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9 maggio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Proseguiamo in questa parte in cui Heidegger sta inquadrando la questione della metafisica, un po’ storica, un po’ no. Infatti, più avanti farà un riferimento alla metafisica in Aristotele, in Tommaso e in Suarez. A noi interessa molto che cosa intenda Heidegger con metafisica, per il programma che intendiamo svolgere e che ci porterà a riflettere sulla metafisica come il funzionamento del linguaggio stesso. Non avrà più alcun senso parlare di uscita dalla metafisica, la metafisica non è altro che il linguaggio nel suo dirsi. Ogni volta che si afferma un concetto lo si afferma in modo universale, un concetto raggruppa universalmente tutte le cose che sono comuni ai singoli enti, ciò che è comune viene raggruppato in un concetto che riguarda tutti gli enti di quella specie. In questo modo si pone un universale e, ponendo un universale, fa una cosa importante, e cioè che tutte queste cose hanno sempre una certa proprietà e, quindi, a questo punto, sarebbe possibile sapere che cosa queste cose sono, che è esattamente ciò che fa la metafisica: dire che cosa sono le cose. La metafisica si occupa dell’ente, come dicevamo, non in quanto ente particolare ma dell’ente in quanto ente, che cos’è un ente e che cosa dà all’ente la sua enticità. Tradizionalmente, ciò che dà all’ente la sua enticità è l’essere. Ma qui siamo ancora alla considerazione della filosofia come metafisica e dice a pag. 29 La filosofia è il contrario di ogni sorta di conforto e di ogni consolazione. È il vortice nel quale l’uomo viene risucchiato, al fine di comprendere concettualmente l’esserci senza cadere in fantasticherie. Questa è la figura che utilizza: un vortice nel quale l’uomo viene risucchiato. Quindi, non è, e qui ribadisce un concetto che abbiamo incontrato nelle pagine precedenti, non è un attivarsi intorno a una certa cosa particolare oppure un’altra, come fa la fisica, la biologia, ecc., non ha a che fare con queste cose, non è una di queste cose. La filosofia, il pensare, con filosofia Heidegger intende il pensare, è qualcosa che letteralmente risucchia. Infatti, diceva: qualcosa che mentre si afferra concettualmente se ne è afferrati. Proprio perché la verità, che è propria di un tale afferrare concettuale, è qualcosa di ultimo e di estremo, ha come costante e pericolosa compagna la suprema incertezza. Tra coloro che ricercano la conoscenza, nessuno si trova in ogni istante tanto vicino all’errore come colui che filosofa. … Non conosciamo ancora questo elementare esser pronti per la pericolosità della filosofia. Poiché non ci è noto, e tanto meno presente, non è mai oggetto di dialogo tra coloro che si occupano di filosofia, ma che non filosofano se non raramente, oppure mai. Sarebbero coloro che non vengono trascinati nel vortice del pensiero, cioè che non pensano fino in fondo. Fino a quando mancherà questo elementare esser-pronti per l’intima pericolosità della filosofia, non avrà mai luogo una vera discussione filosofica, per quanti articoli vengano sguinzagliati l’uno contro l’altro nei periodici e nelle riviste. Ognuno di loro vuole dimostrare all’altro qualche verità, e, nel far ciò, dimentica l’unico vero compito, il più difficile, che è quello di sospingere il proprio esserci e quello degli altri nell’orizzonte di una fruttuosa problematicità. Questo per dire che l’unica cosa che conta per l’esserci, cioè per l’uomo che è gettatezza, non è altro che il pensare, il problematizzare, il pensare quelle stesse cose che appaiono come le più ovvie, le più scontate, le più banali, cioè, quelle a cui non si pensa più. Molti dei termini che Heidegger ha ripreso erano termini a cui non ci si pensava più. Lo stesso essere: nessuno se ne occupava più prima di lui, se non in modo molto marginale, come una questione che o era già stata acquisita oppure di scarso interesse, scarso interesse a fronte delle scienze esatte, la fisica, la matematica, ecc., che dell’essere non se ne occupano minimamente. Siamo a pag. 30, § γ) L’ambiguità dell’atteggiamento critico in Cartesio e nella filosofia moderna. A proposito di scienza dice Non è un caso che con il venire alla luce, in Cartesio, dell’intendimento robusto ed esplicito di elevare la filosofia al rango di scienza assoluta, si sviluppi anche una peculiare ambiguità della filosofia. Cartesio ebbe fondamentalmente l’intuizione di fare della filosofia una conoscenza assoluta. Non a caso è stato Cartesio che ha avviato il discorso scientifico così come lo concepiamo oggi. E proprio in lui possiamo osservare un fatto singolare. Il filosofare inizia con il dubbio, e sembra che tutto venga posto in questione. Se uno dubita sembra che ogni cosa, essendo dubitabile, venga messa in questione, in gioco ma, dice Heidegger, è solo un’apparenza. L’esistenza, l’io (l’ego) non viene affatto posto in questione. L’io dell’io penso, il cogito ergo sum, questo io che cogita non viene messo in questione, viene posto come ipostasi, come già dato, come acquisito, non viene pensato tutto questo in Cartesio. Questa apparenza illusoria e questa ambiguità dell’atteggiamento critico si trascinano attraverso tutta la filosofia moderna, fino ai giorni nostri. Al massimo è un atteggiamento critico-scientifico, ma non è critico in senso filosofico. Critico in senso filosofico è da intendere come qualcosa che viene pensato ancora; ciò che sembra dato, conosciuto, già noto, viene pensato ancora, come dire che lascia ancora da pensare. È sempre e soltanto il sapere, l’esser-coscienti delle cose, degli oggetti o magari anche dei soggetti a venir posto in questione (se non addirittura lasciato semplicemente in sospeso e neppure preso in considerazione), e questo unicamente per rendere più rigorosa e convincente quell’esigenza di sicurezza presupposta fin da principio. Ma l’esserci stesso non viene mai posto in questione. Il parlante, l’uomo, non è un qualche cosa di fisso, che è quello che è, ma è storicizzato, cioè, è il prodotto di tutto ciò che si porta appresso da quando ha iniziato a parlare, ma anche quando ha iniziato a parlare si porta appresso tutto ciò che la sua lingua, la lingua che usa, a sua volta si porta appresso: parliamo l’italiano ma non è che l’italiano sia nato l’altro giorno, viene da altre lingue, dal latino, e questo da altre, dall’osco, lingue che non si conoscono più. C’è stato, quindi, un percorso, un cammino; l’uomo si trova a un certo punto situato lungo questo cammino, ma lui è tutto questo cammino, non può esimersi dal prendere in considerazione che lui è tutto questo cammino e che il suo destino è quello di trovarsi incessantemente preso in questo cammino. Dice che l’esserci stesso non viene mai posto in questione. Questo io, che Cartesio presuppone, non è pensato come un qualche cosa che ha una sua storia, che viene da una sua storia, e che considerarlo così, come appare adesso, è una sciocchezza, perché mi appare in un certo modo, non soltanto perché io sono storico, nel senso di storicizzato, ma anche lui stesso viene da una storia. Un atteggiamento fondamentale di tipo cartesiano in filosofia non potrà mai porre in questione l’esistenza dell’uomo, perché, così facendo, distruggerebbe in partenza le sue intenzioni più proprie. Fondare, dunque, la scienza sull’io, sul soggetto conoscente che conosce l’oggetto. Questo io non è quella cosa fissata, che io pre-suppongo che sia, ma è un’altra cosa, quella cosa che è sempre in fieri, sempre preso in una continua modificazione, alterazione, sul quale, quindi, non posso fondare nulla. Potremmo fare qui un richiamo alla questione semiotica: nel momento in cui dico “io” intendo un qualche cosa che non è io. Qui si tratterebbe di fare un richiamo all’idealismo, magari leggeremo Gentile, che può essere interessante. Quindi, dicendo io si suppone di dire qualcosa che è quello che è, ma sappiamo, già con Peirce ma anche lo stesso Heidegger, che dicendo io mi trovo proiettato su un’altra cosa, su un’altra cosa che è, secondo l’idealismo, non-io, un’altra cosa rispetto all’io. Come dire che ho bisogno di un qualche cosa, che non è l’io, per dire che cos’è l’io. Ecco perché Heidegger dice che se Cartesio avesse posto l’io come l’esserci non avrebbe mai potuto fondare la scienza, perché a questo punto non ci sarebbe stato quel soggetto, ben separato dall’oggetto, e quindi non ci sarebbe stata la possibilità dell’osservazione, della manipolazione e della elaborazione dell’ente. Tale atteggiamento, come ogni filosofia dell’erra moderna a partire da Cartesio, non mette in gioco proprio nulla. L’io di Cartesio non viene mai messo in gioco. Al contrario, l’atteggiamento fondamentale di Cartesio sa, o crede di sapere a priori, che tutto può venir dimostrato o fondato in modo assolutamente rigoroso e puro. Per dimostrarlo adotta il metodo critico in una maniera non vincolante e tantomeno rischiosa; così critico da presumere di avere a priori la certezza che non gli accadrà nulla. Comprenderemo in seguito perché le cose stanno così. Fintantoché ci atteggiamo in questo modo verso noi stessi e verso le cose, ci collochiamo al di fuori della filosofia. Cioè, non pensiamo. Perché dice che in questo modo non può accadergli niente, non rischia nulla? Perché non pensa, non rischia di mettere in gioco, per esempio, l’io in quanto esserci, perché scombinerebbe tutti i suoi piani di una fondazione della filosofia come scienza esatta. Era questa l’idea di Cartesio; ricordate, lui diceva “dubito di tutto ma non posso dubitare del fatto che sto dubitando”. Heidegger, tra le righe, è come se gli chiedesse: perché no? Perché non dubitiamo anche dell’io? Perché lo presupponiamo per sostenere tutto? Chi ci ha detto che questo io è proprio quello che noi pensiamo che sia? Perché è così che funziona: l’io di Cartesio non è niente altro che ciò che lui, Cartesio, pensava che fosse. A pag. 31 § 7. Lo sguardo gettato sulla molteplice ambiguità del filosofare è scoraggiante… L’ambiguità del filosofare per Heidegger è costituita da questi due aspetti: il primo è il voler fare della filosofia una scienza; il secondo, il porsi della filosofia come una visione del mondo. Sarebbe uno sbaglio coler attenuare anche solo parzialmente questa impressione che il filosofare si trovi in uno stato di assoluta disperazione, o magari voler accomodare le cose in un secondo tempo, affermando che in fondo la situazione non è poi così grave e che nella storia dell’umanità la filosofia ha compiuto molte e altre cose. Questo è soltanto chiacchiera che col suo discorrere distoglie dalla filosofia. Questo sgomento va piuttosto, al contrario, mantenuto e sopportato. Qui allude a ciò di cui parlerà, e cioè alla tonalità emotiva, che occorre avviare perché sia possibile pensare. Occorre una tonalità emotiva, non c’è pensiero senza una tonalità emotiva, quando penso sono sempre in uno stato emotivo, posso essere contento, triste, arrabbiato, ecc. Ciascuno di questi stati d’animo non è indifferente rispetto a ciò che penso e al modo in cui penso le cose. Proprio in esso (lo sgomento) si manifesta infatti un carattere essenziale di ogni afferrare concettuale proprio della filosofia, cioè il fatto che ogni concetto filosofico è un attacco rivolto in direzione dell’uomo ed esattamente dell’uomo nella sua totalità, che viene espulso dalla quotidianità e ricacciato nel fondamento delle cose. È come dire che ciò che occorre fare, pensando, è il trovarsi cacciati dalla quotidianità, dalla chiacchiera, dalla deiezione, ed essere invece trascinati nel vortice del pensare, un vortice dal quale è impossibile sottrarsi se si esce dalla chiacchiera. Ma chi compie questo attacco non è l’uomo, l’equivoco soggetto della quotidianità e della beatitudine del sapere, bensì è l’esser-ci nell’uomo che, nel filosofare, indirizza il suo attacco verso l’uomo. Nel fondo della sua essenza l’uomo è dunque un essere attaccato e afferrato; attaccato dal “fatto che è ciò che è”, è concettualmente co-incluso in ogni interrogare concettualmente afferrante. Ma questo esser-incluso in ogni interrogare concettuale non è una sorta di timore beato, bensì la lotta contro l’ambiguità insuperabile di ogni interrogare e di ogni essere. Ci sta dicendo che non si tratta qui di immaginare l’uomo come l’io che esamina l’oggetto, dal quale è distaccato e separato, ma l’esser-ci non è mai disgiunto da ciò che afferra concettualmente, e infatti dice che co-afferrato dalla cosa che afferra concettualmente. Pertanto, questo esser-ci è certamente il progetto gettato ma può essere un progetto intorno a molte cose e una di queste è l’uomo. E, infatti, dice a pag. 33, il filosofare stesso è piuttosto un modo d’essere fondamentale dell’esser-ci. Se c’è esser-ci, in modo autentico direbbe lui, non può non esserci pensiero, non può non esserci quello che in Essere e tempo chiamava il rivenire dell’Esserci su se stesso, l’Esserci che pensa se stesso. Quindi, il pensare, il problematizzare le cose, è qualcosa che fa parte integrante dell’esserci, della sua storicità, compresa la metafisica, naturalmente. E aggiunge È la filosofia che, per lo più occultamente, fa sì che l’esser-ci divenga per la prima volta ciò che può essere. Ma l’esser-ci in questione non sa ciò che l’esser-ci dell’uomo può essere nelle singole epoche; le sue possibilità si formano proprio soltanto e unicamente nell’esser-ci. Ribadisce il qui e adesso dell’esserci; l’esserci è qui e ora. Non so quale sarà il mio progetto tra un po’ di anni o quale sia stato in tempi addietro; perché l’esserci è sempre un qualche cosa che è qui e adesso ed è con questo che debbo fare i conti. Infatti, dice Ma queste possibilità sono quelle dell’esser-ci effettivo, cioè del confronto che deve compiere con l’ente nella sua totalità. Cioè, con il mondo, con il mondo di cui io sono fatto, con questo io ho a che fare continuamente ma sempre qui e adesso. Passiamo al Capitolo Terzo, a pag. 36. Titolo: Giustificazione del carattere totalizzante dell’interrogare concettuale intorno a mondo, finitezza, isolamento come metafisica. Origine e storia della parola “metafisica”. E dice I concetti filosofici, concetti fondamentali della metafisica, si sono rivelati come totalità concettuali… La totalità concettuale è un universale. Dicevo prima del concetto, che raggruppa in sé la totalità di tutte le proprietà di vari elementi particolari; tutti questi elementi particolari hanno in comune una certa cosa, l’essere un qualche cosa. Per esempio, l’essere di questo posacenere è qualcosa che non riguarda solo questo posacenere ma qualunque posacenere pensabile; tutti questi posacenere sono riuniti in un concetto, che è quello di posacenere. Almeno platonicamente funziona così. Quindi, un concetto è sempre totalizzante, necessariamente, deve essere un tutto, deve raggruppare tutte le possibilità dei posaceneri immaginabili. Definiamo perciò l’interrogare metafisico come interrogare concettualmente totalizzante. La metafisica cerca concetti, cerca la totalità, il tutto. Può aver colpito il fatto che abbiamo continuato a equiparare filosofia e metafisica, pensiero filosofico e pensiero metafisico. Nella filosofia, accanto alla metafisica, vi sono infatti anche la “logica”, l’“etica”, l’“estetica” e la “filosofia della natura” e “della storia”. Con quale diritto concepiamo il filosofare per antonomasia come pensare metafisico? Perché diamo alla disciplina della metafisica una tale priorità su tutte le altre? Si chiede poi perché la chiamiamo metafisica, ci sarà pur un motivo per cui questo pensare concettuale totalizzante lo chiamiamo metafisica. E, allora, ecco, al § 8. La parola “metafisica”. Il significato di ϕυσικά. Dice intanto che la parola metafisica non è una parola originaria ma che è una parola che è intervenuta tardi rispetto al pensiero filosofico. Dice, infatti, L’espressione “metafisica” non è tuttavia una parola originaria, sebbene noi vogliamo indicare con essa qualcosa di preciso. Risale al costrutto greco che, scomposto, suona così: μετά τά ϕυσικά, oppure, nella sua espressione completa: τά μετά τά ϕυσικά. Per il momento non tradurremo tale costrutto, che si è in seguito contratto nell’espressione “metafisica”. Ricordiamoci unicamente che serve a definire la filosofia. Adesso chiarisce la parola greca ϕυσικά. Iniziamo il chiarimento di questa connessione terminologica con l’ultima parola: ϕυσικά. In essa è presente il termine ϕυσις, che abitualmente traduciamo con natura. Questa parola, a sua volta, viene dal latino natura – nasci: nascere, sorgere, svilupparsi. Questo è anche il significato fondamentale del greco ϕυσις, ϕυειν, significa ciò che cresce, la crescita, ciò che è cresciuto nella crescita. Quindi, comporta il divenire, la ϕυσις è il divenire. Intendiamo qui per crescita il crescere nel suo significato più ampio ed elementare che viene alla luce nell’esperienza originaria dell’uomo; non solo la crescita delle piante e degli animali, il loro nascere e perire come mero processo isolato, bensì la crescita come accadere del mutare delle stagioni, compenetrato e dominato da esso, dell’alternarsi di giorno e notte, del corso delle costellazioni, di uragani e tempeste e dell’infuriare degli elementi. Tutto questo insieme è il crescere. In una parola è il divenire, ciò che diviene, ciò che si trasforma. Con più chiarezza e avvicinandoci al senso inteso in origine, traduciamo ora ϕυσις, non più come crescita, quanto piuttosto con il “prevalere dell’ente nella sua totalità che dà forma a se stesso”. Questa è la traduzione di ϕυσις che propone Heidegger, non più come natura, crescita, divenire, ecc., ma il prevalere dell’ente nella sua totalità che dà forma a se stesso. C’è, quindi, un prevalere dell’ente; in effetti, quando l’ente appare questo apparire possiamo dire che prevale, per esempio prevale rispetto a ciò che resta in ombra, è un prevalere, viene alla luce. Viene alla luce nella sua totalità, cioè, ciò che mi compare è compiuto in sé, e questa totalità è ciò che dà forma all’ente stesso, informa l’ente, gli dà forma, in quanto l’ente appare con una forma. Si è mai visto qualcosa che appaia senza forma? No. In Aristotele una delle quattro cause era la causa formale: la forma è necessaria perché se la materia non avesse forma non sarebbe niente, non si vedrebbe, e non si coglierebbe nulla. Natura non solo non viene intesa nel senso odierno di oggetto delle scienze naturali, ma neppure in senso esteso, prescientifico, e neppure in senso goethiano; questa ϕυσις, questo prevalere dell’ente nella sua totalità viene invece sperimentato dall’uomo, in modo altrettanto immediato e connesso con le cose, su se stesso e i suoi simili, coloro che sono con lui. Gli accadimenti che l’uomo esperisce su di sé, procreazione, crescita, infanzia, maturità, invecchiamento, morte, non sono accadimenti nel senso odierno, ristretto, di processi naturali, specificamente biologici, bensì fanno parte del prevalere universale dell’ente, che con-afferra concettualmente in sé il destino dell’uomo e la sua storia. Tutto ciò che accade potremmo dire che è un prevalere dell’ente: è l’ente che in quel momento prevale, cioè, appare, appare su tutto. Ma questo apparire dell’ente non è un qualche cosa che ha a che fare con la fisica o con altre discipline; ma l’ente può apparire perché l’esserci è storico, perché c’è una pre-comprensione, perché, in altri termini ancora, qualche cosa mi appare a condizione, direbbe Heidegger, dell’essere che apre un orizzonte, ma questo essere che apre un orizzonte non è altro che il significato, è anche il linguaggio. Quando parliamo di linguaggio, a proposito di Heidegger, parliamo anche di storicità, il linguaggio è anche storicità, non nasce dal nulla ma da tutta una serie di cose che si porta appresso. Quindi, potremmo dire che questi accadimenti possono accadere perché l’uomo è già da sempre nel linguaggio. È per questo che io posso vedere, sentire le cose, perché sono già nel linguaggio, da sempre, non c’è un momento in cui non lo sono. Poi, parla del λόγος come il trarre fuori dalla velatezza il prevalere dell’ente nella sua totalità. Nella misura in cui esiste come uomo, l’uomo si è già da sempre espresso nella ϕυσις, sulla totalità che predomina, alla quale egli stesso appartiene; e ciò non soltanto e in primo luogo perché discorre sulle cose, bensì perché lo stesso esistere come uomo significa: manifestare ed esprimere ciò che prevale. Cioè, esistere come uomo significa parlare, quindi, esprimere ciò che prevale. Il λόγος, in effetti, è ciò che porta in luce, mette in luce le cose, le fa apparire, perché se non c’è la parola le cose non appaiono, non c’è niente se non c’è la parola, è la parola che dà la luce alle cose e che, quindi, consente alle cose di apparire. Infatti, dice Alla ϕυσις, al prevalere dell’ente nella sua totalità, appartiene questo λόγος. Non può non appartenere, perché ciò che prevale, ciò che appare non potrebbe apparire senza il λόγος; è il λόγος che, illuminando, mette insieme queste cose e le fa vedere. Dobbiamo porci la domanda: cosa compie questo λέγειν, questo esprimere? Cosa accade nel λόγος? Si tratta solo del fatto che viene espresso in una parola, viene formulato ciò che l’ente è nella sua totalità? Venire alla parola: cosa significa? Ciò che i Greci inizialmente, e non solo a partire dalla filosofia più tarda, ma dacché hanno filosofato, e cioè sulla base della loro comprensione dell’esserci, attribuirono al λέγειν, al portare alla parola e questa sua funzione fondamentale la desumiamo con chiarezza inconfutabile a partire dal concetto opposto, che già i filosofi più antichi contrapponevano a λέγειν. Qual è il contrario di λέγειν, il “non far venire alla parola”? come lo comprendono i Greci, per l’appunto coloro che adoperano la parola ϕυσις, che abbiamo poc’anzi chiarito? Otteniamo su ciò un chiarimento da un detto del già citato Eraclito: “Il signore del quale è l‘oracolo di Delfi, non esprime, né vela, bensì dà un segno”. È dunque chiaro: il concetto opposto a quello di λέγειν, di “portare alla parola”, è κρύπτειν, il mantenere velato nella velatezza. Da ciò consegue necessariamente che la funzione fondamentale di λέγειν è quella di trarre fuori dalla velatezza ciò che prevale. Il λόγος tira fuori ciò che prevale, ciò che mi appare necessariamente, lo tira fuori dalla velatezza; se non ci fosse il λόγος questa cosa non apparirebbe mai. Per un animale non appare il sole tutte le mattine, non appare la pioggia, no può apparire; gli animali sono tutte queste cose, questo è il loro ambiente, sono tutte queste cose insieme; cosa manca? Manca quella cosa che la metafisica ha incominciato, fin da subito, probabilmente con l’inizio del linguaggio, a porre, e cioè una distanza, la distanza tra la a e la b. Questa distanza è quella consente di chiedersi che cosa è a e di rispondersi che è b.  È solo quando c’è questa distanza, quando c’è la metafisica, c’è poco da fare, che è possibile la conoscenza, che è possibile il pensiero, che è possibile tutto, per cui a quel punto è possibile anche la possibilità, cosa che altrimenti non c’è. A pag. 41, § c) λόγος come il dire ciò che è non-velato (αλήϑεια). Αλήϑεια (verità) come preda che deve venir strappata alla velatezza. Sono tutte figure che Heidegger usa, anche interessanti. Strappare alla velatezza: è il linguaggio che strappa le cose alla velatezza, perché senza linguaggio questa velatezza, κρύπτειν, la rende inaccessibile; non solo la rende inaccessibile ma senza linguaggio non ci sarebbero mai state. Quindi, potremmo dire, forse in modo più preciso: torniamo alla nostra formuletta, quella di Peirce, e che ci è stata utile in varie occasioni, a è b, questo è quest’altro. Ora, la b è ciò che strappa la a alla velatezza, ma di quale velatezza si parla? Se non ci fosse la b a dire che cos’è la a, questa a rimarrebbe velata, cioè, non sarebbe niente, non significherebbe nulla. Quindi, la b toglie la a dalla velatezza, la fa esistere in quanto a, nella forma del λόγος. Cosa significhi propriamente che il λόγος sia disvelante lo desumiamo da un altro detto di Eraclito: “La cosa più alta di cui l’uomo è capace è il meditare (sulla totalità), e la saggezza consiste nel dire e fare ciò che è non-velato in quanto non-velato, in conformità al prevalere delle cose, prestando loro ascolto.” Dice in conformità al prevalere delle cose, cioè in conformità a ciò che appare. In effetti, l’αλήϑεια non è niente altro che l’apparire si ciò che appare nel modo in cui appare, perché non può apparire in un altro modo se non in quello che appare, qualunque esso sia, se appare, appare in quel modo. La cosa più alta di cui l’uomo è capace è dire ciò che è non-velato e insieme agire κατά ϕυσις, cioè l’inserirsi nel e il conformarsi all’interno del prevalere e al destino del mondo in generale. Ciò che prevale appare in un destino, cioè, questo apparire è già destinato dalla sua storicità, e il suo destino non è niente altro che il proseguire in questa storicità. È l’essere storico, è l’essere fatto di tutto ciò che lo “ha preceduto”, preceduto non soltanto in senso cronologico ma anche nel senso che è stata la condizione perché potesse essere così come mi appare in questo momento. Soltanto ora abbiamo raggiunto la connessione intrinseca nella quale la parola originaria ϕυσις si trova nella filosofia antica: ϕυσις, il prevalere di ciò che prevale; λόγος, la parola che trae fuori dalla velatezza questo prevalere. È chiaro che queste due cose vanno insieme, perché se non ci fosse il λόγος a tirare fuori questo elemento che prevale non saprei niente neanche della ϕυσις, non saprei niente di niente, più propriamente. Tutto ciò che accade in questa parola è oggetto della σοϕία, cioè dei filosofi. La σοϕία è il sapere. In altre parole, la filosofia è la meditazione sul prevalere dell’ente, sulla ϕυσις, per esprimere questa nel λόγος. Si nota una prossimità al discorso che faceva Peirce, che dice delle cose che vanno nella stessa direzione. Quando dice che la filosofia è la meditazione sul prevalere dell’ente, sulla ϕυσις, per esprimere questa nel λόγος, noi vediamo nuovamente la formuletta a è b, dove la a sarebbe ciò che appare, il prevalere della a, ma questo prevalere della a, della ϕυσις, può essere tale solo se compare una b, che dice cosa è la a.  È come dire che è soltanto nel λόγος, cioè solo per via del fatto che posso dire che a è b, che posso vedere la a. Tutto ciò ci dice come il vedere le cose avviene nel linguaggio, nella parola, non vedo le cose senza la parola. Chiaramente, questo vedere le cose è per Heidegger sempre all’interno del proprio progetto e, quindi, io le vedo relativamente a ciò che io sono diventato. I Greci comprendono la verità come una preda che deve venir strappata alla velatezza, in un confronto nel quale proprio la ϕυσις tende a velarsi. La verità è il più profondo confronto dell’essere umano con la totalità dell’ente. La verità per i Greci è una preda che deve venir strappata alla velatezza. E chi opera, chi consente questo strappo? È il λόγος, la parola; è solo la parola che fa venire in luce le cose. Se le cose non vengono portate alla luce dalla parola, rimangono in ombra per sempre, e cioè non ci sono mai; quindi, è soltanto con il λόγος che qualcosa viene strappato alla velatezza. Potremmo dire, anche se dovremmo essere più cauti, che viene strappato al non-essere. Ma atteniamoci alla velatezza: è velato, quindi, è nascosto. Lo diceva anche Eraclito: φύσις κρπτεσθαι φλει, la natura ama nascondersi. Cosa vuol dire? Vuol dire che se non c’è il λόγος la natura, cioè il prevalere dell’ente, non c’è, non prevale, non prevale nulla senza la parola. È soltanto la parola che illumina, la Lichtung. La Lichtung è la parola, è lei che illumina e, illuminando, ci fa vedere e, quindi, conoscere. Poi, considera due significati della parola ϕυσις: ϕυσις come ciò che prevale nel suo prevalere; potremmo anche dire: ciò che appare nel suo apparire. Come dicevo prima, ciascuna cosa appare in un modo e non in un altro: questo aggeggio mi appare così come mi appare. Ma mi appare così non di per sé, mi appare così sempre nel progetto: quando un attimo fa ho preso in mano questo orologio, ecco, in quel momento è entrato a far parte di un progetto, per esempio quello di fare un esempio; quindi, mi appare come un utilizzabile all’interno di un progetto. È sempre da tenere sempre in chiaro, per quanto riguarda Heidegger. A pag. 44. Il primo significato di ϕυσις: i ϕύσει ṏντα, gli enti di natura (in contrapposizione ai τέχν ṏντα) come concetto regionale. I τέχν ṏντα sono il prodotto della τέχν, che traduciamo con “tecnica” ma che propriamente non è ciò che oggi intendiamo con tecnica; in greco antico, τέχν indicava ciò che è prodotto dall’uomo. La ϕυσις, invece, è ciò che si produce da sé. Prendete il famoso esempio dell’albero: l’albero nasce da solo, non ha bisogno dell’uomo; il tavolo, invece, non nasce da solo, è un falegname che lo costruisce, e questa è la τέχν. Φυσις, ciò che prevale, non significa soltanto ciò che prevale, bensì ciò che prevale nel suo prevalere o il prevalere di ciò che prevale. Quindi, l’apparire di ciò che appare, non solo ciò che appare ma l’apparire di ciò che appare. Propriamente per ciò che concerne l’esperienza immediata, ciò che prevale in modo ultrapotente, assume il nome di ϕυσις. Ma questo è la volta del cielo, sono le costellazioni, è il mare, la terra, ciò che minaccia costantemente l’uomo e che tuttavia contemporaneamente lo protegge, lo incoraggia, lo sostiene e lo nutre, ciò che così, minacciandolo e così sorreggendolo prevale da sé senza l’intervento dell’uomo. Φυσις, la natura, viene ora compresa già in un senso più ristretto, che tuttavia è pur sempre più ampio e più originario rispetto al caratteristico concetto di natura della scienza naturale moderna. Questo, dunque, è il primo significato di ϕυσις. A pag. 45. Il secondo significato di ϕυσις, dice, è il prevalere in quanto tale come essenza e legge interna della cosa. Quindi, qualcosa che prevale, l’apparire di qualche cosa coì come appare, come essenza e legge interna della cosa. Adesso vediamo in che senso dice questo. Nell’espressione ϕυσις viene cooriginariamente e altrettanto essenzialmente compreso anche il prevalere in quanto tale, che fa sì che ogni ente che prevale, sia ciò che è. Ora ϕυσις non significa più un ambito tra gli altri, e in generale non significa più alcun ambito dell’ente, bensì la natura dell’ente. Natura ha ora il significato di essenza più profonda, come quando diciamo “la natura delle cose”, e non intendiamo con ciò soltanto la natura delle cose naturali, bensì la natura di tutti gli enti e di ogni ente. Parliamo della natura dello spirito, dell’anima, della natura dell’opera d’arte, della natura della cosa. Qui ϕυσις non significa ciò che prevale, bensì il suo prevalere in quanto tale, l’essenza, la legge interna di una cosa. Legge interna di una cosa è un modo che potrebbe essere travisato pensando che un ente abbia una causa sui, un qualcosa in sé che lo fa essere quello che è. Non è così in Heidegger, qui pone l’accento sul fatto del prevalere, cioè dell’apparire, di ciò che mi appare nel modo in cui mi appare, non tanto perché c’è una legge che dice questo… Diciamola così: qualcosa appare così come mi appare indipendentemente dalla mia volontà. Ora, il fatto che sia indipendente dalla mia volontà non significa che io non c’entri, perché mi appare nel modo in cui mi appare per via di quella che lui chiama “legge interna” ma che potremmo meglio intendere come l’esserci: appare nel modo in cui appare perché l’esserci che io sono è fatto in un certo modo, procede da certe cose, ha fatto certe esperienze, ha letto certe cose, ha pensato certe cose, ne ha fatte altre, ecc. Tutte queste cose costituiscono in un certo senso quella che lui chiama “legge interna”, che non è una legge insita nelle cose che non si sa da dove arrivi. Dunque, dice che questi due concetti di ϕυσις, il primo come il prevalere di ciò che prevale, e il secondo significato come il prevalere, certo, ma come qualcosa che si impone in questo prevalere, perché appare nel modo in cui appare per via del fatto che appare come utilizzabile. Tutto questo per avvicinarci sempre di più alla questione della metafisica, a ciò che a noi interessa propriamente, e cioè intendere come la questione della metafisica, al punto in cui siamo in questo percorso, di questo progetto, sta giocando un suo ruolo. Stiamo facendo un gioco, un gioco in cui cerchiamo di intendere, sempre di più e sempre meglio, come ciò che è stato inteso come metafisica, come trascendenza, come la totalità, come l’universale, ecc., abbia improntato tutto il pensiero in assoluto e lo continui a improntare perché il pensiero, e quindi il linguaggio, di per sé funziona così. È il linguaggio che deve totalizzare, deve universalizzare, per stabilire un qualunque concetto che, come dicevo all’inizio, è un universale. Ponendolo come un universale già sto facendo tradizionalmente della metafisica.