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Parmenide di M. Heidegger

 

9-3-2016

 

Heidegger, Parmenide, pag.169 (Heidegger ha mostrato in modo interessante come, dai greci ai romani, la nozione di verità si sia evoluta per consentire ai romani l’uso della verità per il dominio, la fantasia di potenza, cosa che non era consentita dalla parola greca ἀλήθεια. Si potrebbe fare una considerazione a questo proposito: Vasili Nikolaj Sergeevic Trubeckoj, un principe russo, scrisse i Fondamenti di fonologia e si trovò a considerare una cosa interessante che è stata ripresa anche da molti in vario modo riguardo al fonema, cioè la minima unità di suono, per esempio considerate la [p] che è la notazione comune per indicare il fonema, un fonema, la ‘p’ in questo caso. Questa [p] questo fonema, di fatto in quanto tale non esiste, questa fu l’idea di Trubeckoj, non esiste perché qualunque esecuzione di [p] sarà una p particolare non sarà mai la [p] in assoluto; la [p] universale non si può dire, qualunque cosa io dica sarà sempre un esecuzione particolare, contingente qui e adesso, quindi non potrò mai dire la [p] assoluta, che significa che il fonema indica un entità ideale, astratta, che in quanto tale non ha una sua esistenza cioè non è possibile una sua esecuzione nel senso che qualunque esecuzione io compia sarà di un qualche cosa che non è la [p], come dire che tutta la linguistica o una parte della linguistica è sostenuta, è costruita su qualcosa che di fatto non esiste, perché il fonema [p] in quanto tale non esiste perché non è eseguibile, ogni esecuzione sarà un’altra cosa. È il discorso, anche se ho un po’ estrapolato, che fa Heidegger rispetto alla parola λήθεια, il disvelamento, nel senso che mostra di una parola varie accezioni e cioè mostra che rispetto a una certa cosa, chiamiamola “verità”, qualunque esecuzione, cioè qualunque pensiero intorno alla verità è una esecuzione particolare non è mai la verità, cioè il concetto di verità, che la chiamiamo ἀλήθεια o ὀρθότης o ἐπιστήμη questo è irrilevante, perché comunque si riferisce a un qualche cosa che è un ideale, cioè che trascende l’esecuzione che è l’immanente. In altri termini ancora ciò che, questa era la questione che mi divertiva inseguire, ciò che ha detto il principe russo del fonema può dirsi di ciascuna parola? Non solo quindi un fonema [p] ma una parola qualunque, nel momento in cui la penso, in qualunque modo la pensi, è un’esecuzione di un qualche cosa che tuttavia mi consente di compiere questa esecuzione, che è esattamente ciò che dice Heidegger rispetto all’ente e all’essere, al significante e al significato: Heidegger dice che l’essere è quell’apertura che consente all’ente di apparire, di darsi, di dirsi, ma l’essere per Heidegger, così come il fonema per il principe russo, non si può dire, non si può localizzare, non si può determinare, ogni sua determinazione è un’altra cosa, Heidegger direbbe che non è più l’essere ma è un ente ogni volta che lo determino. Lungo questa via si giunge a un’altra considerazione e cioè parrebbe, posta in questo modo e tenendo conto anche della teorizzazione di Heidegger intorno all’essere e all’ente, posta in questo modo appare che perché qualcosa sia determinabile occorre che non sia determinato, come il fonema la [p], per pronunciare una ‘p’ occorre quella [p] che non si può dire perché non c’è in realtà, e quindi a questo punto potremmo essere indotti a pensare che ciò che è necessariamente indeterminato potrebbe risultare al tempo stesso quanto di più determinato sia pensabile, nel senso che per dire ‘p’ o per dire un’altra parola come “albero” è necessario che ci sia un qualche cosa di indeterminato, cioè il significato di albero, o l’essere, che tuttavia deve esserci per potere compiere la determinazione specifica che poi si manifesta nel significante o nell’ente. Anche in questo caso si può compiere la stessa operazione che ha compiuta Heidegger, e cioè il significato propriamente non posso dirlo perché dicendolo dico un significante, anche Lacan aveva posta questa questione, quindi verrebbe da pensare che tutto ciò che si dice, proprio come il fonema, dicendosi si determina ma a partire da qualche cosa che non solo non è determinato ma non è determinabile ma che tuttavia è necessario perché una determinazione appaia, che poi è esattamente quello che dice Heidegger dell’essere, dal momento in cui l’essere si apre e manifesta l’ente, potremmo dire quando il significato si apre e compare il significante, in quel momento preciso, per usare sempre le parole di Heidegger, l’essere si vela, si vela perché viene differito, perché ciò che si dice, cioè il significante, propriamente è già un’altra cosa non è più quella cosa lì, non è più l’essere, non è più il significato. Per dire una parola qualunque, perché sia una parola occorre che ci sia già un significato, poi dicendola chiaramente incontro un altro significato, ma è già un significato, De Saussure direbbe che perché ci sia la Parole occorre che ci sia la Langue, ci sia questa nebulosa che raffigura un po’ ogni possibile esecuzione. Questo sembra ricondurci a qualche cosa che diceva Derrida e cioè qualche cosa interviene, però per potere dire che questa cosa interviene è necessario che questa cosa venga rappresentata cioè si ri-presenti: immaginiamo la nebulosa con tutti i significati possibili, con tutte le accezioni possibili, ora un significato a un certo punto si apre e dà l’accesso a un significante, però questo significato che si è aperto e ha dato l’accesso al significante è un significato a ritroso, in seconda battuta, cioè ci vuole questo secondo elemento perché il primo, il significato possa esistere. È come se tutte queste questioni si annodassero in questi vari personaggi che abbiamo considerati ultimamente, come se ci fosse un’elaborazione intorno a qualche cosa che li sta interrogando allo stesso modo, usando termini differenti, muovendo talvolta anche da premesse differenti, però ciò che domanda, ciò che interroga sembra qualcosa di molto simile ed è questo movimento di cui parlavamo forse la volta scorsa, il movimento tra significante e significato, tra l’essere e l’ente. Questo movimento che per usare la parola che usava Platone a proposito dell’essere poteremmo chiamare ἐπαμφοτερίζειν, Platone indicava con questa parola il movimento tra l’essere e il nulla, cioè prima il nulla diventa essere e poi torna a essere nulla, questo movimento lo chiamava ἐπαμφοτερίζειν, ma forse non è tanto fra l’essere e il nulla ma, come abbiamo visto la volta scorsa, probabilmente ha a che fare più con il significante e il significato, per Heidegger l’ente e l’essere che mai si sovrappongono. De Saussure mette la barra, Derrida la differance assoluta e Heidegger la differenza ontologica, in qualche modo si avverte che questi due elementi che pur giocando ininterrottamente fra loro non si sovrappongono mai, la loro sovrapposizione, e questo è Derrida, comporterebbe l’arresto del linguaggio stesso. Il fatto che una parola possa intervenire, esattamente come il fonema di cui parla Trubeckoj, sta a indicare l’intervenire della parola in questo movimento, il movimento del fonema che trae, da un qualche cosa che non c’è ma che deve esserci, la [p] che non si può dire, il movimento tra l’esecuzione e l’ideale, tra l’immanente e il trascendente, tra significante e significato, tra ciò che appare e ciò che consente l’apparire, cioè tra l’ente e l’essere. Ma dicendo che questa [p] non esiste che cosa diciamo esattamente? Diciamo la differenza, la barra di cui parla De Saussure, poi ripresa da Derrida, non esiste in questo senso: non può apparire in quanto tale perché apparendo c’è comunque un qualche cosa che non appare, lo stesso Freud ha lavorato su questo in tutt’altri termini e per tutti altri motivi e mosso da tutt’altro progetto, tuttavia quando dice che in ciò che appare qualche altra cosa non appare sta descrivendo il funzionamento della rimozione o l’irruzione dell’inconscio e ci sono stati vari modi per intendere una cosa del genere. Pag. 186 e mette qui un cappello che si chiama così: Ψυχή: il fondamento del riferimento all’ente (abbiamo saltato un po’ di cose che eventualmente riprenderemo dopo) Si rende necessario a questo punto delucidare che cosa significano ψυχή e daimÒnion (demone, dio che poi è la stessa cosa) tradurre ψυχή con anima è altrettanto corretto quanto tradurre ἀλήθεια con verità e ψεδος con falsità, la parola ψυχή non si lascia tradurre, anche se in termini delucidativi diciamo che con essa si intende l’essenza del vivente che si pone subito la questione di come l’essenza della vita vada pensata in senso greco, la parola ψυχή intende il fondamento e la modalità del riferimento agli enti (che è già un modo diverso di porre la questione della psiche, come spesso accade con Heidegger prende una parola e incomincia a lavorarci, quando si dice “psiche” che cosa si sta dicendo in realtà? Cosa pensavano i greci quando dicevano ψυχή? La certezza in queste cose non c’è mai quindi è possibile che sia così come dice Heidegger, ma non necessariamente) il riferimento degli eventi agli enti quindi anche a sé stesso può sussistere e in tal caso il vivente deve avere la parola λγον χον poiché l’essere si manifesta solo nella parola, tuttavia il riferimento del vivente agli enti può anche non sussistere e allora lo ζον, il vivente, vive ugualmente ma è ζον αλγον (senza parola) per esempio un animale o una pianta, il modo in cui il vivente è posto nei confronti degli enti quindi anche di se stesso (poche righe dopo) se rendiamo δαιμόνιος con demonico (dämonisch) effettivamente dunque non ci stacchiamo dalla parola e in apparenza non traduciamo affatto ma in verità stiamo tra-ducendo nella misura in cui tra-duciamo il δαιμόνιον greco in una rappresentazione indeterminata e confusa del demonico, per noi i demoni sono gli spiriti maligni in termini cristiani il diavolo e i suoi soci. Demonia sta allora per diavoleria nel qual caso o in termini cristiani si crede al diavolo e lo si ammette oppure nel senso sbiadito di una moralità illuminata si intende il diabolico come quel male che si scontra con i principi di un buon cittadino. /…/ La frase di Aristotele citata che dice così dice che i pensatori sanno sì ciò che è eccezionale meraviglioso e difficile, dunque in genere demonico ma anche che queste sono cose inutilizzabili poiché essi (i pensatori sottointeso) non cercano ciò che secondo l’opinione umana appare immediatamente buono e utile per l’uomo (quindi il pensatore cerca il demonico, l’inutile) la frase di Aristotele citata dice che i pensatori conoscono δαιμόνια ovvero il demoniaco ma come possono i filosofi, questi pacifici eccentrici, dediti alle cose “astratte” conoscere il demonico? La parola δαιμόνια è detta qui come termine comprensivo di tutto ciò che dal punto di vista dell’uomo comune appare eccezionale e meraviglioso ma al tempo stesso difficile, viceversa ciò che per l’uomo rimane nel complesso privo di difficoltà è sempre il contingente poiché in tal caso passando da un ente all’altro egli trova comunque una soluzione e una spiegazione. (cioè sta dicendo che l’uomo comune cerca di farla facile, senza domandare, senza farsi domande). I molti e i troppi perseguono soltanto l’ente contingente che per essi costituisce il reale se non addirittura la realtà tuttavia nella misura in cui gli uomini, la realtà, la moltitudine stessa dimostra di mirare oltre che al reale contingente anche a qualcosa che in effetti non scorge, l’essenza dei polloί non consiste nel numero e nella massa dei simili modi in cui essi si comportano in rapporto all’ente ma se non mirano all’essere i molti non possono in nessun caso avere a che fare con l’ente, negano dunque l’essere eppure al tempo stesso non lo vedono (ci sta già dicendo che l’essere ha a che fare con il δαίμων ed è qualche cosa che è necessario che ci sia perché compaia) ora appunto perché pur mirando costantemente all’essere non lo scorgono ma hanno a che fare soltanto con l’ente che calcolano e organizzano, i molti si orientano ovunque nell’ambito dell’ente e vi si sentono a casa, in patria entro i confini dell’ente del reale cioè dei tanto celebrati dati di fatto, tutto rimane nell’ambito del “solito”. L’in-solito è il semplice, l’inappariscente, l’inafferrabile per la tenaglia della volontà, ciò che si sottrae a tutti gli artifici del calcolo poiché oltrepassa tutti i possibili progetti, è per questo che lo schiudersi e velarsi essenzialmente presenti in ogni ente che si schiude cioè l’essere stesso, è per la pratica quotidiana dell’ente anche ciò di cui l’esperire abituale deve rallegrarsi se in qualche modo scorge espressamente quell’essere a cui mira in maniera incessante, il meraviglioso è per i greci il semplice, l’inappariscente essere stesso, questo meraviglioso che si mostra nella meraviglia è l’in-solito, qualcosa che appare in modo talmente immediato al solito da non potere mai essere spiegato in base a esso (quindi il meraviglioso, l’insolito è ciò che, è detto prima molto bene e lo rileggo “è per questo lo schiudersi e velarsi essenzialmente presente in ogni ente che si schiude cioè l’essere stesso è ciò di cui occorre meravigliarsi” questo movimento fra essere e ente, quello che prima ho indicato con παμφοτερζειν, lì c’è dunque l’insolito, c’è il δαίμων, in questo movimento) possiamo chiamare in- solito e daimÒnios poiché v’è in quanto esso abbraccia sempre ciò che di volta in volta è solito si manifesta in tutto ciò che è solito senza tuttavia essere esso stesso in-solito (sta dicendo che questo in-solito c’è “dentro” il solito è come se fosse una minaccia per il solito, è esattamente il non solito, non familiare, in tedesco Unheimliche) in rapporto al solito l’insolito così inteso non è eccezione bensì ciò che è più naturale nel senso della “natura” pensata in modo greco (ciò che si manifesta da sé) l’in-solito è ciò da cui sorge ogni solito, ciò da cui ogni solito per lo più senza nemmeno presagirlo dipende e in cui ricade (pensate a ciò che dicevo prima rispetto a De Saussure, alla nebulosa e poi della Parole che è l’esecuzione, però questa esecuzione ha un significato, come dire che la parola che svelandosi nel significante al tempo stesso mentre si svela si vela, differendo continuamente su altro) To δαιμόνιος (il demonico) è di essenza e fondamento essenziale dell’in-solito è ciò che si manifesta nel solito e che è essenzialmente presente in esso, manifestarsi nel senso di ciò che mostra e indica si dice in greco δαίω (δαοντες - δαμονες). Pag. 190. Il motivo per cui ci è difficile comprendere questa semplice essenza del δαιμόνιος è che non esperiamo l’essenza dell’ἀλήθεια. I δαμονες essi infatti cioè coloro che si mostrano e indicano realmente sono ciò che sono e come sono, soltanto nell’ambito essenziale dello svelamento e dell’essere stesso che si svela, la notte e il giorno ricevono la loro essenza da ciò che si vela, si svela e si dirada, il rado (das Licthe) tuttavia non è solamente ciò che si può vedere e scorgere ma (da qui la radura) ma prima ancora essendo ciò che si schiude è ciò che abbraccia già tutto quanto viene alla luce che sta e riposa in essa, dunque tutto il solito e che inoltre guarda entro tutto il solito e precisamente in modo da apparire proprio in esso, soltanto in esso, partendo da esso (vedete la prossimità tra ciò che sta dicendo qui Heidegger e ciò che diceva De Saussure rispetto alla nebulosa, alla Langue e alla Parole). Guardare in greco si dice θεω (da cui teoria eccetera) stranamente o potremmo dire qui prodigiosamente si conosce soltanto la forma media θεω mai che si traduce con assistere, stare a vedere perciò si parla di θέατρον, il luogo in cui si assiste (il teatro) tuttavia pensata in greco qe£w mai significa procurarsi lo sguardo, la veduta cioè θεnel senso della visione in cui qualcosa si offre e si manifesta, θεω il “guardare” non indica quindi affatto il vedere nel senso del vedere che rappresenta davanti a sé e dello stare a vedere con cui l’uomo si rivolge all’ente in quanto oggetto e lo coglie (ricordate che per il greco il concetto di oggetto non c’è, è soltanto per noi che stare a guardare qualcosa comporta una distinzione tra soggetto guardante e oggetto guardato, per il greco questo non c’è) infatti θεω è piuttosto quel guardare in cui colui che guarda mostra se stesso appare e c’è (cioè quel guardare in cui chi guarda mostra se stesso che guarda) qe£w è il modo fondamentale in cui chi guarda si manifesta (è uno dei modi di manifestarsi, si manifesta in quanto guarda) si manifesta nella visione della sua essenza, vale a dire nello svelato schiudendosi in quanto svelato, se è esperito in modo originario il guardare anche il guardare dell’uomo non è il coglimento di qualcosa bensì quel mostrarsi in riferimento al quale soltanto diviene possibile un guardare che coglie (quindi nulla a che fare con il guardare un oggetto ma un guardare che mentre guarda si coglie, si coglie in quanto guardante, qui ancora più preciso nella pagina successiva dice): Gli uomini dell’età moderna, ovvero in termini più ampi le umanità post greche, sono da lungo tempo talmente ripiegati su se stessi mettendo il guardare esclusivamente come il rivolgersi dell’uomo all’ente rappresentandolo (soggetto/oggetto) il guardare non viene quindi affatto scorto in quanto guardare ma è inteso soltanto come quell’attività in sé compiuta consistente nell’atto del rappresentare (vor-stellen), significa qui il portare dinanzi a sé, il portare dinnanzi a sé è padroneggiare, l’aggredire le cose (facendo l’esempio che faceva nelle pagine precedenti, la versione romana imperiale della rappresentazione è l’aggredire la cosa) I greci esperiscono invece il guardare anzi tutto e propriamente come il modo in cui l’uomo assieme agli altri enti eppure in quanto uomo (cioè parlante) sorge ed è presente nella sua essenza (quindi il guardare è un modo di essere, non un’attività psichica ma un modo di essere, questo ci sta dicendo Heidegger) pensando in modo moderno quindi inadeguato e tuttavia per noi ovviamente più comprensibile possiamo dire in breve: lo sguardo, la veduta qe® non è il guardare inteso come attività e atto del “soggetto” bensì la visione in quanto schiudersi e venire in contro dell’ “oggetto” (queste parole la mette tra virgolette perché per i greci non c’erano e quindi un venire incontro, certo il venire incontro qui potrebbe evocare l’oggetto in quanto objectum, cioè ciò che è gettato contro però qui è un venire incontro, un lasciarsi venire incontro dell’oggetto che è altro dall’essere gettato contro o stare contro) il guardare è il mostrarsi e lo è precisamente come il mostrarsi nel quale si è raccolta l’essenza dell’uomo che incontra e in cui quest’ultimo si schiude in duplice senso, sia nel senso che nello sguardo la sua essenza è riunita qual somma della sua esistenza, sia nel senso che tale unione e semplice interezza della sua essenza si dischiude nella veduta /…/ (pag. 195) Il mito che chiude il dialogo platonico sull’essenza della πόλις aprendolo così nel contempo in un altro senso, si conclude esso stesso con la saga dell’opposizione essenziale all’ἀλήθεια (cioè dell’essenza dell’ἀλήθεια) la saga è il racconto del guerriero “Er”. Dopo aver concluso in battaglia la sua vita nel di qua egli iniziò con molti altri quel viaggio nel di là che è necessario compiere prima che l’essenza dell’uomo in seguito a una nuova decisione inizi un nuovo viaggio nel di qua, al guerriero devono aver ordinato di considerare con attenzione il viaggio nel di là e i luoghi ivi attraversati per potere poi, in qualità di messaggero, darne notizia agli uomini nel di qua. (non è molto diverso dal “Mito della caverna”) L’essenza di quei luoghi e la loro coappartenenza alla loro sequenza nel di là, cioè l’intera località del di là, è un τόπος daimÒnios, ora dal momento che come si vedrà la λήθη (il velato) è il luogo ultimo ed estremo di tale località demonica, per comprendere il carattere di località omni determinante della λήϑη dobbiamo innanzi tutto chiarire che cosa qui e in generale significhi daimÒnion pensato in modo greco, la rappresentazione corrente confusa e fumosa del demonico non aiuta affatto a chiarire l’essenza del δαιμόνιον. Preliminarmente poniamo attenzione al fatto che entro la cerchia familiare degli enti che ci riguardano e ci sono noti cioè all’interno di quello che chiamiamo il “solito” l’in-solito risplende ovunque, comprendiamo così l’in-solito in modo affatto letterale abbandonando completamente le idee dell’enorme, del gigantesco, dello strano (che spesso sono accomunate al demone) è pur vero che nella sua non essenza l’in-solito può rifugiarsi anche in simili forme ma nella sua essenza esso è il non vistoso, il semplice, il non appariscente che non di meno risplende in ogni ente, se concepiamo l’in-solito come quel semplice che risplende nel solito, ovvero come ciò che non derivando dal solito appare in anticipo rispetto ad ogni solito abbracciandolo e compenetrandolo con il suo splendore, allora diviene evidente che la parola “in-solito” qui elogiata non possiede assolutamente nulla del significato corrente in base al quale intendiamo sempre qualcosa di impressionante e sensazionale (ovviamente qui demonico non ha più nulla di impressionante né di sensazionale, né di terribile) L’in-solito che va pensato nel nostro contesto non reca traccia di ciò generalmente viene detto mostruoso non di meno è soltanto in base al solito che possiamo notare ciò che chiamiamo l’in-solito (cioè soltanto in base al solito possiamo trarre l’insolito. Pensando a Freud, lo straniante appare soltanto là dove qualche cosa è familiare, se non c’è il familiare non c’è nulla di straniante, sta dicendo la stessa cosa) ciò che il così detto in-solito è in sé è quanto ammette unicamente il carattere dell’in-solito la conseguenza essenziale riposa nel risplendere entro l’ente, nel manifestarsi in termini greci nel δαίω. Ciò che risplende nell’ente e che tuttavia non è mai spiegabile e tanto meno traducibile in base all’ente è l’essere stesso. L’essere che risplende è to δαον, δαίμων, coloro che provenendo dall’essere entrano nell’ente e sono quindi coloro che indicano l’ente sono i δαοντες - δαμονες, così concepiti i demoni sono totalmente non demonici, per lo meno secondo l’idea fumosa del demonico eppure questi δαμονες non demonici sono tutt’altro che innocui e accidentali, non sono cioè un’aggiunta casuale all’ente che l’uomo senza soffrirne nella sua essenza potrebbe trascurare, mettere da parte, o considerare soltanto a sua discrezione e secondo il suo bisogno (esattamente come le fantasie di cui parla Freud, possiamo considerare le fantasie come δαμονες) Proprio grazie a questa irriducibilità poco appariscente, δαμονες sono in verità più demonici di quanto possano mai essere tutti gli altri demoni (sta dicendo che rispetto alle fantasie, adesso traslato in termini freudiani, rispetto alle fantasie che producono, che possono produrre gli umani, i demoni raffigurati sono niente) I δαμονες sono più essenziali di ogni ente, essi non soltanto dispongono i demoni demonici nello stato d’animo dell’orrendo e dello spaventoso ma determinano ogni situazione emotiva essenziale, dal timore reverenziale fino alla tristezza e al terrore (sta parlando delle fantasie) ovviamente questi stati d’animo (lui li chiama “stati d’animo”) non vanno qui intesi in senso moderno soggettivo, quali stati psicologici bensì in termini più iniziali come quelle situazioni emotive in base a cui la voce silenziosa della parola dispone l’essenza dell’uomo nel suo riferimento all’essere (qualche cosa che non c’è, che è muto nella parola e che tuttavia costituisce l’essenza, ciò che è muto ma che costituisce la condizione del dire è la differance di cui parlava Derrida, esattamente in questi termini) Noi tardi discendenti però possiamo in generale esperire l’essenza dei δαμονες intesi come coloro che risplendendo nel solito si mostrano nell’ente indicando così l’ente nell’essere, alla sola condizione di riferirci almeno intuitivamente all’essenza dell’ἀλήθεια, al fine di riconoscere in che senso nella grecità lo svelamento e lo schiudersi dominano completamente l’essenza dell’essere dischiusosi in modo iniziale (che è esattamente ciò che per Heidegger i greci non hanno pensato il fatto che, continuo a chiamarlo “movimento” tra lo svelamento e la velatezza costituisce l’essenza dell’essere). Nella misura in cui l’essere è essenzialmente in base all’ἀλήθεια, all’essere appartiene lo schiudersi che si svela (quello che vi ho appena detto). Noi lo chiamiamo il diradarsi e la radura (Lichtung). Tale nominare scaturisce in vero da un’esperienza iniziale del pensiero che si trova costretto a pensare l’ἀλήθεια nella sua “verità” peculiare la quale va quindi prima percepita, quest’altro nominare che qui inizia a parlare d’improvviso (per Heidegger quando le cose si interrogano, cioè si interrogano le cose essenziali, quelle iniziali del pensiero accade che queste cose iniziano a parlare come d’improvviso. Sono state, mute nessuno le ha ascoltate, e la domanda le attiva, le fa parlare cioè le pone di fronte) non consiste affatto di una sostituzione di differenti designazioni al posto di qualcosa di altrimenti non ulteriormente pensato (cioè non basta mettere una cosa al posto dell’altra, bisogna interrogare la cosa) il diradato si mostra originariamente nell’attraversamento del trasparente vale a dire in quanto chiarezza e luce, soltanto nella misura in cui l’ἀλήθεια è essenzialmente presente essa porta la radura nello svelato ed è proprio perché nell’essenza nascosta dell’ἀλήθεια avviene la radura che lo schiudersi ed essere presente cioè l’essere viene esperito alla luce della chiarezza. Il risplendere è ciò che si mostra allo scorgere, ciò che appare allo scorgere, è la visione che viene invitata all’uomo e che gli si rivolge cioè la veduta, l’atto dello scorgere che l’uomo compie in riferimento alla veduta che appare (qui non c’è l’oggetto che appare ma è la veduta che appare) è già la risposta alla veduta originaria che per prima eleva nell’essenza l’atto umano dello scorgere e dunque in seguito al dominio dell’ἀλήθεια e solo a esso che il guardare è la modalità iniziale dello schiudersi nel rado e dell’entrare nello svelato, tale guardare che solo rende possibile l’essere presente è dunque più originario della presenza delle cose (il guardare è più originario della presenza delle cose) giacché in conformità alla piena essenza dello svelamento il guardare che si svela al tempo stesso cela e nasconde in sé qualcosa di non disvelato, al contrario la cosa in sé priva di sguardo appare unicamente in modo da pervenire sì nello svelato ma da non avere essa stessa niente da svelare e quindi niente da velare (l’animale non ha niente da svelare quindi non c’è né velamento né disvelamento c’è niente) /…/ Il guardare, in senso originario determinato dal manifestarsi che si schiude dunque dall’ἀλήθεια, si dice in greco θεω, viceversa il guardare nel senso del cogliere che concepito a partire da colui che coglie lascia venire incontro a sé lo sguardo incontrante e lo accoglie, questo guardare che coglie viene espresso tramite la forma media di θεω , cioè θεωμαι significa lasciare venire incontro a sé lo sguardo incontrante che scorge (sta dicendo che il guardare nel senso del cogliere greco è concepito a partire da colui che coglie quindi dal soggetto che è qualcosa di fermo, identico a sé ma da colui che coglie, “il cogliente” sarebbe e questo colui che coglie, lasciando venire incontro a sé lo sguardo incontrante e lo accoglie, lascia venire verso di sé questo sguardo. È difficile per noi pensare la cosa perché siamo abituati a pensare soggetto oggetto, io guardo l’oggetto, l’oggetto è lì lo fisso, lo inchiodo, lo blocco e lo manipolo, qui è come se non ci fosse più distinzione, adesso lo dico in modo molto rozzo, tra il guardare e colui che guarda, perché sono la stessa cosa e chi guarda accoglie il suo stesso guardare) /…/ Nell’umanità moderna, conformemente alla preminenza della soggettività, è decisivo il guardare in quanto atto del soggetto nella misura in cui, come diceva Nietzsche, l’uomo è l’animale che si è fissato in quanto super uomo e trova la sua essenza nella volontà di potenza, lo sguardo del soggetto è lo sguardo di quell’essere che procede calcolando cioè conquistando, ingannando, aggredendo (questa è la differenza fondamentale tra lo sguardo, il guardare imperiale, adesso uso questa metafora, e lo sguardo greco che mentre guarda qualche cosa accoglie il suo guardare e accoglie ciò che il suo guardare produce) lo sguardo del soggetto moderno è, come ha detto Spengler a seguito di Nietzsche, lo sguardo del predatore (lo spiare, cosa che non esiste nel pensiero greco) anche i greci conoscono il guardare quale atto dell’uomo eppure il tratto fondamentale di questo guardare che coglie, non è lo spiare in cui l’ente viene per così dire trafitto, divenendo in tal modo anzi tutto l’oggetto avverso di una conquista (ciò che sta contro Gegenstand) il guardare greco è il percepire l’ente partendo da un accordo iniziale con l’essere (cioè accogliendo un’apertura, accogliendo l’apertura dell’essere ecco che può apparire qualcosa che è un ente, e qui per lui è importante la questione dell’accordo iniziale con l’essere, l’accordo iniziale con l’essere significa cogliere l’essere per quello che è e non come un ente, e cioè mantenere come direbbe De Saussure, la barra: l’essere non è l’ente, il significato non è il significante) ed è per questo che i greci nemmeno conoscono il concetto di “oggetto” né possono mai pensare l’essere nei termini di oggettività, essi però esperiscono il guardare che ac-coglie in quanto percepire proprio perché tale guardare è determinato in modo affatto originario dallo sguardo incontrante (cioè il guardare è determinato in modo assolutamente originario dallo sguardo che incontra le cose, le incontra in quanto è in accordo con l’essere, se è in accordo con l’essere, se lascia cioè che l’essere sia quello che è e non un ente, cioè non lo inchioda all’ente, solo a questa condizione è possibile incontrare l’ente che si svela) A pag. 205: Ora, il nome e la nominazione del divino θεον come ciò che guarda e risplende entro, (ciò che guarda e risplende entro, che cosa? il solito, ovviamente) non sono soltanto un contrassegno fonetico, il nome inteso come la parola prima è ciò che fa apparire quanto va nominato nel modo in cui esso è la sua essenza iniziale ma l’essenza dell’uomo esperito in senso greco lo si determina in base al riferimento dell’essere che si schiude all’uomo di modo che l’uomo è colui che ha la parola (l’essere si manifesta come all’uomo? Innanzi tutto come λόγος, lo abbiamo detto, lo dice mille volte da per tutto Heidegger, come λόγος quindi come parola) tuttavia secondo la sua essenza la parola è il far apparire l’essere nominandolo, l’uomo è lo ζον λγον χον, l’ente che si schiude nella coniazione e nella saga e che nel dire custodisce la sua essenza (qui c’è tutto Freud se volete, l’uomo è quell’ente provvisto di parola, e soltanto nel racconto, nella saga, nel dire è lì che custodisce la sua essenza, ma qual è la sua essenza? La sua essenza è quella di essere appunto parlante, di essere parlante e quindi di essere in accordo con l’essere, in accordo con il significato, adesso diciamola in termini psicanalitici, di essere in accordo con il significato che appare, in accordo, non in disaccordo, in accordo con il significato che appare e lasciare che questo significato produca, manifesti degli enti, cioè altri significanti) La parola in quanto nominazione dell’essere cioè il μύθος nomina l’essere nel suo guardare entro e risplendere iniziali, nomina cioè to θεον, gli dei. Il δαιμόνιον è ciò che interviene comunque, parlando irrompe nel solito e lo tramuta nell’in-insolito, in qualcosa che non si era mai sentito prima. Incominciando a parlare si ha l’opportunità, se “in accordo con l’essere”, accogliendo il significato che appare in ciò che si dice, ha l’opportunità di accorgersi di ciò che accade mentre si parla.