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9 marzo 2022

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 549. Le pagine che ci rimangono da leggere sono in realtà poche ma molto dense, molto interessanti. In queste pagine c’è tutto ciò che occorre per intendere il funzionamento del linguaggio, che non troverete né nei libri di linguistica, né in quelli di semiotica, meno che mai in quelli di filosofia del linguaggio. E, invece, sono qui, in queste pagine. Certo, in termini teoretici, per cui possono apparire talvolta astratte, ma non lo sono affatto perché mostrano ciò che accade a ciascuno quando pensa, parla, afferma qualunque cosa. La volta scorsa Platone ha citato Antistene, il quale è importante, non per quello che ha sostenuto filosoficamente, che è abbastanza irrilevante, ma è importate perché ha detto come gli umani pensano, e cioè pensano che quando affermano una certa cosa, quella certa cosa sia quella, immaginando di avere dei buoni motivi per affermarla. In realtà, questi buoni motivi non ci sono mai, però per accorgersene che non ci sono occorre un lavoro non indifferente, occorre cioè abbandonare, per dirla con Heidegger, la chiacchiera, e cioè ciò che appare evidente: le cose stanno così, quello è quello, chiuso il discorso. In effetti, ciò che fa Platone è in parte riprendere Antistene e cercare di dargli un fondamento teorico importante, sostenibile, perché in fondo la dialettica punta, come abbiamo detto varie volte, a mostrare come stanno le cose. Antistene diceva che l’uomo è l’uomo, questo è questo. Non c’è possibilità di dire altro rispetto all’uomo se non dire che l’uomo è l’uomo. Antistene era abbastanza ingenuo rispetto a questo. Perché dice uomo anziché dire, per esempio, carro? Se dice uomo avrà i suoi motivi, perché sa che uomo significa certe cose; quindi, c’è già un significato, c’è già un’articolazione, ci sono già degli elementi di cui deve tenere conto solo per potere dire uomo. Questo perché, come dice giustamente Platone, non è che la parola di per sé sia isolata, la parola è parola in quanto è parola di qualcosa, è λέγειν τί, un dire di qualcosa. La questione complessa è sempre quella di compiere quel passo che Antistene non ha fatto e che probabilmente non poteva fare, ma che Platone forse avrebbe potuto fare, sicuramente Heidegger avrebbe potuto, ma che nessuno di loro ha saputo, voluto fare, e cioè che ogni volta che affermo qualcosa c’è un mondo che mi travolge, che mi coinvolge, un mondo sterminato di cose. Quando Heidegger afferma che ciascuno è il mondo sta dicendo questo, che ogni volta che si apre bocca si mette in gioco un mondo di cose, di cui il più delle volte si ignora l’esistenza e, ignorandone l’esistenza, ecco che si immagina che ciò che si dice si riferisca a quella cosa e che voglia dire quella cosa lì: io affermo questo e, allora, questo è questo. È un’affermazione naturalmente problematica, però è ciò che si fa ininterrottamente, perché solo a questa condizione posso immaginare di dominare la situazione, solo se questo è questo, perché questo fosse, come è, una quantità di cose, non so più cosa devo dominare, a quel punto mi scappa via tutto di mano e, scappandomi di mano tutto, che succede? Da una parte, il panico, cioè devo ristabilire un ordine per potere dominare; dall’altra, però, c’è anche l’occasione di accorgersi che quella cosa che io affermo non è quella cosa che io affermo ma è un’altra cosa, che è inserita all’interno di un mondo che io ho cancellato per fare spazio unicamente a quella cosa che io voglio che sia quella cosa lì. È questo il problema del linguaggio, quando Platone si accorge, nell’ultima parte, quando deve concludere, e deve concludere perché non se ne viene più fuori, che nel linguaggio ci sono solo relazioni, quella cosa che lui chiama πρόϛ τί, πρόϛ relazione e τί qualcosa: ogni cosa è in relazione a qualcosa, per essere quello che è deve essere altro, cioè, è quello che è a condizione di non essere quello che dico che sia. Questo, come dicevo, è il problema del linguaggio, problema in senso heideggeriano, cioè, come ciò che è da pensare. Tutte queste questioni che riguardano il linguaggio, Heidegger le coglie, le mette a tema, le individua, ma non le problematizza, cioè, non le interroga radicalmente come avrebbe potuto fare. Non lo fa perché il farlo avrebbe comportato una cosa che solo alcuni hanno intravisto e dalla quale cosa si sono ritratti inorriditi: un abisso senza fine e senza fondo, e cioè quella cosa di cui ciascuno vive senza saperlo. Ma sono questioni che riprenderemo perché sono proprio queste ciò di cui si tratta. Dice, dunque, Heidegger. È indiscutibile – questo è il punto di partenza fenomenico da tener fermo – quanto segue: entrambi recano evidentemente in sé τατον e θάτερον, lo stesso e l’altro. Qui si riferisce alla στσις e alla κίνησις (quiete e movimento). Quindi, entrambi recano in sé lo stesso e altro. Sono entrambi lo stesso e altro. Già qui aveva inteso tutto: ciascuna cosa occorre che sia se stessa per potere essere altra. Perché se dico che qualche cosa è altro, è altro da che? Da sé, naturalmente, come prima istanza; quindi, questo sé deve essere qualche cosa di determinato, sennò non posso dire che è altro da sé, perché se non c’è questo sé, che è determinato, è altro rispetto a niente. Con questo però non vogliamo dire che il moto, questo unico e medesimo movimento come tale, sia l’identità.... Non è identità il moto anche se il moto è se stesso, l’identità è già un’altra cosa, eventualmente ha l’identità. …oppure che la quiete – in quanto diversa-da, cioè diversa dal moto, sia la diversità. Dunque, identità e diversità non sono né κίνησιςστσις e, tuttavia, diciamo: κίνησις è τατόν e τερον (il movimento è lo stesso e altro). Con ciò abbiamo ottenuto che τατόν e τερον sono innanzitutto χωρίς, separati, rispetto a κίνησις e στσις. Si è accorto che non sono la stessa cosa. Ma la risposta alla domanda non è ancora completa, in quanto ora sussiste la possibilità che τατόν e τερον siano magari identici con un terzo, l’ν. Perché queste cose sono enti, sono cose che sono. La trattazione dello τερον, la sua delimitazione nei confronti dei quattro… Si riferisce all’εδη, alle idee da cui era partito per lui fondamentali, e cioè, l’ente, lo stesso, l’altro, movimento e quiete … ma anche nella sua κοινωνία (unione) con i quattro, viene introdotta una constatazione generale che in seguito verrà in qualche modo ritrattata. /…/ Il λέγειν degli ντα (il dire sugli enti) è tale che alcuni enti sono detti sempre a partire da loro stessi, mentre gli altri in riferimento ad altro. È questa la questione che poi ritratterà, perché qui dice all’inizio del capoverso che ci sono alcuni che si dicono per loro stessi, ma poi si accorge che non è così, che è impossibile che si dicano per se stessi, questa è l’idea di Antistene: se dico uomo non poso dire altro che uomo. Poiché qui si parla di άει (di qualcosa che è sempre così) si intende che questa frase è detta universalmente e riferita in senso universale a tutti gli enti. Il λόγος è dunque, in termini affatto generali, un puro o semplice rivolgersi a qualcosa in esso stesso oppure un chiamare in causa qualcosa in riferimento a qualcosa, cioè, determinando alcunché di dato in riferimento ad altro. Vale a dire, che nel λέγειν, nel rivolgersi all’ente, preso in senso generalissimo, l’ente viene dischiuso in due direzioni: in primo luogo come esso stesso nella sua pura e semplice presenza; in secondo luogo, nel modo del πρόϛ τί, da punto di vista di un qualche riferimento. Qui si accorge della questione centrale: qualunque ente occorre che sia quello che è e necessariamente altro da sé, perché per poterlo determinare come quello che è occorre che io, appunto, lo determini, lo significhi e che, quindi, mi rivolga ad altro. Analogamente al λόγος, anche l’ente dunque può essere caratterizzato nella sua possibile presenza come qualcosa che c’è, semplicemente, o in esso stesso oppure nel carattere del πρόϛ τί, in-relazione-a. Nel λέγειν si fa afferrabile una duplice presenza dell’ente, in esso stesso e in riferimento a. Che è esattamente quello che dice, anche se non esattamente in questi termini, de Saussure quando parla di significante e significato. Il significante è determinato? Certo. Ma da che cosa? Dal significato. Quindi, i due elementi devono esserci entrambi. Ogni τερον è in esso stesso πρόϛ (è riferito a qualcosa). È implicito dunque nella struttura dello τερον stesso un altro carattere ancora più originario di cui Platone non fissa come tale il πρόϛ τί, altrimenti è possibile sempre solo in quanto altrimenti da. In questo altrimenti è implicito appunto il πρόϛ. È una cosa strana, ed è anche uno dei passi più chiari per documentare la limitatezza intrinseca dell’ontologia greca, che qui Platone nel corso dell’analisi dello τερον si imbatta invero nel fenomeno del πρόϛ, della referenzialità, e però non sia in grado di evidenziare, proprio nel senso individuato dalla sua dialettica e come compito della dialettica, questo πρόϛ τί come struttura universale. Quindi, il πρόϛ τί come struttura universale, cioè non c’è un elemento che non sia quell’elemento in quanto riferito a un altro. In quanto tale πρόϛ τί è anche un momento strutturale a priori del κατά ατ (dello stesso). Sta dicendo che qualche cosa, per essere lo stesso, deve essere πρόϛ τί, deve essere cioè riferito a qualcos’altro. Anche nell’identità, nell’in-sé, è implicito un momento del πρόϛ τί solo che in questo caso il “relativamente a” rinvia unicamente a se stesso. Come quando dico A = A. Qui abbiamo dunque la testimonianza di un fatto che si può osservare spesso in tali indagini e cioè un determinato fenomeno sia già in un certo modo posseduto e anche sino a un certo punto esplicitato e che, tuttavia, no si sia in grado di condurre espressamente tale fenomeno al concetto, assegnandogli la sua propria funzione categoriale. Sì, coglie qualche cosa – è ciò che dicevo all’inizio – ma senza riuscire a problematizzarlo, cioè, senza riuscire a interrogarlo radicalmente. Infatti, qui, come pure nei suoi dialoghi posteriori, Platone non fa pervenire πρόϛ τί al significato fondamentale e universale che propriamente gli dovrebbe spettare in riferimento al τατόν e allo τερον. Ad esempio, nel Filebo risulta chiaro che Platone conosce invero il πρόϛ τί ma non lo vede propriamente nella sua funzione categoriale… La funzione categoriale è la funzione predicativa, le categorie sono i predicati, i significati, il che cosa significa. In quella sede egli afferma “questi enti non sono belli in relazione”, vale a dire, belli in relazione a qualcos’altro, “bensì belli sempre in se stessi”. Vede la cosa ma non se ne accorge, pensa che sia ancora possibile il qualche cosa per se stesso. D’altra parte, se lui non pensasse questo, non potrebbe pensare la dialettica che deve mostrare l’ente così come lui si mostra, così com’è, senza altro. Qui, nel Sofista, si fa ricorso al πρόϛ τί unicamente per lo τερον stesso come una determinazione concettuale del medesimo, senza evidenziarlo di contro allo τερον nel senso di un a priori più originario dell’τερον stesso. Sta dicendo che questo πρόϛ τί è effettivamente il più originario. Sta dicendo che la relazione è fondamentale, che la relazione è all’origine, che la relazione è il linguaggio: senza relazione non c’è linguaggio. Sulla base di tale distinzione degli enti in essi stessi e degli enti che hanno il carattere del πρόϛ τί, ora Platone cerca di delimitare lo τερον rispetto all’ente, all’ν. In effetti, quello che cerca di fare Platone, dopo avere colto il fatto che c’è il πρόϛ τί, che ciascuna cosa è sempre riferita all’altra, il suo intendimento è comunque quello di mantenere le due cose separate: l’ente così com’è e l’ente in relazione ad altro. Se τερον è necessariamente un essere-altrimenti da, cioè, se nella struttura dello τερον è necessariamente insito il πρόϛ τί, allora tra ν e τερον sussiste una διάφορα (divisione) /…/ Se vi fosse alterità, sia nel campo dello τερον nel senso del πρόϛ τί, sia nell’ν allora vi sarebbero anche alterità che non sono ciò che sono, cioè τερον πρόϛ (altro rispetto a). Se, dunque, τερον e ν avessero lo stesso campo e se però come abbiamo sentito vi sono ντα καθαύτά (enti in quanto tali), allora vi dovrebbero essere anche alterità che non sono altro nel carattere dell’altrimenti da. Sta dicendo che anche l’alterità dovrebbe essere se stessa e, quindi, non essere paradossalmente in riferimento a. Ora, però, dice lo Straniero, per noi è assolutamente chiaro, ciò che è caratterizzato come altro è ciò che è necessariamente in riferimento a un altro. Qualunque cosa esso sia come τερον lo è come τερον πρόϛ. Cioè, è necessariamente qualcosa di altro, quindi, altro da, non altro per se stesso ma altro da; comporta, quindi, un riferimento. La non coincidenza di τερον e ν di essere alterità significa questo: l’essere è diverso dall’alterità, cioè, τερον è anche come alterità qualcosa d’altro dall’ente e, quindi, è un quinto momento accanto a τατόν, κίνησις, στσις  e ν. Il pensiero è questo: in ogni alterità vi è invero un ente ma non in ogni ente vi è un’alterità. Questa è l’idea che naturalmente dovrà sconfessare, perché ogni ente è altro. Infatti, dice: Bisogna dunque distinguere tra φύσις di un γένος (la natura di un ceppo), ciò che già in se stesso è nel suo proprio contenuto categoriale, essere alterità e identità. Questa φύσις va distinta dal γένος stesso in quanto insieme ad esso vi è qualcosa d’altro. Questa natura non è quella che è, quando si parla di natura si mette dentro anche qualcosa d’altro, che sì, certo, fa parte della natura ma va oltre il concetto stesso di natura. Per dirla in termini più generali, di qualunque cosa parli sto parlando sempre di molto di più di quello che penso di dire. Inoltre, bisogna osservare, per quello che segue, che la differenza testé evidenziata tra essere e alterità, riguardante il contenuto categoriale tra questi due γένη non esclude che ogni ente, proprio in quanto è alcunché, sia qualche cosa d’altro. Questa è la curiosa oscurità che sussiste ancora qui in Platone, che egli, cioè di fatto, lavora con tale differenza ma non la evidenzia come tale. Se c’è differenza tra essere e alterità c’è l’idea che l’essere possa essere scevro da ogni alterità e che, quindi, sia se stesso. Però, non è proprio così. Qui, nel punto in cui siamo, Platone parla di una non coincidenza del contenuto categoriale di ente e altro, ma più avanti cerca di mostrare che ogni ente è τερον. Già questo comporta dei grossi problemi rispetto alla dialettica: se ogni ente è altro da qualcos’altro vuol dire che, quando io immagino di dire, di mostrare l’ente così com’è, sto mostrando un’altra cosa. Perché Platone non lo vede questo? Neanche Heidegger, d’altra parte. Tale mancata coincidenza del contenuto categoriale non è in contraddizione con la coincidenza nell’ambito della presenza categoriale, vale a dire, di ciò che è determinato mediante queste categorie. Sussiste, dunque, la differenza fra la non coincidenza del contenuto categoriale e che come tali διά πάντων (onnipervasivo) sono presenti attraverso tutti gli enti. In ogni ν vi è dunque anche lo τερον. Continua a dirlo senza vederlo. Eppure, è lì, basta applicare quello che sta dicendo, le sue conclusioni, al suo discorso. Se Platone l’avesse fatto avrebbe risolto tutto, avrebbe abbandonato la dialettica al suo destino, quindi, non avremmo avuto la logica, magari sì ma in tutt’altro modo, e tutta la civiltà sarebbe andata in un’altra direzione. Ma che cosa impedisce questo? La volontà di potenza, naturalmente, che non vuole saperne di perdere il suo potere. Ogni alcunché, ogni γένος, è τερον per il fatto di avere presso di sé l’δέα. Qui traduce δέα con visibilità dell’essere altrimenti. Ogni γένος è altro per il fatto di avere in sé la visibilità dell’essere altrimenti, cioè, si vede che è altrimenti. Si tratta di una formulazione assai incisiva purché si afferri rettamente il termine δέα, “visibilità” dell’essere-altrimenti. Con ciò Platone intende dire che ogni possibile alcunché, essendo qualcosa, ha nel contempo la possibilità che in esso sia avvistato il suo essere altrimenti nei confronti di qualcos’altro. Qui l’essere avvistato… cioè, io vedo qualche cosa ma avvisto che è anche qualche cos’altro oltre a ciò che vedo. δύναμις κοινωνίας (possibilità di essere in comunanza con altri, in relazione ad altri). La φύσις non esaurisce ciò che è: l’essere va bensì inteso più originariamente a partire dalla δύναμις κοινωνίας. La φύσις, l’essere così come lo vedo, non si esaurisce in ciò che vedo. È questo che sta dicendo, ma va ben oltre, ed è esattamente ciò che diceva Heidegger rispetto al mondo: io vedo questo aggeggio ma lo vedo perché sono nel mondo, perché lui è nel mondo insieme con me. Per prima cosa assistiamo alla ripresa di cose già dette /…/ La κίνησις è stata distinta innanzitutto rispetto alla στσιςMovimento e quiete generalmente si considerano opposti: se c’è uno non c’è l’altro. …se entrambe sono έναντιώτατα (opposti) allora la κίνησις non è στσις, e allora è παντάπασιν τερον (totalmente altro). Inoltre si era detto già prima: la κίνησις è. Perché il movimento è? Naturalmente, perché lo vedo, non è che lo deduco da chissà che cosa, lo vedo e anche altri vedono qualche cosa di analogo e, quindi, si crea una chiacchiera intorno al movimento e si dice tutti quanti in coro che il movimento è. Poi, che cosa sia, questo è tutto un altro discorso. Dunque in primo luogo: nella κίνησις non c’è στσις; vi è, invece, ν (ente). Entrambi sono enti, ogni cosa è un ente. Inoltre, già sopra si è visto /…/ che essa è distinta anche dal τατόν (lo stesso). Possiamo certo dire che il movimento è anche lo stesso, ma questo stesso non è κίνησις; sono due parole diverse che indicano cose diverse. Con questo, non è affermato niente di nuovo, ma si è soltanto riassunto il già detto in vista della trattazione a venire. Fate bene attenzione: nella κίνησις viene messo in risalto, rispetto alla στσις, il suo essere-diversa; rispetto all’ν il suo essere-insieme con essa; rispetto al τατόν nuovamente l’essere-diverso. Questi sono i passi in cui Platone introduce la questione del diverso in modo radicale. È il suo modo di risolvere il problema dell’ente e del non-ente – problema posto da Parmenide – per cui il contrario dell’ente non è il non-ente, cioè il nihil absolutum, ma è qualcosa di altro rispetto all’ente, che pure quindi c’è, mentre il non-ente in senso assoluto è ciò che non è. “Bisogna perciò altrettanto dire anche questo, senza irritarsene” … Qui è Platone che si irritava. …e anzi bisogna semplicemente prendere atto di come stanno le cose: κίνησις τατόν τεναι καί μή τατόν (il movimento è lo stesso e anche non lo stesso). Come è già stato accennato, vi è infatti nel λέγειν, quanto alla facoltà di chiamare in causa alcunché, la possibilità di adottare prospettive diverse: a qualcosa che viene indicato come presente ci si può rivolgere da diverse angolature, in quanto questo oppure quest’altro. /…/ Finora si è sempre parlato di κίνησις e στσις dicendo che esse sono έναντιώτατα (opposti), due φύσεις (enti di natura) che divergono nel loro contenuto reale, escludendosi a vicenda. Qui Heidegger dice una cosa di notevole portata. Dice: divergono nel loro contenuto reale, quindi, si escludono ma nel loro contenuto reale. Quindi, occorre presupporre che ci sia un contenuto reale, e cioè che questi enti, come ha detto sopra, siano enti di natura. Solo a questa condizione si escludono, cioè, se si immaginano enti di natura, la natura non può essere contraddittoria. È un’idea, un mito, già presente molto tempo prima: la natura è quella che è, si mostra così com’è e, quindi no può contraddirsi; se c’è contraddizione non può essere nella natura. Questa maniera di chiamare in causa esse è corretta se ci limitiamo al λόγος nel modo in cui Antistene lo fissava come unico possibile, nel senso che di qualcosa si può parlare sempre solo nella sua propria identità. Per dire che cos’è Gabriele devo dire Gabriele, e chiuso il discorso. In tal caso abbiamo appunto che κίνησις è κίνησις e στσις è στσις. Ma adesso la domanda è: “È dunque del tutto fuori posto se alla κίνησις ci rivolgiamo come quiete come riposo” vale a dire nel senso del concetto di essere che ora mettiamo alla base: δύναμις κοινωνίας (come possibilità di partecipare ad altro)? Sta dicendo che κίνησις può anche essere στσις perché partecipano entrambi di questa possibilità di partecipare ad altro. Quindi, il movimento partecipa della quiete e viceversa. Infatti, in questo caso, forse, in qualche modo, vi è στσις insieme con la κίνησις. È questa παρούσία (mostrarsi), questo esser-ci-insieme di στσις nella κίνησις, ci legittimerebbe a dire: κίνησις e στσις non sono soltanto έναντία, anzi sono in certo qual modo τατόν (lo stesso). Quindi, vedete come il concetto di κοινωνία per Platone è fondamentale per intendere la partecipazione di un elemento con un altro, anche di un elemento opposto. Aristotele lo preciserà definendo la quiete come un particolarissimo modo del movimento. Insieme con ciò che è in movimento, ψύχήHeidegger traduce qui ψύχή con uomo, ma nell’accezione che intende lui, e cioè come esserci. …è compresente, nell’ordine dell’essere, anche l’άει (sempre). Questa strana indicazione – che però è fondata nelle cose stesse – della κοινωνία di κίνησις e στσις non deve essere confusa con l’analisi aristotelica del movimento, in base alla quale è possibile affermare che la quiete stessa è moto nel senso di un caso limite di quest’ultimo. Qui, infatti, in Platone non si tratta di mettere a tema il movimento in quanto tale: non si parla del moto, ma di ciò che è mosso, in sostanza l’attenzione verte su ciò che è mosso e quanto al suo essere, in relazione con ciò che invece non è mosso. Questo alcunché di mosso, nel suo essere in relazione all’immoto, qui viene inteso in senso dialettico-eidetico semplicemente nel senso degli εδη. Pertanto qui la κίνησις non viene indagata in quanto κίνησις, bensì la ricerca verte sulla κίνησις intesa come un γένος, un ν, accanto ad altri, mentre in Aristotele la tesi che la quiete è moto viene spiegata a partire dal senso del movimento stesso; ed è una questione che Platone non pone affatto. /…/ Proprio nella frase in cui dico: movimento e alterità sono altro, affermo che nella κίνησις è compresente anche lo τερον; che cioè essa è τατόν con lo τερον nel senso della κοινωνία. Lo stesso è il diverso in quanto sono entrambi compresenti in questa κοινωνία, in questa comunanza. Essa (κίνησις) dunque non è altro, eppure lo è. Non lo è nel senso dell’alterità – così diciamo noi, interpretando – eppure lo è, in quanto appunto è diversa, τερον, proprio dall’alterità e dalla στσις. Il movimento è diverso dall’alterità proprio così come è diverso dalla quiete. Sono cose tutte diverse tra loro; quindi, c’è questo τερον, se lo ritrova ovunque, perché è la chiave di accesso per liberarsi del non-ente nell’accezione parmenidea, cioè del non-ente come nulla assoluto. Quindi, insiste sull’alterità, ma un’alterità che rientra nella κοινωνία, cioè, nell’essere insieme con altre cose: c’è lo stesso e c’è altro, che pertanto non si oppongono perché entrambi fanno parte della κοινωνία. /…/ Dobbiamo dunque dire che κίνησις è diversa da τατόν, στσις, τερον, senza prendere in considerazione il quarto che ancora manca? Cioè l’ente. E non dobbiamo dunque dire, in aggiunta alla tesi precedentemente fissata – che κίνησις è ν – anche che essa è τερον rispetto all’ν, vale a dire un μή ν? Qui Platone si trova di fronte a qualcosa di complicato, che poi non riuscirà mai a dipanare del tutto. Dice che κίνησις, il movimento, è un ente, ma anche che è τερον rispetto all’ente, in quanto κίνησις e ente sono cose diverse. Ed è qui che c’è il problema: sono cose diverse… ma κίνησις è anche ente, ma è anche diverso dall’ente. Dice anche che è τερον rispetto all’ν, all’ente, ma se è altro rispetto all’ente vuol dire che non è l’ente, è appunto il μή ν. Quindi, il movimento è ν, ente, ma al tempo stesso è μή ν, non-ente. Questa è la conclusione provvisoria cui giunge. Dunque, sulla base della presenza universale dello τερον, la κίνησις è nel contempo un μή ν. È un non-ente. Certo, è un ente ma è anche un non-ente. Ciò significa, però, che il μή ν è presente nella κίνησις in relazione alla sua κοινωνία con tutti gli altri. In tal modo è attestata l’ούσία μή ντος, la presenza del non-essere, nell’essere della κίνησις nell’ambito dei cinque. La presenza del non-essere nell’essere. Questo è ciò contro cui Platone ha praticamente lottato, senza venirne a capo. Se qualcosa è un ente, se qualcosa è qualcosa è in quanto è in relazione a qualche cos’altro, è un πρόϛ τί; ma se è in relazione a qualcos’altro è in relazione ad altro rispetto a lui; quindi, una qualunque cosa è in quanto è anche altro, altro da sé, è se stessa e altro, simultaneamente. Ed è qui che Platone aveva in mano tutto, tutto quello che gli serviva, poteva elaborare una straordinaria teoria del linguaggio, ma non lo ha fatto, né lui né nessun altro che gli ha fatto seguito. Eppure, era tutto qui. Per potere affermare l’essere devo porlo con non-essere. Se dico che l’essere è qualche cosa, questo qualche cosa è altro dall’essere, e se è altro dall’essere allora non è; quindi, essere è non-essere, l’ente è non-ente. E questo è il linguaggio: se dico qualche cosa, questo qualche cosa che dico, dicendolo, si altera, perché nel mio dire le cose che dico si determinano in quanto altre rispetto al mio dire, per via del πρόϛ τί, del fatto cioè che ciascuna cosa è quella che è in relazione ad altro; quindi, è quella che è in relazione a ciò che non è; come dire che perché sia quello che è occorre che non sia quello che è: qui c’è tutto il problema del linguaggio. Se ci fermassimo ad Antistene allora, come accade sempre, si afferma una certa cosa, ma a quale condizione io posso dire “Gabriele è Gabriele”? A condizione di non interrogare questa affermazione. Quando dico “Gabriele” intanto che cosa dico? Perché dico “Gabriele”? Ci sono una serie di domande, di questioni, che sorgono immediatamente e che non devo interrogare. E, infatti, tanto Platone quanto Aristotele, come sappiamo bene per aver letto le loro parole, non ci si deve interrogare su questo. La presenza onnipervasiva… Platone qui è giunto a considerare che l’alterità è presente ovunque, non c’è un qualche cosa, come voleva all’inizio, un τατόν che non è τερον; no, l’τερον  è onnipervasivo, è ovunque. La presenza onnipervasiva dello τερον in ogni alcunché costituisce il suo essere diverso da ogni ν; cioè la presenza dello τερον costituisce il non-essere di ogni ente: “fa di ciascuno un non-ente”. Lo ha detto in modo chiaro. Queste non sono esattamente le parole di Platone, sono quelle di Heidegger, che comunque sta leggendo il Sofista. Lo rileggo: la presenza dello τερον costituisce il non-essere di ogni ente. Ogni ente non è. Più chiaro di così, non c’è un modo più evidente di porre la questione, e cioè che affermando che qualcosa è affermo simultaneamente che questo qualcosa non è. Capite la catastrofe che avverrebbe se ciascuno, ciascuna volta che afferma qualcosa, tenesse conto di questo. Catastrofe nel senso che non ci sarebbe più la possibilità di nessuna ideologia, di nessuna propaganda, e se togliete la propaganda è finita. Ricordatevi dell’espressione ποιέιν, che abbiamo già incontrato: ποιέιν = γειν είς ούσιαν (l’essere in quanto agire). Dunque l’essere-presente dello τερον conduce in un certo senso all’essere, all’esser-presente del μή ν. La presenza dello τερον conduce all’essere presente del μή ν. Ogni τερον, ogni altro, ogni alterità comporta l’alterità da qualche cosa, quindi, il non essere quella cosa, sennò non direi che è altro da. Tutto, quindi – nella misura in cui abbiamo spinto la nostra dimostrazione fino a ciò che è διά πάντων (onnipresente, onnipervasivo) – è: tutto l’ente è, e al tempo stesso, in quanto ente, non è. Come fa qui Heidegger a non accorgersi di quello che sta dicendo? Basta applicare quello che ha appena detto al suo discorso, a quello che sta dicendo, per accorgersi che tutto quello che sta dicendo è una costruzione retorica, che non ha nessun altro motivo di essere se non l’esercizio del potere. È inevitabile perché non si può non affermare continuamente cose. Quando lui dice che l’essere è un progetto gettato… ma gettato verso che cosa se non verso il potere, verso il dominio? È questo che muove ogni cosa: il dominio dell’ente. Ma per dominarlo devo conoscerlo, per conoscerlo deve essere quello che è. Ecco la dialettica, la dialettica illude di fare questo; gli eleati avevano tolta questa illusione: inutile che speriate di cogliere l’ente per quello che è, perché non lo farete mai. Ricordate le parole di Gorgia: nulla è, se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Certo, nulla è, questa partenza è già problematica, però è un primo modo per dire: non fate affidamento sulle cose che vedete, perché non sono, non sono quello che vedete e – lo ha spiegato bene – sono molto di più di quello che si vede, perché sono quelle che sono in relazione al mondo in cui le incontro …tutto l’ente è, e al tempo stesso, in quanto ente, non è. Sullo sfondo aleggia ciò che in seguito sarà mostrato espressamente: che tale non-essere è qui chiamato: τερον. Il non-essere diventa altro. Va bene, diventa altro, quindi, non è quell’altro. Con questo τερον non si è soltanto ricavata la dimostrazione della sussistenza del non-ente, ma nel contempo si è raggiunto anche il terreno sul quale comprendere questo autentico “non”, la cui velatezza è stata finora possibile solo in virtù della tesi di Parmenide. Poiché dunque lo τερον è presente in modo onnipervasivo, esso fa di ogni ente un non-ente. Adesso, però, dobbiamo trarne tutte le implicazioni. Si fa in fretta a dirla così, però, che cosa comporta nel linguaggio, quali sono gli effetti di tutto questo? Gli effetti sono quelli che hanno visto gli eleati, senza problematizzarli perché forse non avevano gli strumenti per farlo, ma avevano visto. Gli eleati avevano detto, indirettamente, che la dialettica non è possibile, ed è qui che Platone è andato fuori di matto, ha invece voluto dimostrare che è possibile, solo che non gli riesce bene perché gli eleati avevano detto che se nell’ente c’è il non-ente, ogni ente è non-ente. E, quindi, che cos’è, allora? Sì, è ente e non-ente, certo, ma allora come lo manipoliamo, come lo gestiamo, cosa ne diciamo, come lo approcciamo? Sono questioni che sono rimaste aperte fino a oggi.