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9 agosto 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag. 278, Sezione Seconda, Esserci e temporalità. Che cosa fu raggiunto con l’analisi preparatoria dell’Esserci e che cosa è cercato? Abbiamo trovato la costituzione fondamentale dell’ente tematizzato, l’essere-nel-mondo, le cui strutture essenziali sono incentrate nell’apertura. La Cura si rivelò come la totalità unitaria di questo insieme di strutture. In essa è incluso l’essere dell’Esserci. Per Heidegger, come abbiamo visto, la Cura è l’insieme di tutte le cose che appartengono all’Esserci, tutto ciò che riguarda l’Esserci è la Cura. L’Esserci è la Cura. L’analisi di questo essere assunse come filo conduttore ciò che, anticipando, fu definito come l’essenza dell’Esserci, l’esistenza. L’esistenza è l’essenza dell’Esserci. In effetti, l’Esserci è l’unico esistente, l’unico esistenziale, mentre le altre cose sono semplici presenze. L’unica cosa che esiste è l’uomo, cioè quell’ente che può domandarsi qualcosa. L’ente che in modo siffatto, io stesso lo sono sempre. Io sono sempre l’Esserci, non posso a un certo punto non esserlo più, tranne quando io muoio, ma questo lo vedremo più avanti. L’elaborazione del fenomeno della Cura permise di vedere la costituzione concreta dell’esistenza, cioè la sua connessione cooriginaria con l’effettività e la deiezione dell’Esserci. Gli aspetti fondamentali dell’Esserci sono l’effettività, cioè l’esistere, e la deiezione, che è la quotidianità con cui l’Esserci ha a che fare continuamente: la chiacchiera, l’equivoco e la curiosità, sono questi i tre elementi che costituiscono la deiezione. A pag. 280. Che dire della pre-visione che finora ha guidato il procedimento ontologico? L’essere dell’Esserci è tale in quanto pre-visione, non nel senso di preveggenza ma in quanto sempre gettato in avanti. Abbiamo determinato l’idea dell’esistenza come il poter-essere comprendente cui ne va sempre del suo essere stesso. L’esistenza per Heidegger è il poter essere, un poter essere comprendente. Ma il poter-essere, in quanto sempre mio, è libero per l’autenticità, l’inautenticità o la loro indifferenza modale. … Esistenza significa poter-essere, quindi anche poter-essere autentico. Finché la struttura esistenziale del poter-essere autentico non sarà stata introdotta nell’idea di esistenza, alla pre-visione che guida l’interpretazione esistenziale farà difetto l’originarietà. Si sta chiedendo: come possiamo trovare un qualche cosa che ci dica in che cosa consista il poter essere autentico, originario? Vedremo che, per ottenere questo risultato, lui cercherà un qualche cosa che renda l’Esserci qualcosa di unitario, un tutto. E come stanno le cose quanto alla pre-disponibilità della situazione ermeneutica che è stata finora alla base della ricerca? Quando e come l’analisi esistenziale si assicurata che essa, con la sua impostazione nell’ambito della quotidianità, abbia offerto allo sguardo tematico-fenomenologico, l’Esserci intero, cioè questo ente dal suo “inizio” alla sua “fine”? Quello che cerca è l’interezza dell’Esserci, in modo da poterne stabilire con certezza dei caratteri ontologici, cioè, l’essere dell’Esserci deve essere “questo”, ma, per potere giungere a dire questo, deve essere un tutto. Avvertite già qual è il problema: se l’Esserci è qualcosa che è sempre gettato in avanti, che è sempre progettato, manca sempre qualcosa e, quindi, non sarà mai un intero. Certo abbiamo affermato che la Cura è la totalità unitaria dell’insieme delle strutture della costituzione dell’Esserci. Ma nella stessa impostazione dell’interpretazione non è forse implicita la rinuncia alla possibilità di portare dinanzi allo sguardo fenomenologico l’Esserci nella sua interezza? La quotidianità è infatti l’essere che si estende “fra” la nascita e la morte. Se l’esistenza determina l’essere dell’Esserci e la sua essenza è costituita dal poter-essere, ne viene che l’Esserci, fintanto che esiste, potendo-essere ha sempre ancora qualcosa da essere. Ecco perché non è un intero. L’ente, la cui essenza è costituita dall’esistenza, contraddice in linea essenziale alla sua possibile determinazione come ente totale. A pag. 281. Una cosa è ormai fuori dubbio, e cioè che l’analisi esistenziale dell’Esserci finora condotta non può avanzare la pretesa della originarietà. Non possiamo trovare qualcosa di originario, di unitario. Nella sua predisponibilità c’era sempre soltanto l’essere inautentico dell’Esserci e come non totale. Se l’interpretazione dell’essere dell’Esserci, in quanto fondamento dell’elaborazione del problema ontologico fondamentale, vuol farsi originaria, dovrà, prima di tutto, porre esistenzialmente in luce l’essere dell’Esserci nella sua possibile autenticità e totalità. Questo è il problema per Heidegger. Nasce pertanto il compito di realizzare la pre-disponibilità dell’Esserci come totale. L’Esserci è già da sempre pre-disposto, ha il progetto, però, dobbiamo realizzare la pre-disponibilità come un tutto, finito, il che è contraddittorio, come lui stesso ha rilevato. Ciò significa però impostare una buona volta il problema del poter-essere-un-tutto da parte di questo ente. Nell’Esserci, fintanto che c’è, manca sempre ancora qualche cosa che esso può essere e sarà. … La “fine” dell’essere-nel-mondo è la morte. Questa fine, appartenendo al poter-essere… Perché anche questa, la morte, è una possibilità, quella più concreta. …delimita e determina la rispettiva possibile totalità dell’Esserci. L’essere-alla-fine, con la morte, da parte dell’Esserci, e con ciò l’essere-un-tutto da parte di questo ente, può essere fenomenicamente inserito in modo autentico nel problema del poter-essere-un-tutto, solo se è stato raggiunto un concetto ontologicamente adeguato, cioè un concetto esistenziale, della morte. Ma la morte è adeguata all’Esserci solo in un essere-per-la-morte esistentivo. La morte è un concetto che possiamo adeguatamente riferire all’Esserci solo, dice, per un essere per la morte esistentivo, cioè, un essere per la morte che riguarda un esistente, cioè la persona. Il che pone un problema perché non è che può far morire qualcun altro al posto suo, la sua morte è “sua”, di ciascuno. La struttura esistenziale di questo essere si rivela come la costituzione ontologica di un poter-essere-un-tutto da parte dell’Esserci. … Ma l’Esserci potrà esistere come un tutto anche autenticamente? Si accorge che qui c’è un problema: l’Esserci, per essere tutto, deve concludersi e, quindi, non deve più essere un Esserci, perché una volta morto… Evidentemente è l’Esserci stesso che deve offrire nel suo essere la possibilità e la modalità della sua esistenza autentica, dato che essa non può essere imposta all’Esserci onticamente né può essere inventata ontologicamente. L’attestazione di un poter-essere autentico è offerto dalla coscienza. (pagg. 282-283) Io mi rendo conto dell’autenticità a della ricerca dell’autenticità attraverso la mia coscienza. Come la morte, anche questo fenomeno dell’Esserci richiede un’interpretazione genuinamente esistenziale; la quale porta alla conclusione che un poter-essere autentico dell’Esserci consiste nel voler-aver-coscienza. Devo accorgermi che nel percorso dell’Esserci devo accorgermi che c’è un progetto; se non c’è la coscienza la possibilità di rendersi conto di ciò che accade non faremmo nulla. Con l’esibizione di un autentico poter-essere-un-tutto da parte dell’Esserci, l’analitica esistenziale si assicura della costituzione dell’essere originario dell’Esserci; ma il poter-essere-un-tutto autentico si rivela, nel contempo, come un modo della Cura. Come abbiamo già detto, la Cura come cura comprendente è il trovarsi prendendosi cura all’interno del mondo, che io sono. Il fondamento ontologico originario dell’esistenzialità dell’Esserci è la temporalità. La totalità articolata delle strutture dell’essere dell’Esserci come Cura diventa comprensibile esistenzialmente solo a partire da essa. Ma l’interpretazione del senso dell’essere dell’Esserci non può arrestarsi a questo risultato. L’analisi esistenziale-temporale di questo ente richiede una verifica concreta. Le strutture ontologiche dell’Esserci finora ricavate debbono essere ricondotte al loro senso temporale. La quotidianità si svela come un modo della temporalità. Attraverso questa ripetizione dell’analisi fondamentale dell’Esserci nel suo momento preparatorio lo stesso fenomeno della temporalità diverrà più chiaro. Muovendo dalla temporalità, sarà anche possibile capire perché l’Esserci sia storico nel fondamento del suo essere, perché possa essere tale e perché sia in grado, in quanto storico, di elaborare una storiografia. Qui introduce una questione, che abbiamo già avuto modo di vedere in altre occasioni, quella della temporalità. Potete intendere la temporalità come il divenire. La temporalità significa che io sono il prodotto di tutto ciò che sono divenuto fino a questo momento. Questo è la temporalità: io sono storicamente situato ed essendo storicamente situato tutto ciò che mi appartiene e mi è appartenuto è presente adesso. La temporalità è il divenire, il divenuto. Dice Heidegger che, in effetti, è soltanto a partire da questo, cioè dal fatto che io, consapevolmente in quanto provvisto di coscienza, mi accorgo di questa temporalità, di essere cioè un divenuto e in questo posso pensare il tempo. Non c’è prima il tempo ma è un effetto del fatto che la coscienza rileva una temporalità, un divenire, una storicità sempre in atto. Se la temporalità costituisce il senso originario dell’essere dell’Esserci, cioè dell’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, ne viene che la Cura dovrà usare il “tempo”, e, di conseguenza, calcolare “col tempo”. La Cura, che in fondo non è altro che l’Esserci stesso, l’Esserci si mostra, interviene come Cura, un prendersi cura del mondo che io sono, questa Cura dovrà fare i conti con il tempo, dovrà usare il tempo. La temporalità dell’Esserci porta con sé il “calcolo del tempo”. Non è chiarissimo cosa qui voglia dire, però, dice Il “tempo” in esso esperito è l’aspetto fenomenico più vicino della temporalità. Da esso scaturisce la comprensione quotidiana e ordinaria del tempo. Da essa si sviluppa il concetto tradizionale del tempo. La temporalità dell’Esserci, la sua storicità, il suo essere divenuto ed essere continuamente diveniente, mostra un qualche cosa che si è svolto e che si sta svolgendo, e questo ha a che fare con il tempo, con una sequenza. Potete considerare il tempo in questo caso nell’accezione più comune, cioè, come una successione di stati, di eventi. Questa successione di eventi che mi ha condotto qui a essere quello che sono in questo istante, è la mia storicità ed è la temporalità con cui il mio esserci ha a che fare continuamente. Da questo, dice, si sviluppa il concetto tradizionale del tempo, del tempo che passa, si sviluppa dal mio prendermi cura del mondo. E quando mi prendo cura del mondo, quando c’è la Cura, quando io sono queste cose, allora posso accorgermi che io sono storicamente situato ed è allora, dice Heidegger, che si pone la questione del tempo, comincio a pensare al tempo. Il chiarimento dell’origine del “tempo in cui” si incontra l’ente intramondano, cioè del tempo come intratemporalità, manifesta una possibilità essenziale della temporalizzazione della temporalità. (pagg. 282-283) Si parla del “tempo in cui”: il tempo in cui facevo qualcosa, in cui ho incontrato un ente intramondano. Questo tempo, di cui io sto parlando, fa parte di qualcosa che è all’interno della temporalità di cui sono fatto, della mia storicità, del mio essere divenuto. Quindi, è possibile, dice Heidegger, temporalizzare la temporalità, situare il tempo all’interno della temporalizzazione, cioè, del diveniente: io posso situare un evento all’interno di un percorso perché io sono questo percorso. Si prepara così il terreno per la comprensione di una temporalizzazione della temporalità ancora più originaria. In essa trova fondamento la comprensione dell’essere costitutiva dell’essere dell’Esserci. Il progetto di un senso dell’essere in generale può essere posto in atto nell’orizzonte del tempo. Quello che sta dicendo è in realtà abbastanza semplice, anche se può apparire complesso. Tutto ciò che pensiamo del tempo lo possiamo pensare perché siamo già all’interno di una temporalità che lui individua come il divenire, semplicemente. Anche se non lo dice sta parlando del divenire, del diveniente, della mia storicità. È perché io sono un essere storico che posso pensare il tempo, cioè, posso pensare a ciò che è stato, a ciò che è e a ciò che sarà. Si tratta di intendere che la questione della storicità per Heidegger è fondamentale. Se non si intende questo non si intende come l’Esserci giunga a formulare dei progetti o da dove vengono questi progetti. Vengono da tutto ciò che storicamente ha costituito l’Esserci nel momento in cui è progettante. Anche il tempo, ve lo ricordate, ne avevamo già accennato, Heidegger lo definiva come il “tempo per”, un tempo per qualche cosa. Quindi, il tempo è all’interno del progetto, non c’è senza il progetto, è questo che sta cercando di dire.

Intervento: Tempo e linguaggio…

Il tempo è una costruzione del linguaggio, che serve al linguaggio per indicare una sequenza, una successione, anziché una simultaneità. Il “tempo per” è sempre un tempo, un qualche cosa che è sempre prodotto dal progetto, che si produce nel progetto. L’Esserci è progetto, è anche Cura. In questa temporalizzazione, in questa storicizzazione dell’Esserci, che si fa storico che non può non tenere conto di tutto ciò che lo ha condotto a essere ciò che è, lì, dice, si situa anche la possibilità di pensare il tempo, cioè, di pensare a ciò che è trascorso, di pensare quegli eventi che mi hanno portato… e questi eventi sono passati. Adesso Heidegger abbandona provvisoriamente la questione del tempo, ma la riprenderà. A pag. 284, Capitolo Primo, La possibilità di essere-un-tutto da parte dell’Esserci e l’essere-per-la-morte. è venuto il momento di superare ciò che di insufficiente era contenuto nella situazione ermeneutica da cui scaturì l’analisi dell’Esserci finora condotta. Si sta riferendo all’Esserci nella sua totalità. In vista della necessità di avere a disposizione l’Esserci nella sua totalità, occorre stabilire se questo ente, in quanto esistente, possa rendersi accessibile nel suo essere-un-tutto. A favore dell’impossibilità di questo darsi sembrano intervenire ragioni fondamentali che si fondano nella stessa costituzione d’essere dell’Esserci. La Cura, che costituisce la totalità dell’insieme strutturale dell’Esserci, contraddice palesemente, quanto al suo senso ontologico, a un possibile essere-un-tutto da parte di questo ente. Il momento primario della Cura, l’“avanti-a-sé”, significa infatti: l’Esserci esiste sempre in-vista-di se stesso. Di un se stesso che avrà realizzato un progetto da cui partirà un altro progetto, e così via. “Fintanto che esso è”, fino alla sua fine, esso si rapporta al proprio poter-essere. Abbiamo visto che l’Esserci non è altro che un poter essere, cioè io sono un poter essere, sono le possibilità di cui sono fatto. Qui si potrebbe aggiungere un elemento: per poter essere cosa? Poter essere perché? Qui il richiamo alla volontà di potenza è inevitabile. Un poter essere che è sempre gettato in avanti, che è sempre progettante un qualche cosa, allo scopo di, Nietzsche direbbe, superpotenziarsi. Il poter essere è questo: ogni volta che posso essere qualche cosa posso raggiungere un obiettivo, posso ottenere qualcosa, posso aumentare la mia potenza: ogni volta che raggiungo qualcosa aumento la mia potenza. Questo è interessante perché pone una corrispondenza tra la posizione di Nietzsche e quella di Heidegger, anche se Heidegger non pone la questione in questi termini, però, il poter essere, di cui parla lui, e il superpotenziamento, di cui parla Nietzsche, appaiono andare nella stessa direzione, appaiono essere entrambi elementi di uno stesso qualche cosa che vuole ottenere qualcosa per qualche motivo. Il motivo per cui lo vuole ottenere è il superpotenziamento. Anche nel caso che l’Esserci, pur esistendo, non avesse più nulla “davanti a sé” e avesse “chiuso i suoi conti”, il suo essere sarebbe sempre determinato dall’“avanti-a-sé”. Ad esempio, la disperazione non sottrae l’Esserci alle sue possibilità, ma è soltanto un modo particolare di essere-per queste possibilità. Sta dicendo che non si riesce a uscire da questo poter essere qualcosa, qualunque cosa io voglia o non voglia sono sempre preso in un poter essere, un poter essere qualcosa. Lo stesso esser pronti a tutto, senza illusione, comporta anch’esso l’“avanti-a-sé”. Questo momento strutturale della Cura sta inequivocabilmente a significare che nell’Esserci c’è sempre ancora qualcosa che manca, qualcosa che può essere, ma non è ancora divenuto “reale”. Questa è la questione della mancanza in Heidegger. Nell’essenza della costituzione fondamentale dell’Esserci si ha quindi una costante incompiutezza. La non totalità significa una mancanza rispetto al poter essere. Io posso essere tante cose ma mi manca sempre qualche cosa che posso essere ancora. Tuttavia, nel momento stesso in cui l’Esserci “esiste” in modo tale che in esso non manchi assolutamente più nulla, esso è anche giunto al suo non-Esserci più. L’eliminazione della mancanza di essere importa l’annichilimento del suo essere. Tolta la mancanza non c’è più progettualità, non c’è più l’Esserci. Fintanto che l’Esserci è come ente, non ha ancora raggiunto la propria “totalità”; ma una volta che l’abbia raggiunta, tale raggiungimento importa la perdita assoluta dell’essere-nel-mondo. Da allora non è più esperibile come ente. La ragione dell’impossibilità di esperire onticamente l’Esserci come ente totale, e quindi di determinarlo ontologicamente nel suo essere-un-tutto, non dipende da un’insufficienza dei nostri mezzi conoscitivi. (pagg. 284-285) Non è che non possiamo esperirlo come un tutto perché non siamo abbastanza bravi, no, ma dice L’impedimento viene dall’essere di questo ente. Cioè, dall’essere dell’Esserci, il quale essere dell’Esserci è progettualità e possibilità. Essendo possibilità sarà sempre alla ricerca di un nuovo progetto, di qualche altra cosa, sarà sempre, come diceva prima, un avanti a sé. Ciò che non può essere tale quale la esperibilità possibile richiederebbe che l’Esserci fosse, si sottrae, in linea di principio, a ogni esperibilità. Dice che l‘impedimento viene dall’essere dell’Esserci. È questo che impedisce che l’ente sia un tutto. Ma allora la comprensione della totalità ontologica dell’essere dell’Esserci non è un’impresa senza speranza? L’avanti a sé è la Cura stessa. Come è ciascuno nel mondo? È come progetto, quindi, è sempre avanti a sé, come possibilità. L’“avanti a sé”, in quanto momento essenziale della struttura della Cura, è incontestabile. Ma lo è altrettanto anche ciò che ne inferimmo? Concludendo all’impossibilità di cogliere la totalità dell’Esserci, non abbiamo forse argomentato in modo puramente formale? Come dire: ci siamo accontentati di una sequenza di inferenze, di proposizioni, e ci siamo dimenticati di qualche cosa? O, inavvertitamente, non abbiamo forse concepito l’Esserci come una semplice-presenza a cui manca sempre qualcosa di non ancora presente? In effetti, ponendo la cosa così, come tra l’altro la pone anche Lacan… Lacan pone la mancanza dell’essere ma come la pone lui è una semplice presenza, è un qualcosa che manca di qualcos’altro. Heidegger, invece, se ne accorge, per lui non è così semplice la questione, questo esserci non è propriamente un qualche cosa a cui dobbiamo aggiungere una qualcosina per farlo diventare un tutto. Siamo sicuri che il ragionamento abbia inteso il non-essere-ancora e l’“avanti a sé” in un senso genuinamente esistenziale? Certo, perché l’avanti a sé qui va inteso in senso esistenziale non formale. L’avanti a sé non va inteso nel senso che è alla ricerca di qualche cosa che gli manca e che, una volta raggiunto, è conclusa la storia. No, riguarda l’essere, la struttura dell’essere, è l’essere stesso che è questo avanti a sé continuamente. Discorrendo di “fine” e di “totalità”, lo facemmo in modo fenomenicamente adeguato all’Esserci? Il termine “morte” aveva un senso biologico o ontologico-esistenziale? Per Heidegger le cose non sono mai semplici, si accorge che c’è ancora qualcosa da pensare. In ogni caso, era stato definito adeguatamente nel suo significato rigoroso? Infine: sono state effettivamente esaurite tutte le possibilità di accedere all’Esserci nella sua totalità? Abbiamo pensato tutto o manca qualcosa che dobbiamo ancora pesare? Giusto per rimanere in tema di possibilità e progettualità. Bisogna dare una risposta a queste domande, prima di dichiarare inconsistente il problema della totalità dell’Esserci. Così come appariva: è paradossale, quindi, non ne parliamo più, non c’è uscita. L’Esserci non può essere posto come totalità perché, essendo un continuo avanti a sé, in quanto possibilità aperta non posso chiuderlo in un tutto; se lo chiudessi con la morte non ci sarebbe più l’Esserci e, pertanto, il problema non ha soluzione. Questo problema, nel suo aspetto esistentivo concernente la possibilità di costituire un tutto come in quello esistenziale concernente la costituzione d’essere della “fine” e della “totalità”, richiede un’analisi positiva di alcuni fenomeni esistenziali finora lasciati da parte. Avevo detto che c’era qualcosa che ancora non era stato pensato. Al centro di queste ricerche sta la caratterizzazione ontologica del modo di essere-alla-fine proprio dell’Esserci e il raggiungimento di un concetto esistenziale della morte. dobbiamo ripensare la morte, non ci basta il concetto biologico, dobbiamo pensarla in termini esistenziali, cioè, che riguardano l’Esserci, delle cose che ci dice la biologia non ce ne facciamo nulla. Queste ricerche si articolano nel seguente modo: l’esperibilità della morte degli altri e la possibilità di cogliere un Esserci intero;… Noi non esperiamo la nostra ma quella degli altri. … mancanza, fine, totalità;… Che sono le cose che deve ancora pensare. …delimitazione dell’analisi esistenziale della morte rispetto ad altre interpretazioni possibili del fenomeno;… Della morte dobbiamo parlarne, dice, in senso esistenziale, nel senso che riguarda l’uomo come Esserci. …delineazione della struttura ontologico-esistenziale della morte; l’essere-per-la-morte e la quotidianità dell’Esserci; l’essere-per-la-morte quotidiano e il concetto esistenziale integrale della morte; progetto esistenziale di un essere-per-la-morte autentico. (pagg. 285-286) Queste, secondo Heidegger, sono le cose ancora da pensare. E adesso le pensa. Paragrafo 47, L’esperibilità della morte degli altri e la possibilità di cogliere un Esserci intero. Pag. 286. Questa cosa gli preme, il trovare una possibilità di esperire un Esserci intero. Dopo tutto è la ricerca di sempre quella di un essere-tutto, un tutto finito, saldo, che però, per il suo stesso pensare, dovrebbe abbastanza improbabile. Sarebbe come fare del linguaggio un intero, un tutto. Possiamo anche dire che il linguaggio è un intero, un tutto, ma con questo che cosa abbiamo affermato? Niente. È qui che Heidegger manca la questione centrale, e cioè tutto ciò che rileva, che elabora, che pensa, sono sequenze linguistiche e, pertanto, ciò che conclude è a sua volta una sequenza linguistica, non è qualche cosa che è fuori del linguaggio e che è quello che è per virtù propria. È questo che manca sempre, anche in pensatori del calibro di Heidegger. Il raggiungimento della totalità da parte dell’Esserci mediante la morte è nel contempo la perdita dell’essere del Ci. Con la morte non c’è più l’Esserci. Il passaggio al non-Esserci-più sottrae all’Esserci la possibilità di esperire questo passaggio e di comprenderlo come esperito. Nel momento in cui io muoio non esperisco questa morte, quindi, questa di questa esperienza, di questa possibilità, non ne posso sapere nulla. Un’esperienza siffatta è preclusa al singolo esserci nei confronti di se stesso. Tanto più impressionante è perciò la morte degli altri. Essa ci fa vedere “oggettivamente” la fine dell’Esserci. L’Esserci, tanto più che esso è essenzialmente con-Esserci con gli altri, può esperire la loro morte. Chiunque può esperire la morte altrui. Questa datità “oggettiva” della morte deve quindi render possibile anche una delimitazione ontologica della totalità dell’Esserci. Il fatto di oggettivare questa cosa, per cui vedo una persona che muore e poi non c’è più, dice che dovrebbe rendere possibile una delimitazione della totalità dell’Esserci, cioè, prima c’era adesso non c’è più e quindi tutto è compiuto. Questa informazione ovvia, ricavata dal modo di essere dell’Esserci in quanto essere-assieme, che ci dice di assumere come tema sostitutivo dell’analisi della totalità dell’Esserci il giungere alla fine da parte degli altri, conduce alla meta che ci siamo proposti? Anche l’Esserci degli altri, una volta che con la morte abbia raggiunto la totalità, è un non-Esserci-più nel senso di non-essere-più-nel-mondo. Il morire non significa forse un andar via dal mondo, una perdita dell’essere-nel-mondo? Il non-essere-più-nel-mondo, proprio del morto, a rigor di termini, è ancora un modo di essere, ma nel senso dell’esser solo una semplice-presenza, una cosa corporea che si incontra nel mondo. Un cadavere. Con a morte degli altri diviene esperibile un fenomeno ontologico singolare, cioè il decadere di un ente dal modo di essere dell’Esserci (o della vita) al non-Esserci-più. La fine dell’ente come Esserci è l’inizio di questo ente come semplice-presenza. Qui c’è una cosa singolare: la persona è viva, poi è morta, quindi non c’è più come Esserci ma c’è come semplice presenza. Vi leggo tutte queste cose non tanto per il contenuto quanto per cogliere sempre meglio il modo di pensare di Heidegger, il modo in cui approccia le cose, è questa la cosa interessante. Rileva che questo Esserci a un certo punto muore e non c’è più, ma continua a rimanere, non più come Esserci ma come semplice presenza. Questa interpretazione del passaggio dall’Esserci all’esser solo una semplice-presenza fallisce tuttavia il suo contenuto fenomenico, perché l’ente che rimane non può essere considerato una semplice cosa corporea. Lo stesso cadavere semplicemente-presente, in teoria, è ancora un oggetto possibile di anatomia patologica, la cui considerazione scientifica continua a essere guidata dall’idea della vita. Ciò che qui è semplicemente-presente è qualcosa di “più” di una cosa materiale inanimata. Noi lo vediamo come un non-vivente, che è tale perché ha perduto la vita. Ma anche questa caratterizzazione di ciò-che-rimane-ancora non esaurisce pienamente la portata esistenziale del fenomeno. Dice che, sì, sembra una semplice presenza ma lo è davvero? Questa cosa inanimata, questo Esserci non più, è qualcosa che appartiene al nostro mondo, quindi, siamo noi. Il “defunto” che, a differenza del semplice deceduto, è stato rapito a “coloro che restano”, è oggetto del “prendersi cura” nella forma delle esequie, dell’inumazione e del culto funerario. E ciò, di nuovo, perché il defunto, nel suo modo di essere, resta “ancora qualcosa di più” di un mezzo di cui ci si prende cura come utilizzabile intramondano. Nel rimanere presso di lui, rimpiangendolo e ricordandolo, coloro che gli sopravvivono sono con lui nel modo dell’averne cura deferente. Continuano ad averne cura. Il modo di rapportarsi ai morti non può quindi assolutamente esser paragonato al prendersi cura dell’utilizzabile. Questo cadavere non è al pari di un utilizzabile qualunque, è qualcosa che comporta una cura, comporta un continuare a prendersene cura, in un modo o nell’altro. In questo con-essere col morto, il defunto in quanto tale effettivamente non “ci” è più. Con-essere significa invece sempre un essere-assieme in un medesimo mondo. Il defunto ha lasciato il nostro “mondo” e l’ha lasciato dietro di sé. Soltanto a partire da questo mondo i rimasti possono ancora essere con lui. Io posso essere ancora con il morto perché sono in questo mondo ed essendo in questo mondo continuo, dice Heidegger, a essere con lui. Quindi, continua questo con-essere, di cui l’Esserci, tra le altre cose, è fatto, con gli altri, che fanno parte del mondo, ovviamente. La morte si rivela certamente come una perdita, ma è qualcosa di più di quanto coloro che rimangono possono esperire. Nei patimenti per la perdita del defunto non si accede alla perdita dell’essere quale è “patita” da chi muore. Noi non sperimentiamo mai in senso genuino il morire degli altri; in realtà non facciamo altro che “assistervi”. E anche se fosse possibile e attuabile chiarire “psicologicamente” a noi stessi il morire degli altri assistendovi, non sarebbe affatto colta la maniera di essere di cui si tratta, cioè il giungere alla fine. Questo non lo sapremo mai, neanche morendo. Sta dicendo che anche nell’atto del morire si possa sapere che cos’è morire. Il problema è quello del senso ontologico del morire del morente in quanto possibilità d’essere del suo essere, e non in quanto forma del con-Esserci e dell’Esserci-ancora del defunto con coloro che rimangono. (pagg. 287-288) Ciò che dobbiamo pensare, dice, è il senso ontologico del morire del morente non in quanto biologica ma in quanto possibilità d’essere del suo essere. Lui vuole intendere ontologicamente l’essere della morte in quanto una delle possibilità, anzi, la più propria degli umani. Il proposito di assumere come tema dell’analisi della fine e della totalità dell’Esserci la morte esperita presso gli altri non può offrire, né onticamente né ontologicamente, ciò che con esso ci si ripromette di poter ottenere. Da questa parte, dalla semplice osservazione, non otteniamo niente. Soprattutto la pretesa di assumere il morire degli altri a tema sostitutivo dell’analisi ontologica della compiutezza e della totalità dell’Esserci riposa su un presupposto che implica il completo disconoscimento del modo di essere dell’Esserci. E cioè quello di essere una possibilità. Tale presupposto consiste nel credere che un Esserci possa esser indifferentemente sostituito da un altro, sicché ciò che non risulta esperibile nel proprio Esserci può esserlo invece in quello di un altro. Ma un presupposto del genere è davvero privo di ogni fondamento? Tra le possibilità di essere dell’essere-assieme nel mondo c’è certamente anche quella della sostituibilità di un Esserci con un altro. Nella quotidianità del prendersi cura si fa ripetutamente e costantemente ricorso a tale sostituibilità. Ogni andare verso…, ogni contribuire a... è sostituibile nel “mondo-ambiente” di cui si prende cura. … Conformemente al suo senso, tale sostituzione è però sempre una sostituzione “in” e “presso” qualcosa, cioè nel prendersi cura di qualcosa. L’Esserci quotidiano si comprende, innanzi tutto e per lo più, a partire da ciò di cui si prende cura. “Si è” ciò di cui ci si occupa. Questo è interessante. Lo rileggo: L’Esserci quotidiano si comprende, innanzi tutto e per lo più, a partire da ciò di cui si prende cura, come dire che la persona è ciò di cui si prende cura, è la cura con la quale affronta, approccia il mondo in cui è e di cui è fatto. Questo prendersi cura evoca la questione della volontà di potenza, cioè, io sono il modo in cui cerco la potenza, il modo in cui mi do da fare per ottenere potenza. Si potrebbe intendere così questa frase di Heidegger: io sono ciò di cui mi occupo, ma ciò di cui mi occupo è qualcosa che mi serve per ottenere potenza. Quindi, io sono tutto ciò che mi è utile per ottenere potenza, sono il modo in cui cerco di raggiungerla, io sono una ricerca della potenza, nient’altro che questo. Viceversa questa possibilità di sostituzione è irrimediabilmente votata al fallimento quando sia in gioco la possibilità di essere che è costituita dal giungere alla fine da parte dell’Esserci e che, come tale, gli conferisce la sua totalità. La morte, appunto. In questo non posso sostituirmi e esperire la sua morte. Ognuno può, sì, morire per un altro ma ciò significa sempre sacrificarsi per un altro per una determinata cosa, ma questo “morire per” non può mai significare che all’altro sia così sottratta la propria morte, l’altro poi morirà per i fatti suoi e la sua morte sarà sua, non posso io farmi carico della sua. Ogni Esserci deve assumersi sempre in proprio la morte. Qui sta il senso, di cui diceva prima, della morte intesa ontologicamente come possibilità, cioè, devo assumere la mia morte come possibilità. Nella misura in cui la morte “è”, essa è sempre essenzialmente la mia morte. Essa esprime una possibilità di essere caratteristica, in cui ne va dell’essere puro e semplice dell’Esserci sempre proprio di qualcuno. Nel morire si fa chiaro che la morte è costituita ontologicamente dal carattere dell’esser-sempre-mio e dall’esistenza. Il morire non è un semplice accadimento, ma un fenomeno che va compreso esistenzialmente e per di più in un senso eminente da fissare con maggior precisione ancora.