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9 agosto 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 352. C) La definizione autentica del movimento tramite la ποίησις (agire) e la πάθησις (patire). Sulla κίνησις (movimento) e sulla sua interpretazione si basa la possibilità di comprendere alla radice la portata dell’indagine svolta dai greci. La vita, intesa come un modo determinato dell’“essere nel mondo”, è caratterizzata dal πρός τί (essere in relazione a…). Ne deriva che l’analisi svolta finora nei capitoli 1 e 2 era incompleta, nella misura in cui prendeva in considerazione solo l’ente in quanto mosso, però non diceva che ogni ente che è mosso “ci” è soltanto nell’esserci-con un ente che muove. Ecco perché la ποίησις (agire) e la πάθησις (patire), due movimenti: il muovere e l’essere mosso. L’intero contesto ontologico: ogni ente che muove è il motore di un ente che è mosso, e ogni ente che è mosso è il mosso di un ente che muove. Queste due determinazioni non vanno strappate l’una dall’altra, come se avessi dapprima due movimenti e poi mi chiedessi: come li metto assieme? Che è quello che generalmente fa la scienza: ci sono due movimenti, come li combiniamo? chi c’è prima e chi c’è dopo? L’ente che muove è un ente caratterizzato dalla ποίησις – l’ente che è mosso è caratterizzato dalla πάθησις. Ciò diviene evidente trattando dell’insegnare e dell’imparare. Già secondo il suo senso, insegnare significa parlare a un altro, rivolgersi all’altro nel modo del comunicare. L’essere proprio di un insegnante è: stare davanti a un altro e parlargli, per la precisione in modo tale che l’altro, ascoltando, lo segua. Si tratta di un nesso ontologico unitario determinato dalla κίνησις. Vedete come continua a dire dell’unità di questi due momenti. È per questo che Aristotele, anche alla fine del capitolo 3, riassume la definizione del movimento con queste parole: la κίνησις è έντελέχειᾳ… ‘Εντελέχει di queste due cose, che prima aveva descritto come δύναμις e ἐνέργεια, come potenza e atto, così come viene tradotto comunemente, ma che potremmo tradurre come il poter essere in relazione e l’essere in relazione. τοῦ δύναμει ποιητικοῦ καί παθητικοῦ τοιοῦτον (agire e patire sono lo stesso). Qui dunque, nella definizione stessa del movimento, compare improvvisamente la determinazione del ποιητικον (motore) e del παθητικον (mosso), senza che Aristotele corra il pericolo di definire il movimento tramite il movimento, dato che la ποιησις non è ancora movimento, e tanto meno la πάθησις. Ποιησις e πάθησις sono determinazioni di un ente unitario che “ci” è nel modo dell’“essere in movimento”. È vero che, rispetto a quest’ultima definizione, la prima suona: “La κίνησις è il presente di un “potente-essere”; e la seconda: “La κίνησις è έντελέχειᾳ di un ente mobile, nella misura in cui è mobile”. Qui, con il κινητόν, già si presta attenzione al κινητικόν. A sua volta, il κινητικόν viene spiegato in quanto ποιητικον in riferimento al παθητικον. È falso sostenere che qui Aristotele avrebbe definito il movimento tramite il movimento. Infatti, non definisce il movimento tramite il movimento, ma lui indica il movimento come coappartenenza di questi due momenti. Ciascuno di per sé non è il movimento, ma insieme sì. Come vada concepita la connessione riguardante la duplice prospettiva di ποιησις e di πάθησις, e il fatto che, ciò nonostante, si dà un solo movimento, viene dimostrato da Aristotele chiamando in causa la διάστασις (distanza): essa, in quanto “distanza”, come tale è la stessa da Tebe ad Atene e da Atene a Tebe. L’essere-distante, determinato in quanto tale, si può però intendere in una duplice prospettiva: posso andare da Tebe ad Atene e da Atene a Tebe. Alla base di entrambe le prospettive si pone già l’“essere egualmente distante”: διάστασις μίαδιάστασις duplice. La distanza di per sé è duplice: da… a… Il dato primario è la κίνησις in quanto una,… Insiste sempre sul fatto che il movimento è uno, non ci sono tanti movimenti. …che posso concepire nella duplice prospettiva della ποιησις e della πάθησις. L’indagine di Aristotele sul movimento ha un significato fondamentale per l’intera ontologia: definizione fondamentale dell’ente in quanto ἐνέργεια, έντελέχειᾳ e δύναμις. Questa è la definizione dell’ente, non sono cose che si aggiungono all’ente; sono le cose che lo definiscono: l’ente è queste cose. Ciò che importa, nella formazione del concetto, è caratterizzare determinati concetti. Il compito primario è quello di determinare le varie prospettive in base ai caratteri fondamentali. Ogni formazione del concetto, se autentica, è contraddistinta dal fatto che, nella formazione del concetto, apre nuovamente l’ambito di studio nel carattere fondamentale del suo essere. Questo è il fondamento dell’insegnamento di Heidegger: ogni concetto apre la via per un’interrogazione rivolta ad altri concetti, che questo concetto crea. La formazione del concetto effettivamente produttiva consiste nell’aprire l’ambito di studio in base al suo carattere oggettivo, in modo tale che l’intera concettualità di tale ambito divenga evidente, non limitandosi a cogliere la cosa, ma anche il suo come. Già Aristotele ci aveva detto che noi, sì, ci chiediamo della cosa, ma noi possiamo sapere della cosa solo chiedendoci del suo come. La cosa non c’è, c’è il suo come. La questione del τί τό ὅν (che cos’è l’ente)… È la domanda fondamentale della filosofia. …è tratta dalle determinazioni della ποιησις e dell’esserci attualmente presente… Lui insiste su questo “essere attualmente presente” perché il movimento io lo vedo in atto, non posso vedere il movimento del giorno prima né posso vedere quello del giorno dopo. – ποιησις intesa in quanto primario “essere nel mondo”, πρᾶξις. Essa offre l’occasione e la prospettiva più immediata per l’ontologia greca – che non è un’ontologia della natura! Nella successiva storia della filosofia si è trascurato di prestare attenzione all’“essere nel mondo”. La scoperta dell’ἐνέργεια e dell’έντελέχειᾳ significa mettere in pratica ciò che volevano Platone e Parmenide. Non si tratta di dire qualcosa di nuovo, ma di dire ciò che gli antichi già avevano inteso. C’è una nota, che può risultare interessante. Queste sono note che Heidegger aveva appuntato per le sue lezioni. A pag. 407. Con le precedenti definizioni categoriali abbiamo spiegato che un ente, visto così, non va necessariamente inteso in quanto mosso. Esso può essere un ente-mosso, in merito al quale posso formulare le asserzioni intenzionate, che però non sono, in quanto tali, quelle peculiari a un ente in movimento. Ci viene indicata così l’esigenza cui deve soddisfare: fornire i caratteri ontologici che pongono in evidenza il “Ci” di un ente in quanto trovantesi in movimento. Il “Ci” sarebbe la presenza. Conseguenze: se questi caratteri ontologici non colgono il movimento, ciò significa non solo che l’ontologia, che conosce come autentici e unici i menzionati caratteri fondamentali dell’essere, non è in grado di cogliere il movimento, ma anche, quando essa si esprime, al tempo stesso occulta; si ha solo l’impressione che il movimento sia concepito categorialmente, mentre in realtà la tradizione di siffatta ontologia sbarra l’accesso al movimento, rendendo nel contempo possibile una sistematica formale. Έτερότης (alterità), άνισότης (differenza), μή ὅν (non essere). Si ha solo l’impressione che il movimento sia concepito. Come vedremo, questo movimento possiamo concettualizzarlo, certo, ma non possiamo coglierlo in quanto tale. Adesso vedremo come la cosa può estendersi anche ad altro, perché non solo non cogliamo il movimento in quanto tale – se lo cogliamo lo cogliamo in quanto quiete –, ma di qualunque cosa potremmo dire la stessa cosa. Molti enti sono differenti da un altro (determinato dall’“essere altro”, ma non per questo, cioè in quanto tali, ci si fanno incontro in movimento. /…/ Forse però la έτερότης è intesa in quanto έτεροίωσις, “divenire-altro”. In tal caso tuttavia è evidente che il movimento viene definito tramite il movimento stesso. Finché la κίνησις non viene compresa, in base all’essere attualmente presente, in quanto modo di tale essere-presente, non può essere colta ontologicamente. Lui insiste sul fatto di essere colta in quanto modo di essere-presente. Questo è il lavoro di tutta la vita di Aristotele: mostrare le cose a partire da qualcosa che c’è, da ciò che abbiamo sottomano, si parte da lì. Poi, sappiamo con la metafisica che ciò da cui si parte è la δόξα, la chiacchiera, l’opinione. Ma Aristotele muove sempre non da un’idea che sta da qualche parte, irraggiungibile, identica a sé, ma da qualche cosa così come ci appare, come lo vediamo, e ci appare in movimento – è questo che ci sta dicendo. Quindi, se ci appare in movimento, come lo determiniamo? Abbiamo detto la volta scorsa della differenza essenziale tra Platone e Aristotele. Per Platone ciascuna cose è quella che è per virtù propria; per Aristotele ciascuna cosa è quella che è per virtù di un’altra. Già più vicino giunge la descrizione che prende le mosse dal μή ὅν, nella misura in cui quest’ultimo non viene assunto in quanto “mero non esserci in senso assoluto”, bensì in quanto qualcosa di non ancora determinato, di cui sussiste la possibilità. Anche questo però non basta, poiché si tratta di una definizione κατά συμβεβηκός (accidentale), che non coglie ciò che l’ente-mosso è sempre, di volta in volta, in se stesso – il “come” del suo “Ci”, l’essere attualmente presente –, ma si basa sul riferimento a un altro: ogni ente è qualcosa, e non è molte altre cose. A causa di questo non-essere tutto dovrebbe essere in movimento. E, in effetti, è ciò di cui si accorge. Sappiamo che il non-essere è ciò che rende l’essere quello che è. L’essere, dunque, sarebbe il determinato, il non-essere l’indeterminato; quindi, è come se soltanto l’indeterminato consentisse di determinare ciò che voglio determinare. Quindi, lo determino con l’indeterminato. Ma, allora, cosa determino? Ecco perché Platone indicava i molti come il male, perché è ciò che impedisce la determinazione dell’uno. Per lui c’erano l’uno e i molti, ben separati, distinti, mentre per Aristotele il problema era esattamente il contrario. Ciò che nel suo essere è determinato dall’“essere altro”, dall’“essere ineguale” e dal “non-essere”, non è determinato in quanto “essente in movimento”. Non c’è quindi motivo che lo si definisca ente-mosso. Viceversa, il movimento va spiegato in modo tale da determinarlo in quanto “come” di un ente – un ente che, visto in questa determinazione, è colto in quanto ente-mosso. Qui c’è in Aristotele evidentemente una sorta di “confusione”, perché più avanti definisce l’alterità come movimento; occorre pertanto sempre tenere ben presente tutto. Perché queste άρχαι (idee originarie)? Qual è il motivo (statico) di questa concezione categoriale? Movimento in quanto alcunché di immobile! Movimento come alcunché di immobile: qui siamo a Zenone, alla freccia di Zenone, immobile, fissa. Che cos’è, fenomenicamente inteso, il συνεχές (continuo)? Lo statico di quella determinazione sembra cogliere questo dato fenomenico. Nessuna di tali άρχαι determina un ente nel senso delle categorie (si tratta soltanto di determinazioni ontologiche-formali), e la κίνησις non è un ente obiettivamente determinato (obiezione fondamentale contro Platone). Platone invece voleva il movimento come un’idea, che se ne sta ferma lassù. Ci si può dunque rivolgere all’essere-mosso in quanto mosso, “avente parte al movimento” – si può cioè voler definire il movimento in base a una κοινωνία (comunanza), eppure sbagliare tutto! In Aristotele, al contrario, le categorie costituiscono il filo conduttore dell’analisi ontologica dell’ente-mosso, il che significa esperire concretamente l’ente che “ci” è in quanto tale. Perché? Perché le categorie sono i modi in cui qualche cosa si dice, dicono di un movimento rispetto a quella cosa perché sono “in relazione a…”. La spiegazione dei movimenti non in antitesi, bensì una questione del corretto “vedere” originario. Avere per conseguenza un “aspetto”, un “presentarsi con un determinato aspetto”, a seconda delle categorie – chiaramente la predisponibilità del movimento. A pag. 410. Pervenire nel “Ci” e svanire da esso in quanto “come” dell’esserci stesso (presente, essere-prodotto): γένεσιςφθορά (spostamento), dal “non-Ci” nel “Ci”… Qui sta dicendo una cosa importante, anche se lui non la problematizza. Pervenire nel “Ci”, cioè, nel presente, nel volere fermare questo movimento, e svanire da esso in quanto “come” dell’esserci stesso, cioè, il qualcosa, l’ούσία, l’essere, svanisce nel momento in cui voglio sapere che cos’è, perché trovo le categorie e non l’essere. Posso dire, come ha fatto Aristotele, che l’essere non è altro che le sue categorie, certo, ma sono un’altra cosa, quindi, svanisce. Un dileguarsi continuo: voglio determinare qualcosa, ma nel momento in cui lo determino questo qualcosa dilegua. Provenienza, questo “come” dell’esserci non può essere determinato altrimenti. Se non in relazione a qualche cosa. Ciò che è determinato nel suo esserci dai caratteri proposti non deve essere necessariamente un ente che si muove. Tali caratteri sono sufficienti per determinare un ente nel suo “Ci” in quanto essente in movimento? Se non è così, allora un’ontologia che si basa unicamente su ciò non è in grado di cogliere l’ente, anzi – ciò che qui, in quanto – λογια, si limita a dire –, in quanto esprimersi essa nasconde, occulta. Se parlo di qualcosa io occulto questo qualcosa. Se parlo di Cesare io occulto Cesare, parlo delle sue categorie, e, quindi, che cos’è Cesare? È ciò che ne dico. Posso, dunque, giungere a sapere che cosa sono le cose? No, perché mi avvicino, posso aggiungere tutte le determinazioni che voglio… Quante devo aggiungerne per potere dire che ho raggiunto la cosa? Infinite, quindi non raggiungerò mai la cosa, quindi non potrò mai sapere che cos’è qualcosa; posso parlarne, posso raccontare, ma non potrò mai sapere che cos’è.

Intervento: Descrivere l’ente è manipolarlo, perché sono io che scelgo le categorie con cui lo descrivo.

Nessuno mi obbliga tra l’altro, è un’operazione retorica, potremmo dire. Questo è interessante anche per la lettura delle Categorie di Aristotele. In effetti, lui individua queste sue dieci categorie – potrebbero essere anche di più – ma sono arbitrarie ed è in questo senso sono retoriche, perché sono io che decido di valutare qualche cosa in base alla quantità o alla qualità, ecc. In tale occultamento del λόγος essa impedisce l’interpretazione dell’esserci, il movimento si trasforma in un “qualcosa” – tradizione! Il movimento sarebbe un qualcosa. Di fatto, è pure qualcosa. E nei suoi tentativi di essere radicale ottiene risultati insufficienti e superficiali. Se invece un ente è determinato nel suo “Ci” nel senso in cui Aristotele definisce la κίνησις, allora esso è in movimento. Possiamo intendere così tutto ciò: se io immagino l’ente come mosso, o dalla δύναμις o dalla ἐνέργεια, allora ci sono risultati insufficienti o superficiali, perché né la δύναμις né l’ἐνέργεια spiegano il movimento. Ma se lo intendo nel senso di Aristotele, per cui δύναμις ed ἐνέργεια si coappartengono, sono simultanei, allora l’ente è in movimento. Da ultimo, proprio per indicare la simultaneità, a pag. 413. Proprio allora però, dal πρός τί, ἐνέργειαι ἓτεραι (atto come alterità), due movimenti. Dunque propriamente due movimenti da considerare e da esprimere, ma si parla di uno… Questi due movimenti non sono due movimenti ma uno. Questo uno è la relazione, è il πρός τί. Finora non abbiamo discusso un’ulteriore determinazione dell’ente, anch’essa preliminare, che si ricollega all’illustrazione delle categorie, il πρός τί. Il πρός τί è anch’esso una categoria, rende manifesto il mondo che “ci” è nel carattere d’incontro dell’“essere in relazione a…”, dell’uno rispetto all’altro. È il πρός τί che fa esistere le cose, le cose esistono in quanto in relazione. Abbiamo dunque finito questo libro. In questo libro straordinario Aristotele e soprattutto Heidegger ci fanno vedere una cosa fondamentale. Intanto, dice che il movimento non è nient’altro che l’essere di qualcosa in relazione a qualche cos’altro. Questi due momenti, come dice continuamente, non sono il movimento, il movimento è la relazione. Né la δύναμις né l’ἐνέργεια sono movimento. Potremmo anche dire che l’atto è il movimento, girandola un po’ potremmo anche arrivarci, ma non è quello che intendeva dire Aristotele. Lui cercava qualcosa che determinasse ontologicamente il movimento, dicendo: il movimento è questo, qualunque movimento è questo, se c’è movimento è perché c’è relazione. Dice anche che il πρός τί è costitutivo dell’ente: l’ente è relazione. Questione importante perché intanto ci dice immediatamente che quando parlo di qualcosa sto parlando d’altro, non sto parlando di quella cosa. Ci dice che ciò che io penso, dico, ecc., sono opinioni. Un’opinione è importante, perché vale quanto la sua contraria, e soprattutto l’opinione non determina ma racconta. Che cosa significa esattamente avere opinioni? Quando una persona ha un’opinione, stiamo dicendo che quella persona si attiene a qualcosa che crede come se quella cosa che crede corrispondesse a una cosa, che di fatto non esiste, non è mai esistita. Diciamo spesso che le cose in quanto tali non ci sono, c’è il linguaggio. In effetti, lo dicevamo prima, per determinare una cosa, per sapere che cos’è, devo determinarla aggiungendo categorie, ma non sappiamo fino a quando dobbiamo aggiungerne e pertanto non coglieremo mai la cosa. Ma qualcuno potrebbe obiettare che questa cosa c’è, perché io la voglio determinare. Questa era anche la posizione di Colli: se parlo di qualcosa, qualcosa c’è. Possiamo anche dire così, ma questo non ci esime dal domandarci: che cos’è questo qualcosa che diciamo che c’è? E quando diciamo che c’è, cosa stiamo dicendo esattamente? Questo è il pensare teoretico: si pongono delle questioni relativamente a ciò che sto affermando spesso con assoluta leggerezza e disinvoltura. Mentre sarebbe preferibile una maggiore attenzione a ciò che si afferma, perché questo qualcosa che ci deve essere, così nella vulgata, come diceva anche Colli… Per lui era così: se parlo di qualcosa, qualcosa c’è. Questo qualche cosa è pur sempre determinato se è un qualche cosa; quindi, devo averlo già determinato, ma l’ho determinato al modo che dicevamo prima, cioè l’ho determinato lasciandolo necessariamente indeterminato e, quindi, non posso affidarmi al fatto che sia effettivamente qualcosa, perché non posso né ho mai potuto determinarlo. Ma il linguaggio che cosa fa in più? Sono riflessioni queste che sono in nuce in Heidegger e anche in Aristotele. Che cosa fa il linguaggio? Crea, verrebbe da dire ex nihilo, ma non è proprio così, perché ovviamente crea a partire dal linguaggio. Pensate bene alle cose che abbiamo dette in queste ultime pagine lette. La struttura che si ripete è sempre la stessa e si è ripetuta, tra l’altro, nei secoli e nei millenni. C’è un elemento, da cui si muove e che non conosciamo, però qualche cosa si avvia, non sappiamo per il momento né come né perché. Avviandosi produce l’atto, l’ἐνέργεια. Questi due momenti insieme costituiscono quella che potremmo chiamare la parola, l’έντελέχειᾳ, ciò che vediamo, ciò che abbiamo sotto mano. Ciò che abbiamo sotto mano è fatto di queste due cose, di per sé non conoscibili: non possiamo conoscere né la δύναμις né l’ἐνέργεια in quanto tali. Come faccio a conoscere l’atto? L’atto è qualcosa di assolutamente astratto. Posso descrivere un atto, ma descriverlo nel senso di raccontarlo, di come agisce. La stessa cosa è per la potenza. Potenza e atto sono due aspetti, due istanze, che non posso determinare in quanto tali. Non posso determinare la δύναμις perché per determinarla deve essere in atto, quindi, non determino più la δύναμις ma determino la δύναμις in atto, quindi, già l’ἐνέργεια; ma non posso determinare l’ἐνέργεια senza un qualche cosa che, diciamo così, ha preparato l’ἐνέργεια, e cioè la δύναμις: per potere dire una devo dire l’altra. Vedete già questo movimento, movimento che è l’έντελέχειᾳ. Pensate a Hegel, a questo movimento dall’in sé al per sé, movimento che lui chiama dialettico: non posso conoscere l’in sé se non tramite il per sé, e solo allora esiste l’in sé. Pensate anche a Peirce, alla sua Primità, Secondità, Terzietà. Diceva la stessa cosa: non posso conoscere qualcosa se non nella relazione. Ma nella relazione non è più quella cosa, è un’altra cosa. Pensate a de Saussure. Anche se lui non è arrivato tanto in là ha comunque posto la questione: significante, significato. Posso conoscere il significante senza il significato? No, perché non significa niente, è niente. E il significato senza significante? Vuole dire che non è detto, non c’è, e quindi che cosa conosco? Di nuovo, nulla. Questo movimento, questi due elementi che si coappartengono e che producono la relazione. Questo con Aristotele, ma in fondo già con Parmenide. Nella lettura straordinaria che ne fece Heidegger parrebbe che, in effetti, Parmenide avesse già inteso la questione, perché lui dice: sì, certo, la dea ‘Aλήθεια dice che c’è la δόξα, che è quella che ci salva dal non potere sapere niente, perché dell’essere non possiamo sapere niente. L’essere è il linguaggio. Se noi vogliamo sapere che cos’è il linguaggio, da dove partiamo? Dal linguaggio, cioè da qualcosa che è già in atto. Parmenide diceva: essere e non-essere, il non-essere è il fuori dal linguaggio. Effettivamente fuori dal linguaggio non c’è niente, ma è questo fuori dal linguaggio che consente al linguaggio di esistere, perché il linguaggio è comunque sempre e continuamente riferentesi a questo altro che sarebbe fuori, attraverso la sua negazione. Naturalmente, si pone subito il problema: io posso negare il linguaggio solo attraverso il linguaggio e, quindi, non posso uscire dall’essere. È per questo che, diceva giustamente Parmenide, non c’è il non essere. Un po’ come Fredegiso di Tours: se parlo del nulla parlo di qualche cosa. E così Parmenide: il non essere non posso dirlo, perché se lo dico è qualche cosa, è essere, quindi, il non essere non lo dirò mai, cioè, non potrò mai uscire dal linguaggio. Non potendo uscire dal linguaggio mi trovo ad avere a che fare con il modo in cui il linguaggio funziona. Qui la cosa interessante è, sì, certo, la questione della δόξα, però, perché si produca la δόξα occorre che qualcosa già funzioni. Si pone il problema, che Aristotele non prende in considerazione, del da dove viene la δύναμις, visto che sembra che tutto quanto sorga da lì. Ma perché non si pone il problema? Perché non possiamo interrogarci sulla δύναμις se non come ἐνέργεια. Voglio dire che qualunque tentativo – e lo dice chiaramente: non sono due cose, sono una – qualunque tentativo di separare le due cose fallisce immediatamente, perché non hai più né l’una cosa né l’altra. Cosa significa questo? Una cosa importante, perché se io separo questi due momenti, entrambi si dissolvono. Come fa, per esempio, a sorgere la religione, che invece li tiene separati e vive benissimo ancora oggi, dopo duemila anni? Naturalmente, un modo c’è, ed è sempre lo stesso: non domandarsi nulla. Basta questo: non domandare, continuare quindi a costruire teorie – la religione è una teoria –, e cioè qualche cosa che dice delle cose su altre cose. È la δόξα, l’opinione. Il discorso teoretico, invece, rende impossibile la teoria, perché, domandando della premessa maggiore che regge tutta la teoria, costringe a scontrarsi con l’assenza della premessa maggiore. Assenza in tutti i sensi: o la premessa maggiore non c’è, per cui è un entimema, oppure c’è, ma in ogni caso non è sostenibile, non è dimostrabile. Potremmo quindi dire che questa separazione non può più farsi nel pensiero teoretico: è questo il motivo per cui non viene praticato. Tempo fa dicevamo che tutto il pensiero filosofico ha preso queste due direttrici: il platonismo e l’aristotelismo. Sì, è vero, ma vero fino a un certo punto, perché di fatto il pensiero di Aristotele, così come ce lo mostra Heidegger, è poco funzionale alla civilizzazione, perché mette in crisi ogni teoria. Per potere vivere dobbiamo costruire teorie, quella che i tedeschi chiamano Weltanschauung, una visione del mondo, il modo in cui io vedo il mondo, così come diceva Aristotele, in base a come mi sento io in quel momento, in base alle emozioni che ho. Quindi, l’aristotelismo, in effetti, posto in questi termini, non è mai stato praticato. Neanche nel basso Medioevo; in fondo, è stato usato come una macchina per contrastare gli eretici, ma non c’è stato nessun pensiero teoretico rispetto ad Aristotele.

Intervento: Potremmo dire che era un periodo platonico, perché Dio è lì…

Questo nell’alto Medioevo, in cui dominava ancora Agostino, che era un platonico.

Intervento: Il concetto di Grazia lasciava in qualche modo la possibilità alla persona di pensare.

Agostino questo non lo nega. Infatti, per lui la logica è qualcosa che si aggiunge, ma è facoltativa. Per Tommaso, invece, la logica diventa la via per conoscere Dio, e infatti lui la santifica: è Dio che ci ha dato la ragione per conoscerlo. Per Agostino no, è solo la Grazia, la logica va bene se uno vuole ragionarci su può farlo, ma non è certo quella che consentirà di accedere a Dio. Per Tommaso sì, ed è in questo senso che è aristotelico, ma solo in questo senso. Perché l’idea di fondo in Aristotele, che ciascuna cosa è quella che è in virtù di un’altra, è questa la questione sovversiva, impossibile da accogliere e contro cui è necessario combattere sempre e ferocemente. Qualunque cosa è quella che è in virtù di un’altra; quindi, non è quella che è; è quella che è nell’alterità, nello spostamento. La δύναμις è δύναμις nel suo spostarsi verso l’ἐνέργεια. Δύναμις e ἐνέργεια non ci sono fuori dell’έντελέχειᾳ; i due elementi di una relazione non ci sono fuori della relazione. Riprendendo l’esempio della lampada che è sul tavolo, questa lampada c’è in quanto presa nel mondo in quel momento, ma se la tolgo da lì non c’è più questa lampada che è sul tavolo, perché diventata un’altra cosa.

Intervento: Aristotele è stato interpretato platonicamente…

È vero. È stato letto in base ai testi che loro conoscevano. Anche i testi di logica sono stati letti platonicamente, erano stati indirizzati lungo quella via. Alcuni hanno tentato di mettere insieme Platone e Aristotele, di fonderli assieme. Tentativo fallito perché impossibile: l’uno parte dall’idea che le cose sono quelle che sono per virtù propria, l’altro che le cose sono perché in relazione ad altro: non c’è modo di combinarle. Queste cose che abbiamo lette, mano a mano che le leggiamo ci cambiano, nel senso che ci fanno vedere altre cose. Abbiamo uno sguardo più ampio delle cose, sempre meno ristretto, sempre più onnicomprensivo. Ma quello che volevo dire è questo: tutte le cose che abbiamo lette, soprattutto queste ultime, che io amo definire una trilogia di Heidegger, cioè: la filosofia degli antichi, Il Sofista di Platone e questo sui fondamenti della filosofia aristotelica. Da mercoledì prossimo dovremo leggere Aristotele tenendo conto di queste cose che sono state pensate ed intese da Heidegger e che noi abbiamo acquisite. Leggerlo dunque in questo modo, cioè, leggere la logica tenendo conto di tutto questo, tenendo conto del fatto che ciascuna cosa è in virtù di un’altra, e che il movimento non è altro che questa relazione di una cosa con un’altra. Movimento che non posso determinare, perché se determino il movimento determino la quiete e non il movimento. Ma il movimento lo vedo. Certo che lo vedo, così come vedo Achille che sorpassa la tartaruga, è ovvio che lo vedo, ma so che cosa sto vedendo? Per saperlo devo matematizzare la cosa, per dominarla, per possederla. Ma se la matematizzo mi trovo di fronte a un problema, che è quello che la matematica ancora oggi incontra con il calcolo infinitesimale. Quindi, leggere Aristotele tenendo conto di questo, come chiave di lettura, tenere sempre conto di questo, tenere sempre presente le ultime cose che abbiamo acquisite, e vedere dove questo ci porta. Poi, vedremo il da farsi. Adesso abbiamo gli strumenti per affrontare lo strumento, l’Organon. Non a caso Aristotele parte dalle Categorie. Ora, come accade con Aristotele – con Platone no, di lui abbiamo avuto il testo da subito, quindi, non c’è mai stato nessun problema – con Aristotele invece sì, non è certo che fosse sua questa partizione di sei scritti e che le Categorie fosse il primo. Alcuni pensano che il primo dovrebbe essere il Περί ἑρμηνείας, il De interpretatione. Non è sicuro, però chi ha organizzato l’Organon in questo modo comunque ha fatto un lavoro interessante, perché le Categorie in effetti sono il primo punto da cui muovere, le Categorie sono i modi in cui le cose si dicono. Nelle Categorie, più che in altri testi, Aristotele giunge a dire che qualunque cosa, per essere quella che è, devo dirla. Si dice in un modo ed è il modo in cui si dice il modo in cui qualcosa è, mi appare; come dicevano i latini, est modus in rebus, c’è un modo nelle cose, in cui si fanno le cose.