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9 agosto 2001

 

Siamo gli unici in condizioni di indicare la verità e di poterlo provare. E di questo sicuramente potremo avvalerci. Ora, certo, non è che si possa porre la questione in termini così radicali lungo una seduta di un’analisi. Una persona viene da voi e dice che c’è un problema, non è proprio così, in realtà il problema è già risolto quando viene da voi. Viene da voi allo scopo di sbarazzarsi della responsabilità di quella soluzione che ha trovato, come dire che la nevrosi cosiddetta, come abbiamo detto numerose volte, non è altro che la soluzione del problema, però di questa soluzione non può ammetterne la responsabilità e allora, ecco, si rivolge all’analista perché sia lui ad assumersi tale responsabilità. Di fatto è questa la questione, sapete qual è la questione? La questione è che non c’è nessun problema solo che, come dicevo, non può assumersene la responsabilità. Tutto qui, non c’è altro. È noto che ciò che una persona fa, pensa, dice, una nevrosi per esempio, è la soluzione al problema, solo che di questa soluzione non può accoglierne la responsabilità. Se potesse farlo cambierebbe tutto, tutti i suoi tic, tutte le sue storie, le sue paure, ecc., sarebbero opera sua. In effetti, il lavoro che si tratta di fare è questo, instaurare la responsabilità assoluta di ciò che fa, non mi sembra ci sia altro da fare in una psicanalisi. Si tratta forse di eliminare un sintomo? E a che scopo? Se volesse eliminarlo lo avrebbe già fatto, giusto? Se non lo fa avrà dei buoni motivi per non farlo. Il suo sintomo, il suo malessere, non è altro che il modo in cui avverte le sensazioni, le emozioni, come sappiamo non ha nessuna intenzione di sbarazzarsene e difatti non ha neanche da sbarazzarsene ma accoglierne la responsabilità, è questo il primo passo. Per dirla in termini un po’ rozzi, se è questo che vuoi fare perché te ne lamenti? Ma sappiamo bene che il lamento è sempre in questa direzione, è come se continuasse a dire “non sono io che lo voglio”. Ora, come si pone tutto questo rispetto a ciò che dicevamo prima, cioè, della verità? Apparentemente non c’entra nulla, c’entra nella misura in cui sappiamo esattamente quello che stiamo facendo e noi sappiamo che accogliere la responsabilità di ciò che sta facendo quella persona è l’unica cosa che può fare per cessare di girare in tondo, per cessare di vivere in un modo magico dove le cose accadono di per sé, fuori del linguaggio. Gli umani vivono in un mondo magico fatto di fate, di fiabe, di orchi, di uomini neri, che vengono creati inesorabilmente nel momento in cui c’è la magia, cioè si immagina che le cose accadano fuori dal linguaggio e quindi in una struttura religiosa. Ecco che cosa c’entra con ciò che dicevo poc’anzi, ciò che ci muove ad agire in questo modo è l’assoluta certezza della verità, una verità incontrovertibile. È questo che ci muove a sapere, non possiamo non saperlo, che in realtà la persona che si rivolge a noi non ha nessun problema, assolutamente nessuno, ma ha bisogno di due cose, primo, di raccontarlo a qualcuno del quale possa immaginare che sia interessato a ciò che dice; secondo, il fatto che non accoglie la responsabilità di ciò che sta facendo o dicendo. Abbiamo detto mille volte che ci chiede di sbarazzarlo di un certo problema in modo che possa essere certo e sicuro, stabilito, garantito che non è responsabile di ciò che accade. Come diceva prima Sandro, la responsabilità della formazione, una formazione che escluda il pensiero, la formazione istituzionale esclude il pensiero, la possibilità di pensare, esclude la possibilità di mettere in discussione ciò che si afferma, ciò che si impara: sono sicuro perché è questo che bisogna sapere e quindi è inutile chiedersi altro. Come si fa perché una persona possa accogliere la responsabilità di ciò che afferma, di ciò che fa? Qui interviene più la retorica che la logica. Vedremo anche la tecnica in questo senso però è importante intendere questo, che è la sola cosa da fare, non ce ne sono altre, il resto non ha alcun interesse. Sapete perché? Perché una persona abbandona un sintomo solo a vantaggio di un altro, cessa di prendere l’eroina solo se prende la coca. Non rinuncia al sintomo per nulla al mondo, è l’unica fonte che ha per trarre piacere, non ne ha nessun’altra e quindi non ci rinuncia a costo della sua stessa vita. Quindi levatevi dalla mente di togliere il sintomo a meno non gliene mettiate immediatamente un altro al suo posto, per cui avviene una conversione. (…) pensate soltanto a una persona che abbandona un analista o una corrente psicanalitica per andare in un’altra, a questo punto abbraccerà tutto ciò che incontrerà e non si interrogherà affatto su questa nuova verità. Questo potrebbe giocare a nostro vantaggio se e soltanto se riusciremo a fare in modo che possa percepire ciò che andiamo dicendo, è tutt’altro che semplice perché è addestrato a pensare alla verità come a qualcosa di magico anziché come qualcosa di logico. Nessun umano può pensare alla verità fuori dalla magia, nessuno può pensarla in termini logici, per gli umani è un controsenso, una follia: la verità è tale solo se pensata in termini magici. Noi invece non facciamo questo, questo è il problema che incontra la persona che viene in contatto con noi, che poniamo la verità prettamente logica e non magica. Non siamo magici e nemmeno ipnotici, siamo logici, retorici all’occorrenza. Ora, stabilito questo, due cose da affrontare nel prosieguo: una come fare in modo che la nostra verità, che è logica e non magica, venga accolta lo stesso; secondo, l’aspetto clinico, cioè come fare in modo che la persona possa accogliere la responsabilità. Può essere che siano le due facce della stessa questione. La verità magica elude la responsabilità, la verità logica no, sono io che giungo a questa considerazione, a questa conclusione, attraverso il mio pensiero del quale mi assumo la totale responsabilità. In effetti, sono chiaramente due aspetti della stessa questione. (…) Quindi, la responsabilità nel pensiero è di dire, la responsabilità di ciò che si pensa rispetto a questioni teoriche, responsabilità del proprio fare, dire, muoversi, ecc., per quanto riguarda la questione clinica, però mi sembra che abbiamo colto come le due cose funzionino esattamente allo stesso modo. Se una persona potesse seguire le nostre argomentazioni e accorgersi che è il suo pensiero che giunge a concludere ciò che è inevitabile compie quella stessa operazione che compie quell’altra che in analisi accoglie la responsabilità di ciò che sta affermando, del suo sintomo, della sua paura, dei suoi acciacchi, ecc. Non pare la stessa cosa? (…) ponendo la magia come idea, come superstizione che le cose accadano fuori dal linguaggio poniamo in modo assolutamente non solo corretto ma anche persuasivo… (…) Tenete conto che ci sono almeno i due terzi della popolazione mondiale crede alla magia… (…) Trovare qualcosa che mostri la magia come qualcosa di assolutamente paradossale, insostenibile... Questo non avviene ovviamente affermando che la magia è un modo di pensare che le cose accadano fuori del linguaggio, non gliene importa niente a nessuno… Occorre trovare una formulazione più semplice, più banale che affermi in modo ineccepibile che la magia è qualcosa di contraddittorio, di paradossale. A questo punto resta qualcosa di abbastanza efficace, sbarazzandoci della magia, mostrando che la verità, qualunque tipo di verità, è magica e che pertanto non resta che la nostra. (…) Se noi riusciamo a persuaderla che il suo modo di pensare è un modo magico e lo sbarazziamo della magia può incominciare a pensare in termini logici, cioè linguistici. (…) Certo, non lo abbandonerà (il pensiero magico) finché trarrà da lì le sue emozioni, le sue sensazioni… (…) Cosa c’è di più forte delle emozioni? (…) C’è l’eventualità che siamo riusciti a compiere questa operazione incredibile perché stavamo inventando qualcosa di nuovo, che non c’era prima, quello che mi sto chiedendo è se una persona cambia il proprio modo di pensare se non ha in cambio delle emozioni, il che ci costringerebbe a tornare sulla questione delle emozioni in termini molto più precisi. Se così è occorre trovare qualcosa che funzioni, che ne so?, l’idea di avere trovato una nuova verità, qualunque cosa. Sto considerando l’eventualità che se non c’è un’emozione non si cambia modo di pensare; in questo caso dovremo trovare un qualcosa che faccia scaturire delle emozioni, per esempio, il pensiero di trovare una nuova verità, una nuova verità assoluta… (…) Dipende da come noi la presentiamo, se la presentiamo in termini logici no, se è presentata in termini emotivi allora sì. Sì, dovrete fare qualcosa del genere. (…) Non vogliamo adepti ma siamo messi in un gioco nel quale ci sono varie scommesse teoriche, uno, è riuscire a modificare il modo di pensare di un certo numero di persone… Per fare adepti? No, ma per vedere se si riesce e se sì in che modo, inventando altre regole, altri giochi, perché? Perché questo ci diverte, ci emoziona. (…) L’equazione che una persona fa è molto semplice e è questa, se perdo il linguaggio perdo le emozioni, se non c’è qualcosa che mi rinvia perdo il linguaggio e quindi perdo le emozioni, quindi muoio. La paura della morte, come la paura di qualunque cosa, è sempre la paura che il linguaggio si fermi, non è possibile nessun altra paura, la morte è esattamente questo, la cessazione del linguaggio, come idea. Sì, certo, può spaventare, non so se è il caso di indorare la pillola, però è un gioco che stiamo facendo, un gioco fine a se stesso. Personalmente che ci siano quattro o quattromila persone che seguano questa cosa mi è assolutamente indifferente, però è come se ciascuna volta questo gioco alzasse la posta, sempre più alta. (…) Quindi, valutare se sì valutare come utilizzare questa questione dell’emozione, se come immagino che sia in questo momento non c’è modo di modificare il proprio pensiero se non c’è qualcosa in cambio e questo qualcosa in cambio è un’emozione… Se fosse così allora le persone potrebbero emotivamente accostarsi al discorso che stiamo facendo; in questo caso dovremmo porre la questione della verità assoluta in altri termini, cioè in termini assolutamente retorici, fortemente emotivi. Ci penseremo lungo le notti di ferragosto. (…) Per questo dicevo occorre riprendere la questione dell’emozione e rifletterci in modo molto più preciso, è chiaro. Sicuramente è qualcosa che sposta, che sposta immediatamente da una posizione a un’altra… (…) Occorre lavorare sulla questione dell’emozione, ne sappiamo ancora molto poco per intendere come funziona, qual è la sua struttura, soprattutto perché funziona, che è ancora più interessante.