendo Severino rispetto a Gentile. E mentre io critico Severino, che critica Gentile, Cesare può muovere le stesse obiezioni a me che critico Severino mentre critica Gentile, e così via all’infinito. Questo per dire che le cose sono più complicate di quanto alle volte appaiano. Severino in fondo sta dicendo che Gentile sta utilizzando dei sillogismi formali. È vero, ma anche lui sta facendo la stessa cosa. Come posso non utilizzare un sillogismo formale? Ma se poi, dopo avere utilizzato un sillogismo formale, immagino che quel sillogismo mi porti alla verità, allora lì il discorso cambia. Sostenendo tutto questo, gentile non intende affatto trascendere l’Io intrascendibile e affermare come verità assoluta e innegabile l’esistenza di una molteplicità di coscienze che non si manifestano nell’esperienza. Affermare qualcosa al di là dell’unità dell’esperienza significa infatti, si è visto, rendere impossibile il divenire, peraltro evidente, dell’esperienza stessa. Se c’è qualcosa al di là dell’esperienza, è qualcosa che io non posso pensare. La quale d’altronde, rileva Gentile, mostra l’esistenza della convinzione di parlare agli altri e innanzitutto a se stessi: mostra, diciamo, la fede nell’esistenza di tale convinzione: “chi apre bocca, osa farlo nella fiducia di un consentimento, che potrà tardare, ma non mancare”. Sta enunciando delle fantasie, non delle verità. Tale fiducia è, appunto, fede. Aggiungiamo che, per l’attualismo, anche l’esistenza di tale consentimento non può essere che il contenuto di una fede. (Tale fiducia, si potrebbe aggiungere, sussiste anche quando non si apre bocca e si parla a se stessi lottando dentro di noi in base a opposte convinzioni che credono entrambe di essere portavoce del parlare altrui, ossia di tutti gli altri esseri umani). Questa è una fantasia e sarà interessante vedere come Gentile la esplorerà. Pertanto, “in fondo all’Io c’è un Noi, che è la comunità a cui egli appartiene”, e che è la “legge” dell’esistenza di ciascuno: vox populi (che è vox Dei, nel senso che è voce che va facendosi voce di Dio. L’“Io” (stranamente scritto con la maiuscola) che “appartiene” alla comunità, essendo l’io empirico non può essere l’“Io trascendentale e intrascendibile: è trasceso dal Noi. Ma nemmeno questo Noi che è la comunità a cui l’“Io” “appartiene” può essere una realtà che trascenda l’Io intrascendibile. Questa fantasia, per cui quello che io penso è vero e che tutti quanti, se sono in buona fede e sani di mente, dovrebbero pensare, manifesta la volontà di potenza. Ciò che io penso è necessariamente vero perché lo penso come un universale, non come qualcosa che penso io, ma come universale: se lo penso è necessariamente universale, cioè, è vero per tutti. D’altra parte, questo Noi è contenuto dell’esperienza, e quindi è innegabile, solo in quanto è il Noi, la comunità a cui “ciascuno” crede (ha fede) di appartenere, e che è la “legge” di ciascuno in quanto ciascuno crede che la vox populi esista e sia la vox Dei che egli, nell’atto del pensare e del fare, ha “fiducia” di seguire (“onde ognuno dice la parola, che, nel pronunciarla, egli sente di dover dire, e compie l’atto che nel suo compiersi è da lui avvertito come una legge che è legge per lui in quanto è (ossia egli sente come) legge per tutti”). Non mi viene mai in mente che quello che io ritengo vero sia vero soltanto per me, perché se fosse vero soltanto per me sarebbe poca cosa. Lo penso vero perché ho fede che sia vero per tutti, e questo lo pensa ciascuno, ovviamente. Da qui qualche problema nelle relazioni. Giacché l’esperienza, quale può essere intesa dall’attualismo, mostra sì che anche il mio io è problematico come o sono “gli altri”, un problema che viene continuamente superato e che continuamente si ripresenta – e questo è l’incessante divenire della società (sottolineato anche in Genesi struttura), che compone i conflitti tra gli uomini e di continuo li riapre. Il conflitto si sana nel momento in cui mi accorgo che anche gli altri sono problematici, hanno opinioni differenti e, quindi, c’è la possibilità di trovare un punto d’intesa, ma poi questo si scontra con il fatto che quello che io penso è universale. Il conflitto si “risolve” (tra virgolette perché non è mai risolto) nel momento in cui penso che l’altro prima o poi possa ragionare e, quindi, pensare come penso io. Quando mi accorgo che non è così, ecco il conflitto, come in genere accade. Ciononostante, il mio esser io si presenta con una “interiorità” (“psichismo”, “coscienza”) che gli altri non mostrano e che, certo, io “attribuisco” anche agli altri, ma, appunto credo, ho fede, “fiducia” che sia posseduta anche da essi, e credo che questa “attribuzione” sia verità. È questo il problema, cioè il fatto di avere fede che altri pensino in un certo modo, avere fede che comunque abbiano una coscienza; che ce l’abbiano oppure no, io ho fede che sia così, così come ho fede che, per dire una cosa molto banale, quando gli parlo il mio cane mi capisca. Credo che sia così: questa la potenza della fede, cioè, la volontà che le cose siano come io credo che siano. Ma, appunto, è del mio io che l’esperienza attesta che esso è così fiducioso, non degli altri. Che parlano, certo, e in modo che io posso credere che anch’essi siano convinti di pensare la verità; ma questo loro esser convinti non si presenta nell’esperienza così come si presenta il mio esser convinto: è qualcosa che trascende l’esperienza. Io posso avere fede che gli altri pensano, ma è diverso dal modo in cui io esperisco il mio pensare, da come ho fede che altri possano farlo. Io non esperisco il loro pensiero. Come diceva Wittgenstein: io non sento il mal di denti che ha un’altra persona; posso immaginarlo, ma non lo sento. La fiducia che compete al mio esser io empirico sembra venire estesa da Gentile a “ciascuno”… Da dove viene questa idea della verità, che quello che io penso sia vero? Questo sfugge tanto a Severino quanto a Gentile: viene dal fatto che ho la certezza che parlando sto dicendo. Questo è ciò esperisco, è il mio dire che esperisco. Questo è vero – certo, poi lo estendo a ciò che il mio dire vuole determinare – ma ciò da cui muove è che è vero che io sto parlando, è vero che sto pensando: è questo che dice la mia esperienza, è questo ciò che io esperisco. È vero, è innegabile che sto parlando, e quindi sto pensando, certo; ma l’idea che ciò che io penso sia vero viene dal fatto che io sono certo, mentre penso, di pensare, o, mentre parlo, di parlare. La fiducia che compete al mio esser io empirico sembra venire estesa da Gentile a “ciascuno” di coloro che io credo uomini come me, quando egli scrive, appunto, che “nessuno penserà mai, nell’atto di pensare qualche cosa, che si possa pensare che il suo non sia il pensiero vero” e che “ciascuno”, nell’atto del pensare, pensa di esprimere la vox populi che è vox Dei. Questo io non lo esperisco, non ho esperienza di questo direttamente, io ho esperienza di ciò che dico, di ciò che penso, ma non di ciò che altri pensano. Posso avere fede che gli altri pensino, posso immaginare varie cose, ma non ho esperienza del loro pensiero. Paragrafo 14, Nuovo umanesimo e legge dell’uomo. Qui c’è una questione. Che cosa sia destinato a perdurare dell’“esperimento” fascista, lo si comprende meglio tenendo presente quel “costume” e quegli “interessi”, dei quali lo Stato dev’essere “rappresentanza organica”. Essi sono i diversi modi in cui un popolo trasforma e va creando il proprio mondo: la trasformazione creatrice in cui consiste il “lavoro”: “La creazione della grande industria e l’avanzata del lavoratore, nella scena della grande storia, ha modificato profondamente il concetto moderno della cultura” e all’“umanesimo della cultura” succede l’“umanesimo del lavoro”. Qui è Gentile, ma anche Marx. Che è lavoro differenziato, cioè di “corporazioni”, dove “lavoratori” sono sia i cosiddetti “uomini di cultura” nel senso del vecchio umanesimo, sia quelli che trasformano la natura con le proprie mani e con le macchine. “Nessun dubbio che i moti sociali e paralleli moti socialisti del secolo XIX abbiano creato questo nuovo umanesimo la cui instaurazione come attualità e concretezza politica è l’opera e il compito del nostro secolo”, ossia ciò che per Gentile è e deve essere il “fascismo”, per fare avanzare la “liberazione dell’uomo”, ossia l’incremento della potenza della volontà, le cui forme empiriche “si risolvono” (sono da concepire) nella volontà trascendentale dell’autocoscienza. Questo è importante, anche perché qui si separa da Marx. L’incremento della potenza della volontà o volontà di potenza, per cui per Gentile è il ciascuno che, incrementando la sua volontà di potenza, diventa libero. Adesso vedremo come, mentre sappiamo che per Marx non è così, ma è l’unità dei lavoratori a fornire la libertà. Il “fascismo” è lo Stato in cui la “creazione della grande industria” e l’“avanzata del lavoratore” danno vita al nuovo “umanesimo del lavoro”. Ciò significa che, quello presente, è il tempo della tecnica. Anche se Gentile non lo dice esplicitamente, l’atto trascendentale dell’attualismo è la tecnica originaria dove il processo di creazione-distruzione della realtà – ossia l’unità di essere e di non essere – raggiunge la sua configurazione più rigorosa. Per Gentile la tecnica è la via della liberazione. Liberazione da che cosa? Potremmo dire, liberazione dall’idea dell’astratto dell’astratto, e cioè il riprendere possesso del concreto, in definitiva, del linguaggio. Riferendosi alla “scena della grande storia” e al “compito del nostro secolo”, allo Stato che è “Stato dei lavoratori” e non più “del cittadino” – (siamo tornati a Marx) ossi non più lo Stato storicamente limitato di un certo popolo e non di un altro (Siamo sempre con Marx) –, Gentile pensa al carattere planetario della creazione-distruzione della realtà. E qui ci allontaniamo da Marx. All’interno del contenuto dell’atto trascendentale, tale creazione ha la propria forma più avanzata nella “creazione della grande industria”, che pertanto è la forma più avanzata della “liberazione dell’uomo”. Qui siamo ben lontani da Marx. Gentile chiama “umanesimo” questa liberazione, perché essa è il processo di “spiritualizzazione” dove la volontà dell’Io trascendentale, in quanto unito al proprio contenuto, nega ogni risultato raggiunto. Per Gentile ogni risultato raggiunto non è altro che un trampolino per andare oltre, mentre per Marx l’obiettivo finale è statico. Non è casuale che Marx anteponga la prassi alla teoria, cioè il fare concretamente; un fare che deve concludersi, la dico in modo banale, con il potere degli operai, che potranno usufruire di tutto ciò che il padrone nega loro. Il nuovo umanesimo a cui pensa l’attualismo è cioè l’unità dell’uomo tecnico-lavoratore e del pensiero filosofico che mostra l’impossibilità di ogni Limite assoluto all’infinita “liberazione dell’uomo”. La suprema legge etica fonda la liberazione tecnica dell’uomo. Qui c’è una questione importante che ci sta dicendo Gentile: questo uomo tecnico-lavoratore è sorretto da un pensiero filosofico. Severino lo chiama “sottosuolo”, che sarebbe formato principalmente da queste tre figure: Leopardi, Gentile e Nietzsche; sottosuolo che dice: non c’è alcun limite. Cosa che invece la scienza ancora pensa, e cioè che ci sia un limite invalicabile; mentre questo sottosuolo dice che non c’è limite: puoi andare dove vuoi. “La legge dell’uomo: pensa”. È per Gentile la suprema legge etica. Sì, pensa, ma pensa se stessa, è autocoscienza. l’ultima proposizione di Genesi e struttura della società dice: “Ma nosce te ipsum: questo è il punto”. Per l’attualismo questa sentenza non può che essere ricolta all’uomo che conosce, cioè al conoscere stesso, che è l’essenza dell’uomo. Quindi il te ipsum è lo stesso conoscere. Ma il conoscere non può essere la semplice “contemplazione” che si limita a rispecchiare una realtà indipendente da essa e che essa non produce. Gentile ribadisce continuamente la propria critica alla distinzione tra teoria e pratica (intelletto e volontà), nella misura in cui tale distinzione significa che la teoria sia quell’impotente rispecchiamento della realtà presupposta al conoscere e la pratica sia quella volontà che si limita a produrre le cose umane ma non la natura: il pensiero (in quanto atto trascendentale) è volontà creatrice che produce il Tutto… Cominciate a vedere la prossimità tra la tecnica, la produzione di mezzi in vista di fini, e il pensiero, l’atto trascendentale; nel senso che questo atto trascendentale è quello che dice che io produco (autoctisi), che il mio pensiero è produzione – la poiesis è questo; quindi, non ha limiti perché il mio pensiero non si ferma, non ha limiti da nessuna parte e, quindi, posso continuare a creare all’infinito. Ecco la questione della tecnica. La tecnica fa esattamente questo, ma adesso vedremo la differenza. …e la volontà, come radice ultima di ogni empirico atto di volontà, è lo stesso atto del pensiero trascendentale. Solo il pensiero è l’autentico divenire e il divenire non può essere che il divenire del pensiero; e poiché, dunque, non può esistere alcuna realtà presupposta al pensiero, il pensiero non può essere che produzione di se stesso – e pertanto del Tutto. … E l’uomo diventa consapevole di ciò che egli è solo se si conosce come autocoscienza creatrice del Tutto. Il Dio di Gesù è, per Gentile, questa interiorità, presente in ogni uomo: è il “regno che non è di questo mondo”, per entrare nel quale si deve “perdere la propria anima”, cioè abbandonare il mondo quale si presenta ed è vissuto all’interno della concezione realistico-naturalistica della realtà. E – si ribadisca – l’autocoscienza è creatrice non nel senso che la creazione sia un’opera compiuta una volta per tutte, capace di pervenire a una realtà ormai immutabile in cui il divenire si arresti definitivamente; ma è un’opera sempre in atto, mai compiuta: una volontà che vuole superare all’infinito i limiti che, proprio perché essa è processo infinito, ad ogni passo necessariamente le competono: una potenza che all’infinito vuole incrementare la propria potenza e che quindi è “libera”. Tecnica trascendentale. La “legge dell’uomo”, ciò che egli deve avere come scopo, è il suo diventare consapevole di sé come divenire infinito dell’atto. La libertà è qualcosa che si produce continuamente, e che non può essere fermata; è il motivo per cui Stalin decise di eliminare Trockij, che sosteneva qualcosa di simile: la rivoluzione permanente. Vale a dire, la rivoluzione non è qualcosa che si raggiunge definitivamente, ma è qualcosa che deve continuamente rifarsi – in parte Sartre riprenderà questa strada –, è sempre in fieri.

Intervento: …

Le utopie, così come le ideologie, non funzionano mai, sono destinate inesorabilmente a schiantarsi contro una considerazione, che nessuno fa: le utopie e le ideologie devono, per essere quelle che sono, essere applicate agli umani, alle persone, e le persone sono volontà di potenza. Paragrafo 15, Ripresa: tecnica e sottosuolo del nostro tempo. Come si sta dicendo dall’inizio, la volontà trascendentale dell’atto è dunque - sebbene Gentile non si esprima in questi termini – la Tecnica originaria. La volontà trascendentale è la Tecnica originaria, cioè la volontà di questa libertà. Libertà nel senso che non ho limiti; se sono io che creo le cose allora non ho limiti nel crearle, ovviamente. Il Tutto attualistico è la poiesis, intesa da Platone come “causa” (aitia) che fa passare le cose “dal non essere ente all’essere ente”. L’attualismo mostra che essa può farlo perché è causa sui … Nella sua presente configurazione storica, la tecnica si fa innanzi, sulla “scena della grande storia”, tanto da far dire che la nostra è, appunto, la civiltà della tecnica. Non riesce ancora, però, a scorgere il contenuto del sottosuolo filosofico del nostro tempo… Leopardi, Gentile e Nietzsche. …dunque nemmeno il senso autentico di quella configurazione. Non conosce la potenza concettuale degli abitatori del sottosuolo; tanto meno dell’attualismo. Conosce soltanto l’astratta “tesi” (senza il fondamento che nel sottosuolo la sostiene) che “Dio è morto”, che non può esistere alcuna realtà immutabile e alcuna verità definitiva, alcuna legge assolutamente inviolabile. In questa situazione, la volontà della tecnica di oltrepassare ogni limite, per quanto guidata dalla scienza moderna, si presenta, agli occhi delle sapienze del passato, come una prevaricazione incapace di giustificarsi. Questa è l’obiezione che, p. es., fa la religione alla scienza, e cioè che non sa autogiustificarsi, mentre la religione pretende di essere autogiustificabile. In questa situazione tale volontà è continuamente frenata, limitata, ammonita. Nemmeno la superficie filosofica del nostro tempo, sebbene affermi di voler voltare le spalle alla tradizione dell’Occidente, è capace, nel complesso, di rendersi conto ella configurazione adeguata dell’inevitabilità di ciò che il sottosuolo peraltro sa concretamente mostrare: il tramonto di ogni immutabile – il tramonto che l’attualismo fonda nel modo forse più radicale. Un’incapacità, quella di tale superficie, dovuta anche a ragioni geopolitiche: un Paese di secondaria importanza come l’Italia, che diventa fascista e aggressivo nei confronti delle Potenze che hanno favorito la sua unificazione politica, che perde rovinosamente la guerra, dà spazio al più forte partito comunista dell’Occidente procurando problemi al capitalismo e alle democrazie parlamentari, parla una lingua non facile e senza diffusione, un Paese cosiffatto “non può” dare al mondo un pensiero che, come l’attualismo pretende, possa mostrare il senso autentico della storia del mondo e guidarla. Eppure, nella sua configurazione attuale, la tecnica non può liberare la propria potenza perché il mondo, nonostante il diffondersi della “modernità”, non è ancora certo che i propri dèi siano morti. Ancora, è la superficie della modernità a diffondersi: il sottosuolo essenziale del nostro tempo rimane ancora, appunto, un sottosuolo. Ma proprio per questo si comprende quanto sia decisivo che quanto vi si trova venga alla luce. La posta è la liberazione della potenza della tecnica: la dominazione dl mondo da parte dell’apparato scientifico-tecnologico: il tramonto delle forze che ancora intendono servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi. In questa situazione la presenza dell’attualismo è decisiva. Certo, la filosofia di Gentile è del tutto consapevole che, nella sua forma attuale, la volontà del mondo del lavoro e della grande industria, culminante nella tecno-scienza, è una volontà particolare (una forma teorico-pratica “particolare”, “provvisoria”, “astratta”, “dommatica”): non è, sia pure nel suo presentarsi sulla “scena della grande storia”, la volontà che compete all’atto trascendentale del pensiero in quanto autocreazione del mondo, del Tutto. Ma per l’attualismo “la legge dell’uomo”, che dice: “pensa” – il nosce te ipsum in cui consiste la suprema legge etica dell’uomo -, è rivolta a ogni uomo, a ogni dimensione umana e quindi anche e soprattutto (data l’“avanzata” del lavoratore e della grande industria) alla tecno-scienza. Anche la suprema legge etica per la tecnica è di pensare; di conoscere se stessa come volontà di potenza che ha la propria radice nell’autocreazione del Tutto, cioè nell’atto trascendentale del pensiero. È questo per Gentile il fondamento, il sottosuolo della tecnica: questa potenza, che ciascuno ha, nell’autocrearsi, in quella che Gentile chiama autoctisi, nella continua produzione, poiesis, del pensiero e, quindi, del mondo. Non si tratta della velleitaria e patetica pretesa di una filosofia di insegnare alla tecno-scienza che cosa essa debba fare. Si tratta della legge secondo la quale la tecnica si libera dai limiti che ancora la frenano. Libera la propria potenza e diventa effettivamente potente – e sempre più potente. Qui parla della tecnica, della tecnica trascendentale e non della tecno-scienza, cioè della tecnica che è in ciascuno, come linguaggio. Il linguaggio è tecnica, è la prima e fondamentale tecnica, come produzione di mezzi in vista di fini. È questo che fa il linguaggio: produce proposizioni per costruirne altre. A che scopo? Nessuno. Se e poiché la tecnica intende essere, da ultimo, la volontà di incrementare all’infinito la propria potenza, la propria capacità di realizzare scopi, allora tale volontà non è, essa, velleitaria e patetica solo se – all’interno della fede nel divenire dal nulla e ritornarvi – un pensiero, venendo alla luce e facendosi largo sulla scena della grande storia e della grande politica, sa mostrare in modo incontrovertibile (secondo il senso che l’incontrovertibilità può avere all’interno di quella fede) l’impossibilità di ogni limite, di ogni realtà immutabile (la cui esistenza renderebbe impossibile l’evidenza del divenire, che peraltro può essere salvaguardata solo intendendo il divenire come l’esperienza che va producendosi nell’atto trascendentale del pensiero). Questo è l’unico divenire che Severino accoglie, e cioè l’esperienza che si autoproduce da sé nel pensiero, nel dire. L’attualismo riesce a mostrare quell’incontrovertibilità. Vi riesce, mantenendosi all’interno della convinzione, che ormai domina il Pianeta: la convinzione che il divenire – l’unità di essere e di non essere – sia, appunto, l’evidenza (e ormai l’unica evidenza) indiscutibile. Tale evidenza porta ormai sulle proprie spalle l’intera storia del mondo. Non ci si dovrà chiedere, allora, se essa è in grado di reggere questo peso immane? La cosa che volevo farvi notare è questa posizione di Gentile rispetto alla tecnica, che vorrebbe non avere limiti, che ancora incontra naturalmente: limiti morali, etici, politici, ecc. Qui Gentile non parla della tecnica come linguaggio, è il linguaggio che non ha limiti e che continua a prodursi continuamente. E questa produzione è produzione di sé, è l’autoprodursi, è l’autocoscienza come autoproduzione.