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9 giugno 2021

 

L’essenza della verità di M. Heidegger

 

La domanda di Heidegger era intorno alla ψευδής δόξᾰ, all’opinione falsa, e qui fa un esempio: viene incontro qualcuno ma non si sa se si tratta di Teeteto o di Socrate, perché si assomigliano un po’. Ecco, allora, l’opinione falsa: penso sia Teeteto e, invece, è Socrate, o viceversa. A pag. 297. Da un lato, dunque, l’esistenza di vedute distorte… Traduce ψευδής con distorto. …è un dato di fatto indubbio, che ha addirittura il suo fondamento nella natura dell’uomo; dall’altro lato risulta questa sua osservazione: qualcosa come una veduta distorta no ci può essere affatto. Socrate, che naturalmente sa già che nella veduta distorta convivono a un tempo la sua effettiva realtà e la sua impossibilità, è dunque assolutamente in diritto di essere turbato ora, e già da molto tempo, da questo fenomeno enigmatico di fronte al quale non sa che pesci pigliare. Non c’è la visione distorta perché io, al tempo stesso, vedo Socrate ma penso che sia Teeteto e, quindi, io ho ragione perché vedo qualcuno ma anche no, perché non è quello che pensavo che fosse. A pag. 298. Noi uomini siamo così, e precisamente riguardo a tutte le cose e a ciascuna di esse: noi conosciamo oppure non conosciamo qualcosa, e quindi abbiamo davanti a noi questa duplice possibilità: che qualcosa sia conosciuto o non conosciuto. Ciò è così evidente e ovvio che Teeteto approva subito e dice “non rimane nient’altro… Tertium non datur, dirà poi Aristotele. …se non appunto questo: che noi qualcosa o lo conosciamo o non lo conosciamo. Conoscere e non-conoscere si escludono dunque a vicenda. Questa riflessione offre per così dire il principio guida per la considerazione successiva. Questo è il principio guida da cui Platone era partito, dal principio del terzo escluso: o lo conosco o non lo conosco; non posso conoscerlo e non conoscerlo. Poi, vedremo che alla fine trova una via d’uscita. A pag. 299. “Che uno conoscendo qualcosa non lo conosca, o non conoscendo qualcosa lo conosca, questo è impossibile”. Non posso conoscere Socrate ma simultaneamente anche non conoscerlo: o lo conosco o non lo conosco. A pag. 302. “Nel quadro della prospettiva ora esposta (o conoscere o non conoscere) sembra essere del tutto impossibile che uno sia di una veduta falsa”. A pag. 303. In greco: dell’oggetto della δόξᾰ fa parte la pariglia τερον - τερον. L’oggetto a cui si riferisce una veduta è propriamente un oggetto duplice: qualcosa (l’uno) che viene ritenuto qualcos’altro. La δόξᾰ ha, nella sua essenza, due oggetti. Per questo Platone fa uso dell’espressione άμφότερα. ‘Αμφότερα è un altro termine che usa Platone che vuol dire “basculare”, movimento dialettico tra l’essere e il non essere. A pag. 305. Deve essere svolta un’indagine sulla ψευδής δόξᾰ; dunque che cosa significa ψευδής? Ricordatevi la spiegazione del termine data in precedenza: ψευδος è la distorsione, ciò che è stravolto, distorto; qualcosa che appare come… dietro il quale però non c’è nulla, e quindi è il nullo; ψευδειν vuol dire annientare, vanificare. Adesso Socrate riprende questo significato di ψευδής (nullo, vano) che è evidentemente corrente nel linguaggio quotidiano e generalmente accettato. Una ψευδής δόξᾰ è allora anch’essa una veduta nulla, dunque una veduta in cui si suppone e si intende περί τινος qualcosa di nullo; ψευδής δόξᾰζειν significa: opinare qualcosa di nullo. Il nullo però è il non-ente. Questo è il secondo punto. Non posso opinare qualcosa che non è perché, se opino ciò che non è, opino nulla e, quindi, non c’è nessun opinare, non c’è nessuna δόξᾰ. Tenete conto che Platone sta tentando in tutti i modi di porre rimedio ai presocratici. Giusto per fare intendere, pensate a ciò che diceva Eraclito: Tutto è uno. È come se Platone stesse dicendo: no, un momento, separiamo bene le cose, e alla fine lo farà. Vedremo come. Socrate domanda: può mai un uomo avere περί τν ντων του, in riferimento aa un qualche ente, la veduta di un non-ente? Anzi può mai un uomo opinare il non ente in se stesso? Certo, risponderemo: questo caso si verifica quando, in una ipotesi, si suppone qualcosa di non vero; non vero, cioè non manifesto, non presente, non ente. Dunque si dà, diremo noi, qualcosa come l’opinare il non ente. Ma qualcosa del genere, domanda Socrate, succede anche in altre circostanze? Che cioè uno opini qualcosa, e nel fare questo opini il non ente? Che noi nel rappresentare rappresentiamo un non ente? Dunque qualcosa di questo tipo: che uno vede qualcosa e nel fare questo però non vede nulla? Opinare il non ente: si dà qualcosa del genere? E come poi! Se opino qualcosa di distorto, opino comunque qualcosa, dunque qualcosa che è, ν τι. Allora però non posso opinare qualcosa che non è. A pag. 307. L’interpretazione della veduta distorta come veduta nulla, cioè come veduta di qualcosa di nullo, conduce a questo, che essa viene soppressa in se stessa in quanto nulla. Cioè: questa ipotesi si annulla da sola. Questo risultato negativo della seconda indagine non è guadagnato ora sulla scorta del primo principio guida (o conoscere o non conoscere), ma in base al principio che qualcosa è o non è. Vedremo che anche questa alternativa (essere o non essere), per quanto sia per i Greci una cosa assodata ormai da secoli, viene scossa: tra essere e non essere c’è un fra, così come tra conoscere e non conoscere. Questo fra è il fondamento della possibilità dello ψευδος. Adesso vediamo che cos’è. A pag. 308. Poiché egli ammette che lo ψευδής è nullo, che ψευδής δόξᾰ significa un opinare nullo, e che il nullo equivale al non ente, μή ν, ne risulta che tale veduta, in quanto distorta, non può assolutamente avere alcun oggetto. Ciò che non è qualcosa è nulla; il non ente, che guida la prospettiva, viene semplicemente equiparato al nulla. Non viene assolutamente posta la domanda se il non-ente sia e possa essere anch’esso un ente. Infatti, come potrebbe altrimenti una veduta distorta essere per esempio combattuta, se essa fin da principio “è niente”! sono curiose queste cose che compaiono così. Qui è Heidegger che parla, naturalmente. È importante che l’altro affermi qualcosa e che questo qualcosa che afferma sia, in modo da potere essere combattuto. È curioso. Non è assolutamente ovvio che debba poter esserci un termine medio “fra” conoscere e non conoscere e fra essere e non-essere; che poi questo “fra” sia qualcosa di più di un semplice “fra” è una cosa che rimane completamente nascosta all’ovvietà dell’intelletto comune. Il quale, naturalmente, non si pone domande del genere. Nella ψευδής δόξᾰ ha a che fare con l’uno al posto dell’altro. Questa è il terzo punto: vedere una cosa la posto di un’altra, vedo Teeteto al posto di Socrate. Si tenta di fissare la peculiarità dell’oggetto di una opinione, cioè che essa ha due oggetti: l’uno al posto dell’altro. Con ciò si è definito al tempo stesso anche in che cosa consiste questo ψευδος, la distorsione: ciò a cui si mira viene mancato (invece di Teeteto, Socrate). A pag. 314. Da tutto ciò ricaviamo sia l’ampio significato di λόγος, cioè che per i Greci questa originaria essenza del dire e del discorrere, e quindi del linguaggio, non viene determinata primariamente a partire dalla comunicazione vocale, non riposa cioè nella sua manifestazione sonora o visiva, nei segni della scrittura e simili; sia, al tempo stesso, la cognizione che l’essenza del linguaggio viene vista come intimamente radicata nell’essenza dell’anima. Che il comportamento dell’anima, il quale proviene completamente da essa, nega determinato come un dire, un domandare e un rispondere, un dire-sì e dire-no non può meravigliare se è appunto l’anima a reggere e a determinare l’essenza dell’uomo, e se l’uomo è per i Greci quel vivente che esiste disponendo del dire, cioè che tende, dicendo, al suo essere più proprio. I Greci avevano già inteso la questione, la priorità del λόγος, e, infatti, da lì, quando si accorgono del λόγος, del pensiero, nascono i problemi. Come dicevamo l’altra, nel momento in cui si avvia il pensiero, nello stesso istante si pone la sua impossibilità. A pag. 316. Più precisamente: la spiegazione, nel terzo tentativo, vede che l’enigmaticità del fenomeno sta chiaramente nel fatto che esso ha due oggetti, l’uno e l’altro. Fissato questo aspetto, si tenta di evidenziare e di comprendere come vengano posti l’uno e l’altro. La spiegazione è questa: l’uno viene posto in luogo dell’altro. Questa spiegazione vede, sì, il compito nella direzione giusta, decisiva, ma non è sufficiente come soluzione. Ciò che è distorto è il modo in cui qui vengono spiegati l’oggetto duplice e la sua duplicità. Se infatti la ψευδής δόξᾰ è una veduta distorta, cioè distorce o scambia qualcosa per qualcos’altro, allora è proprio questa distorsione a non essere colta se ci si limita a dire che in tale opinare l’uno viene cambiato con l’altro. Se l’uno viene posto in luogo dell’altro, in fondo è sempre soltanto uno che viene posto, mettendo da parte e tralasciando l’altro; sempre l’uno in quanto uno, e poi al suo posto l’altro. In breve, il cambio non è scambio; questo non è colto da quello nel suo aspetto essenziale. Qui si incomincia a intravedere la questione: l’eliminazione della duplicità. Non vedo due simultanei, che conosco e non conosco, ma ne vedo uno e non l’altro. Si incomincia a separare. A pag. 318. Siamo noi, con la nostra tesi dell’impossibilità, a dover cedere di fronte al dato di fatto che essa appunto c’è. Tuttavia, la necessità di questa ritirata non è di per sé palese, ma lo è soltanto se si presuppone che la tesi stessa, ovvero le prospettive con cui lavorano i nostri tentativi, non erano sufficientemente fondate e che dal canto suo anche il dato di fatto fenomenico non è stato colto finora adeguatamente. Un dato di fatto come tale non ha sempre la precedenza rispetto a una visione dell’essenza, già per la ragione che per noi non esistono “dati di fatto puri e semplici”; ogni dato di fatto è già compreso in quanto questo e quest’altro, cioè sta sotto l’egida di una conoscenza dell’essenza. Qualora la conoscenza dell’essenza sia fondata, per il “dato di fatto” vale la tesi di Hegel: “Tanto peggio per i dati di fatto”. A pag. 320. A ben guardare, questo principio guida è solo una variante di quel principio guida che entrava esplicitamente in gioco nel secondo tentativo: “qualcosa è o non è”, ovvero in altre parole: “qualcosa non può al tempo stesso essere e non essere”, oppure: “il non ente non è”. Questo principio contiene però fino a Platone, e in particolare fino al nostro dialogo, la verità fondamentale di tutta la filosofia antica precedente. Con esso hanno avuto inizio la filosofia antica e in generale quella occidentale: l’ente è, il non ente non è (Parmenide). Se ora viene revocato questo principio fondamentale di tutto l’essere e, a maggior ragione, del conoscere, comincia a vacillare l’intero fondamento del filosofare precedente. Da ciò possiamo stimare a quale si stia accingendo qui Socrate/Platone. Ma al tempo stesso possiamo anche presagire quale potenza prodigiosa e inquietante s’irradiasse dal fenomeno dello ψευδος (della non-verità), se esso costringeva a un simile passo, quello cioè di mettere in discussione il principio fondamentale di tutto il filosofare precedente. Possiamo altresì valutare a quale miseria scadano i posteri, per i quali la non-verità è diventata un’innocua ovvietà, il mero contrario della verità. Qui, certo, c’è una questione importante e Heidegger fa bene a segnalarla. Cosa segnala? Segnala quello che ha fatto Zenone, e cioè che è impossibile separare il finito dall’infinito. Sono già loro, i presocratici, ad avere scardinato la possibilità di pensare. Platone ha cercato di ricucire la cosa. A pag. 322. Che cosa si è ottenuto ora in merito a questa domanda (per la possibilità di una veduta distorta) mediante la revoca del principio guida? È stato revocato il principio guida, cioè, non è più il nostro principio guida ammettere che qualcosa è oppure non è; ha già detto che c’è qualcosa in mezzo, un “fra”. Questa revoca non è puramente negativa, bensì è al tempo stesso positiva: essa è in sé proposta di nuove possibili prospettive sul fenomeno. Quali? Quando si dice che il principio guida (“qualcosa o lo conosciamo o non lo conosciamo”) non è valido, si ammette al tempo stesso che fra conoscere e non conoscere c’è ancora qualcos’altro – qualcosa che non è né solo conoscere né solo non conoscere, ma per così dire è una mescolanza di entrambi: “piuttosto è possibile in qualche modo un fenomeno intermedio”. Ci sono, in assoluto, tali fenomeni intermedi? Certo! Teeteto deve ammettere che c’è il dato di fatto della μάθησις, dell’imparare, dell’imparare a conoscere: È possibile che uno impari a conoscere qualcosa che prima non conosceva”. Questo è un modo per approcciare la questione: quando si impara al tempo stesso si conosce e non si conosce, cioè, si è a metà, non si conosce bene ma neanche si conosce nulla. Sono i tentativi di Platone di trovare un qualche cosa che possa ricucire lo squarcio che gli eleati e i sofisti avevano aperto. A pag. 326. Ci si è sforzati di mostrare che Platone ha ripreso da filosofi precedenti queste immagini riferite all’anima. Qui fa due esempi: quello che i imprime nella cera e quello della colombaia. Heidegger, invece, fa l’esempio della torre sul Feldberg, una montagnetta nella Foresta nera, dove Heidegger andava a passeggiare. Lui ce l’ha presente quando è lì davanti alla torre, ma, dice, quando siamo in quest’aula, non ce l’ho di fronte ma la posso pensare. Ecco che allora incomincia ad avanzare qualche cosa per combinare ciò che c’è insieme con ciò che non c’è. E, allora, verso quale direzione deve andare? Verso la rappresentazione. Io posso rappresentare ciò che non c’è e, quindi, di questa cosa che rappresento posso dire che c’è ma anche che non c’è: la torre di Feldberg non c’è, eppure c’è perché la sto pensando. A pag. 331. Ricordare è una modalità particolare della ripresentazione. Non ogni ripresentazione è necessariamente già ricordo, mentre è vero il contrario. Nella ripresentazione non ci atteniamo neanche alla memoria, come se cercassimo qua e là nel nostro intimo rappresentazioni ivi conservate delle cose; noi non siamo rivolti al nostro intimo, ma al contrario: quando ci ripresentiamo l’ente siamo del tutto via, rivolti verso di esso, fuori, verso la torre, per porci di fronte tutte le sue proprietà, il suo aspetto pieno. Anzi, talvolta accade addirittura che nella stessa ripresentazione vediamo l’ente ripresentato molto più chiaramente e pienamente che nella percezione presentante, immediata. Abbiamo improvvisamente davanti a noi ciò di cui non ci “accorgevamo” affatto nella visione immediata, in carne ed ossa. Ma ciò che abbiamo davanti a noi non sono rappresentazioni, piccole fotografie, scampoli di immagine e tracce di ricordi nell’intimo e quant’altro, bensì ciò a cui questo avere-davanti-a-sé rimane rivolto, e rivolto esclusivamente, è la torre stessa che è. È questo che ha davanti. Tenete sempre presente che ciò che in questo momento sta facendo Platone è cercare questo “fra”, che consente di mettere insieme, di coniugare l’essere e il non essere in modo tale che non restino opposti e simultanei e che quindi rendono ogni affermazione non dominabile. A pag. 332. Sappiamo che i Greci colgono la presenza immediata dell’ente nella visione (εδος) che esso offre. Nel farsi incontro dell’ente al presentare immediato, l’εδος giunge a noi, diventa ciò che “abbiamo” (avere e possesso). Se gli enti medesimi non sono da noi percepiti, ma solo “rappresentati” (ripresentati), in tal caso c’è ancora qualcosa come una visione (εδος), ma non in modo tale che in essa giunga a noi l’ente stesso, da sé, in carne ed ossa, bensì siamo noi a portarci verso di esso, senza abbandonare la nostra posizione di fatto. Lui era nell’aula, non si è mosso di lì, però, aveva davanti a sé la torre di Feldberg. Poiché essa non è la visione piena, immediata (εδος), ma appare soltanto tale, i Greci chiamano questa visione tratta da noi stessi: εδωλον (idolo). Perciò dice Platone: …nella similitudine, questo εδωλον dev’essere impresso e conservato come un’impronta nel blocco di cera nell’anima. Ciò che qui è una similitudine, nel modo comune e grossolano di spiegarla viene invece preso per la cosa stessa. Questo modo comune di pensare è passato poi perfino nella scienza, nella psicologia e nella gnoseologia. Ciò ha portato a questo: che non ci si è più accostati al dato di fatto della ripresentazione in generale, ma si è ridotto subito tutto a questo modello esplicativo e si è subito giunti alla tesi comunemente condivisa che quando non percepiamo qualcosa, ma lo rappresentiamo soltanto, possiamo naturalmente riferirci solo a rappresentazioni, e le rappresentazioni sono, com’è noto, “in noi” – sono qualcosa di psichico. Che però noi, malgrado tutto ciò, nella ripresentazione siamo rivolti all’ente stesso e non a qualcosa di psichico non viene affatto valorizzato nella caratterizzazione fondamentale del fenomeno della ripresentazione. Dice: noi siamo rivolti all’ente, non a qualcosa che è in noi; è l’ente ciò che ci chiama, per essere pensato, visto. A pag. 334. Abbiamo dunque la facoltà del ritenere. Questo propriamente non significa tanto conservare rappresentazioni e immagini nella memoria, bensì attenersi all’ente che non è dato in carne ed ossa. Ciò che in tal modo riteniamo, e possiamo ritenere, lo chiamiamo il ritenuto. Ecco l’idea del blocco di cera: si imprime e lì può essere ritenuto. Ciò che c’è di interessante è che lui aggira tutta la questione psicologistica: non sono cose mie, pensieri strani, cose psichiche; no, è l’ente, che io ho ritenuto come εδωλον e che in qualche modo mi chiama, che mi fa uscire fuori verso di lui. Poi, fa l’esempio della colombaia. Anche in questo caso, dice, io posso avere o non avere qualche cosa: i colombi li metto dentro la colombaia, ma una volta che sono lì, questi svolazzano di qua e di là e, quindi, propriamente non li ho sotto il mio controllo; tuttavia, li ho, sono i miei colombi. Queste cose incominciano a dirci che c’è la possibilità di un qualche cosa fra l’essere e il non essere. Che, poi, la questione è fra il vero e il falso. Ma vediamo come prosegue. A pag. 340. Adesso vediamo che il campo dell’ente al quale costantemente ci rapportiamo non viene affatto esaurito dall’ambito di quell’ente che teniamo nell’immediata presenza, ma essenzialmente più ampia. Per questo l’impostazione usuale della teoria della conoscenza, che si interroga su un soggetto, su un qualcosa di dato, è distorta. Noi stiamo già sempre in relazione con l’ente, anche quando magari non lo percepiamo. In ciò è insito però (a prescindere da molti atri aspetti importanti) qualcosa di strano: possiamo attenerci (rapportarci) all’ente, senza appunto percepirlo (pro-porcelo), ma proprio questo ente che è soltanto ritenuto può anche essere occasionalmente percepito di nuovo in un presentare – così come, viceversa, ogni ente percepito è ritenibile e permette un riferimento nel senso della ripresentazione. Qui ha detto una cosa importante, e cioè nella percezione c’è qualche cosa di più. In ciò che vedo, che ho davanti in carne ed ossa, c’è qualcosa di più, che trascende il mio vedere, ed è questo “di più” che consente di ritenere qualche cosa. A pag. 342. Di conseguenza ci sono modalità di comportamento fra il conoscere e il non conoscere, e precisamente, e questo è decisivo, in riferimento allo stesso ente. Il principio guida che dominava in precedenza la prospettiva sulla ψευδής δόξᾰ deve ora essere revocato non solo per il fatto che conduce a conseguenze impossibili, ossia alla negazione del fenomeno, ma perché ora sono mostrate positivamente le modalità di comportamento che esso non è in grado di cogliere e che escludeva nel suo proprio contenuto di principio. L’ente non è o appreso nell’αϊσθησις o non appreso affatto, e nemmeno è proposto o non proposto da noi solo nella riflessione (διάνοια), bensì il medesimo ente può tanto essere appreso nella presentazione, quanto essere solamente pro-posto nella ripresentazione. Con ciò si apre una nuova prospettiva: il medesimo ente può stare allo stesso tempo in riferimento all’αϊσθησις e alla διάνοια, entrambe possono confluire in una nuova modalità. La percezione e il pensiero cominciano a stare insieme. È come se sgretolasse un pezzo per volta questa impossibilità dell’essere e non essere simultanei. Poco per volta arriva alla questione. A pag. 346. Possiamo dunque dire ora, andando oltre Platone, che il δόξᾰζειν è un comportamento che nella sua unitarietà e contemporaneamente rivolto a qualcosa che si fa incontro in carne ed ossa, nel presentare, e a qualcosa di rap-presentato anticipatamente nel ripresentare. Detto in breve: questo comportamento della δόξᾰ è in sé biforcato. Questo opinare, la δόξᾰ, dice, è biforcato. Heidegger fa uno schemino: due linee, una più lunga dell’altra; quella breve punta all’ente, quella più lunga punta all’essere. Vale a dire che c’è un aspetto che punta all’ente, come il volere semplicemente sapere che cos’è una certa cosa; c’è poi un aspetto che punta all’essere, che è quel “di più”, che riguarda l’αϊσθησις, la percezione – io, sì, percepisco, ma percepisco di più –, ma questo “di più” che percepisco – purtroppo Heidegger non lo dice – è la condizione per percepire l’ente: è l’essere, è il linguaggio che mi dà la possibilità di conoscere l’ente. A pag. 348. La biforcazione è la condizione della possibilità della non verità, ma al tempo stesso la condizione della possibilità della verità: entrambe sottostanno alle stesse condizioni. Che significato ha la biforcazione? Essa è l’immagine della costituzione fondamentale dell’esserci umano, della sua struttura essenziale. La biforcazione punta all’ente ma punta anche sempre e necessariamente all’essere. E questo, dice lui, è tipico dell’uomo; tipico nel senso che non può l’uomo, puntando all’ente, non puntare anche all’essere, che è quel “di più” rispetto all’ente. Non lo può fare perché questo “di più” è il linguaggio, il linguaggio è il luogo di questo “di più”. Questo “di più” è la condizione per la percezione dell’ente. A pag. 349. Dunque ciò che si fa incontro non è solo semplicemente dato, bensì dà l’impressione, e precisamente l’impressione di essere sia Teeteto, sia Socrate. Propende senza decidere per l’uno e per l’altro, per entrambi. Questo elemento di indecisione fa parte del dare l’impressione, della datità di ciò che è dato in carne ed ossa in lontananza. Ma che cosa ci deve essere affinché diventi possibile tale dare l’impressione di essere questo o quello da parte di ciò che si fa incontro? Sia Teeteto sia Socrate devono essere già conosciuti (altrimenti ciò che si fa incontro non potrebbe avere l’aspetto sia dell’uno, sia dell’altro), ma appunto non devono esserci in carne ed ossa, perché altrimenti non ci sarebbe indecisione. Non dati in carne e ossa e tuttavia presenti – ripresentati; solo in una ripresentazione essi possono essere in generale rappresentati così come devono esserlo qui (nella ψευδής δόξᾰ). Se nel caso dato (come vuole l’esempio) io ho una veduta distorta, allora vedo ciò che ha l’aspetto di Teeteto (e di Socrate) come Socrate. In che cosa consiste dunque la distorsione della veduta? Guardando ciò che si fa incontro nel suo carattere e con la sua peculiare sembianza, lo vedo mancandolo (nel suo aspetto di Teeteto) e tuttavia, nel mancarlo, guardo a esso (in quanto Socrate). Questo mancare-di-vista nella modalità del vedere-in-quanto…è un tra-visare, cioè travisare ciò che è visto in carne e ossa e che sembra Teeteto e anche Socrate. Vogliamo evidenziare questo nuovo, autentico chiarimento dell’essenza dello ψευδος, per renderlo ancora più chiaro e distinguerlo dalla precedente spiegazione della ψευδής δόξᾰ come άλλοδοξία (opinione altra). … …non viene colto che io, travisando, non posso semplicemente guardare prescindendo da Teeteto, ma devo proprio guardare a ciò che dà l’impressione di essere Teeteto, per poter mancare-di-vista ciò che ha tale aspetto. Chi sbaglia il tiro al bersaglio può farlo soltanto mentre tira ad esso, e non se tira fin dall’inizio in un’altra direzione, cioè via da esso. Nel mero cambio invece volgo lo sguardo, e invero necessariamente, via dall’uno dei due, e proprio non lo volgo (o non lo volgo più) verso di esso. Il mero prescindere da qualcosa non ammette affatto un suo travisamento. Lo ψευδος consiste però in un travisare. Quando traviso qualcosa, lo vedo mancandolo, e in questo mancarlo-di-vista esso è proprio visto. Io lo vedo in quanto Socrate, ma è Teeteto. Qui arriva al punto di tutta la questione, al punto cruciale, perché da qui si vede il modo in cui nasce il concetto di vero e di falso. A pag. 352. Nella nostra interpretazione della via platonica verso il chiarimento dello ψευδος manca ancora però il passo decisivo. Bisogna domandare: quale interpretazione dà ora Platone stesso del fenomeno da lui colto del travisamento in quanto mancare-di-vista? Nel travisare ciò che si fa incontro, questo viene vito per quello che non è. È proprio ciò per cui esso viene visto “travisando” (cioè come Socrate) che deve essere tenuto di vista (cioè il Socrate che anticipatamente entra nella rappresentazione). Io lo manco, vedo Socrate anziché vedere Teeteto, però vedo Socrate in quel momento. Poiché però dev’essere rappresentato anticipatamente insieme anche Teeteto (altrimenti ciò che si fa incontro non darebbe l’impressione di essere Socrate), nel travisare accade che il Teeteto rappresentato non viene colto come quel “che cosa” che è propriamente rivolto a ciò che si fa incontro e che gli spetta, bensì l’attenersi-a-Socrate è un mancare Teeteto … come un arciere che manca il colpo, invece di tirare a Teeteto io tiro a Socrate. Così il travisare non centra ciò che è stato ripresentato anticipatamente e che dovrebbe essere attribuito (“predicato”) a ciò che si fa incontro. Il travisare è un non-centrare, un mancare il predicato che spetta. Qui entriamo nel campo dell’analogia, della similitudine. Il non-centrare è un mancare la direzione corretta: un essere non-corretto. Qui nasce la tecnica. Il guardare-a ciò che si fa incontro travisando (in quanto Socrate) è un chiamare non-correttamente ciò che si fa incontro. La non correttezza del predicato significa non correttezza dell’asserzione. Qui sarebbe stato importante che Heidegger avesse utilizzato la parola che usa Platone, che era senz’altro ρθτης, correttezza, adeguamento. Così Platone arriva a cogliere l’essenza dello ψευδος come non-correttezza del λόγος, dell’asserzione. Il λόγος diventa così sede e luogo dello ψευδος. L’essenza della non-verità è ora la non-correttezza e diventa, da carattere del mancare di vista che travisa, un carattere del λόγος, dell’asserzione. La non verità però è il contrario della verità: quindi anche la verità deve avere sede nel λόγος. Dunque la verità è correttezza dell’asserzione (Aristotele, Metafisica, VIII, 10, 1051 b 3-5). /…/ Con questa interpretazione dello ψευδος come non correttezza, come non-centrare il predicato spettante all’oggetto, come centrare ciò che non è rivolto, dunque distorto, procede di pari passo la concezione della δόξᾰ come asserzione; ciò significa che il carattere originario della veduta, del guardare-a… passa in secondo piano. In effetti, sì, ormai Platone aveva già posto la questione che a lui interessava, quella della correttezza: la verità è la correttezza, il falso è lo scorretto. Quindi, se parlo di correttezza, di che cosa sto parlando? Sto parlando di possibilità di verifica (tavole di verità, prove e controprove, fisica sperimentale). Qui nasce la possibilità di pensare la tecnica; da questo momento la tecnica è diventata possibile, perché è stato stabilito che il vero è ciò che è corretto. Non si chiede però in base a che cosa è corretto, che cosa decide di questa correttezza. Questa domanda non compare. Vi rendete conto di ciò che sta accadendo in questo momento? Sta accadendo che tutto il pensare umano, da Platone e Aristotele in poi, poggia sull’idea di verità come correttezza, stabilita da Platone nel Teeteto e in parte nella Repubblica con il mito della caverna. Ma poiché la verità diventa correttezza e, rispettivamente, la non verità non correttezza dell’asserzione, correttezza e non correttezza stanno semplicemente l’una accanto all’altra, anzi, in quanto direzioni, esse addirittura divergono in modo tale che perfino si escludono. Poi, naturalmente verrà Aristotele, che darà l’impianto definitivo. Con ciò però ci si impedisce di capire che e in quale modo la non verità appartiene all’essenza della verità, come dicevamo alla fine del mito della caverna. Là questa connessione ci si faceva incontro; questo ci ha dato l’occasione per domandare anzitutto come i Greci concepiscano in generale la non-verità. Vediamo ora una via di Platone, che al tempo stesso centra il fenomeno della verità e lo interpreta in direzione del λόγος, non in connessione con l’originaria essenza della verità, cioè con la svelatezza dell’ente. Perché Patone e i Greci non abbiano percorso questa via, l’abbiano “mancata” (se possiamo dire così) è un’altra questione. Limitiamoci adesso a domandare ancora solo questo: poteva Platone percorrere quest’altra via? La via per la quale si vede che l’essenza dello ψευδος, colta in modo genuino da Platone, è in connessione proprio con ‘essenza della verità in quanto άλήθεια, cosicché non sarebbe la verità a essere determinata partendo dallo ψευδος, ma viceversa lo ψευδος partendo dall’άλήθεια? Questa operazione che ha fatto Platone è stata quella di partire, come sappiamo, dallo ψευδος per tornare poi all’άλήθεια, cioè di partire dal falso, perché il suo obiettivo era eliminare il falso, potere mettere il falso da qualche parte e che non disturbasse il vero; infatti, divergono, si escludono: uno è corretto e l’altro è scorretto, uno è bene e l’altro è male. Questa è una via che sarebbe stato possibile percorrere. Perché non la si sia percorsa, non può essere discusso qui; è in fondo un mistero dello spirito stesso. No, non è un mistero lo spirito. Lo spirito è volontà di potenza. È la volontà di potenza cha ha bisogno della certezza per potere manifestarsi, per potere affermare “le cose stanno così”. Non c’entra nulla qui il mistero dello spirito.

Intervento: …

La sua domanda trova la propria risposta nel fatto che linguaggio e volontà di potenza sono la stessa cosa. Non ci sono l’uno e l’altro disgiunti, il linguaggio è volontà di potenza, la sua struttura, il modo in cui agisce è volontà di potenza. Anche i presocratici, anche loro erano mossi dalla volontà di potenza. Pensate a Zenone, a Protagora, a Gorgia. Loro dicono: guardate che tutto ciò che pensate non c’è, non ha nessuna possibilità di essere pensato. Questa è volontà di potenza, cioè, io mi pongo al di sopra di ogni possibilità di pensiero: io so che il pensiero non è possibile. Democrito si è fatto la sua costruzione: ogni cosa è frutto del caso, del caos. Anche questo è un modo di rappresentarsi il cosmo, l’universo. Ha dato una risposta: l’universo è casuale, come dire che le cose stanno così come dico io. Se Democrito avesse applicato i risultati del suo pensiero al suo pensiero stesso, sarebbe rimasto ammutolito, perché anche il suo pensiero sarebbe stato il risultato di un caos, e pertanto…

Intervento: Lui è emerso dal caos.

Esatto. Lui è emerso dal caos e l’ha visto. Ecco la volontà di potenza. Questa non può togliersi, ogni volta che si afferma qualcosa la volontà di potenza è in atto. E il linguaggio è un affermare continuamente, è una relazione per cui ogni volta che si dice qualcosa, questa porta su un’altra. Se si parla c’è volontà di potenza. È chiaro, quindi, che anche il mito è volontà di potenza: assoggettare gli dei all’immagine che ho di loro. Dicevamo della biforcazione. Lo ψευδος è un travisare nel vedere qualcosa in quanto qualcosa. Ciò di cui abbiamo immediatamente veduta viene visto “in modo travisato” come qualcos’altro. C’è poi la conclusione di Heidegger. A pag. 355. Solo che adesso la biforcazione non riguarda soltanto l’ente, la punta corta (ciò che si fa incontro in carne e ossa nella percezione) e la punta più lunga, di più ampia gittata (che ripresenta l’ente), bensì adesso abbiamo un allungarsi della vista essenziale sull’essere e al tempo stesso un accogliere l’ente di ogni specie. Della struttura essenziale del nostro esserci fa parte questa biforcazione originaria, cioè che l’esserci, nel rapportarsi all’ente, non importa in che modo, è già anticipatamente rivolto all’essere. Con questa biforcazione però è dato un lasco originario e quindi la possibilità non solo di travisare l’ente pertinente, come nella δόξᾰ, ma anche di travisare anticipatamente l’essere. Questa spiegazione che dà Heidegger non soddisfa, la risposta l’abbiamo ed è semplicissima. Perché vedo uno al posto dell’altro? Perché vedo e costruisco unicamente ciò che è funzionale alla volontà di potenza, ciò che per me è un utilizzabile. Heidegger, facendo il suo disegnetto, compie un’operazione che spesso fa la scienza: si fa un suo grafo e questo è un modello – potremmo dire, una costruzione fantastica, dopodiché questo modello, che originariamente è preso per quello che è (infatti, lui all’inizio dice che questo disegnetto è da prendere con cautela, non rappresenta uno stato delle cose) dopo accade che questo disegno diventa una rappresentazione dello stato delle cose, non è più soltanto una costruzione fantastica, e alla fine diventa la manifestazione di come stanno le cose. E, infatti, tutto il suo discorso si fonda su quel disegnetto. Lui stesso è preso in questa cosa, vale a dire, vuole attenersi al suo disegno e per attenersene manca tutta la questione che invece riguarda la volontà di potenza. Lui avrebbe potuto – non Platone, lui non poteva – accorgersi che ciò che ha accolto come vero è l’utilizzabile, è ciò che posso utilizzare per la volontà di potenza. Heidegger poteva intuirlo passando attraverso il progetto, progetto che richiede lo strumento per potere mettersi in atto; quindi, tutto ciò che serve al progetto, dal fatto di trovarmi sempre in un progetto-gettato, tutto ciò fa sì che questa gettatezza sia, e questo è ciò che viene colto immediatamente. Questo è ciò che viene colto: ciò che è utile, per dirla con Nietzsche, al mio superpotenziamento. Se io vedo Socrate anziché Teeteto è perché vedere Socrate in questo momento è utile al superpotenziamento. D’altra parte, anche tutte le spiegazioni fornite da Platone non è che soddisfino granché. Che cosa dice alla fine? Dice che manca il bersaglio. Certo, ma perché? Perché, dice, l’essere va al di là dell’ente? Sì, certo, è di più, e allora? Non c’è di fatto una spiegazione, non conclude niente, né Platone né Heidegger concludono alcunché. Dopotutto, questo errore viene semplicemente supportato dall’analogia: vedo qualcuno, ma mi sembra quell’altro, perché sono simili. Sì, certo, mi sbaglio, ma non è questo il problema. Il problema è cosa fa sì che io possa sbagliarmi, ed è qui che manca la risposta. Manco il bersaglio, ma per potere mancare il bersaglio occorre che ci sia il bersaglio, sì, certo, ma la questione centrale è che se manco il bersaglio non è un atto mancato. La questione del lapsus, dell’atto mancato, va riconsiderata, perché in effetti ciascun atto è costruito dalla volontà di potenza, cioè, è quello che è in virtù del mio superpotenziamento: questo è ciò che pilota ogni cosa, ogni cosa che vedo, che costruisco, che immagino, che penso, tutto. Tutto ciò è costruito dal linguaggio, che è la stessa cosa.