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9 febbraio 2022

 

Il sofista di Platone di M. Heidegger

 

Proseguiamo la lettura di questo testo di Heidegger. Siamo arrivati al cuore della questione. Siamo a pag. 436 e nelle precedenti pagine Heidegger ci ha preparati a questo. Ecco, dunque, la questione di cui si tratta. Pronunciare il τί (qualcosa) per così dire nudo, isolato in un certo senso da qualsiasi determinazione d’essere, questo è δύνατον, è impossibile. Quindi, dire una parola, una qualunque cosa, che non sia connessa con un’altra, è impossibile. Qui lui ha avuto sotto gli occhi la questione del linguaggio, propriamente, nel senso che ha avuto l’opportunità, che non ha colta, di cogliere immediatamente che il linguaggio non è che relazione: ciascun elemento è in quanto è in relazione con un altro. Non posso dire il τί spogliandolo dell’essere in generale. Ogni alcunché, essendo qualcosa, è e ciò anche se il senso di “è”, di essere, rimane assolutamente indeterminato; ma per il fatto che in generale è di qualcosa che parlo, questo qualcosa è. Sicché ne risulta nel «τί» λέγειν (dire qualcosa) è già implicitamente detto l’ente, e non solo, anche l’Uno… Perché se dico qualcosa, qualcosa è un ente, ma quell’ente è quello, quindi, è l’Uno. Ogni qualcosa è e ogni alcunché è un qualcosa, il «τί» λέγειν è qualcosa che si dice. Non è dunque proprio possibile, senza che nel senso di questo stesso λέγειν, del dire una qualsiasi cosa, siano intesi implicitamente l’essere e l’Uno. Chi, dunque, volesse pronunciare il non-ente, cioè il non qualcosa, perverrebbe di necessità a dire niente. Uno che dice il non-ente non farà altro che tacere; infatti, ogni λέγειν è in base al suo senso un λέγειν τί, ma ogni λέγειν τί implica l’ente e l’Uno. Dunque, nel dire non-ente, non appena dico c’è già implicito l’ente e l’Uno. Con ciò diventa già visibile una struttura assolutamente originaria del discorso che è ancora del tutto separata dalla sfera reale alla quale potrebbe riferirsi il λέγειν, quello del chiamare in causa e del discutere. Solo in quanto λέγειν e λέγειν τί, chiamare in causa qualcosa, accade in ciò stesso che si chiama in causa risultino implicitamente detti determinati caratteri del suo essere, è l’essere stesso. Questo significa però che il λέγειν in se stesso, in quanto è λέγειν τί, c’era in sé difficoltà fondamentali per quanto concerne il rivolgersi al non-ente. Come faccio a rivolgermi al non-ente se dicendo dico necessariamente qualcosa, cioè un ente? Tale difficoltà va ora pensata sino in fondo, essa è implicita nel λέγειν medesimo… È una difficoltà implicita perché fa parte del linguaggio, è il linguaggio stesso. …e bisogna chiedersi quale significato abbia per il διαλéγεσθαι, inteso come λέγειν, come il dire del non-ente. Se osiamo pronunciare il non-ente risulta che nel fare ciò parliamo di qualcosa e che questo qualcosa implica, come qualsiasi dire in generale, l’ente e l’Uno. Semmai deve essere possibile rendere comprensibile il non-ente come potenziale oggetto di un discorso, sorge la questione di come deve essere fatto questo discorso stesso per consentire un discorso sul non-ente. In altri termini, stiamo cercando il retto modo di rivolgersi al non-ente. Già da questa problematica emerge che la difficoltà non sta tanto in primo luogo nel non-ente quanto nel λέγειν stesso, nel linguaggio stesso, nel fatto cioè che ogni rivolgersi al non-ente, come essente, cela strutturalmente in sé una συμπλοκήPotremmo dirla con Hegel: un’Aufhebung, un’integrazione, cioè un intreccio di essere e di non-essere. Il non-ente è a condizione che tale intreccio sussista legittimamente in qualche senso, ma se il non-ente deve poter essere in qualche senso, è evidente che qui il non va usato in un’accezione affatto specifica, finora ignota allo stesso Platone. È dunque necessaria non solo una revisione del λόγος, del suo senso, ma anche una revisione del senso del non. Come dire che ci sono modi differenti di negare qualcosa. In quanto il “non” è correlativo a un dire di no e alla negazione, la questione del non-ente torna a concentrarsi sul λέγειν del non-ente. Questo è il cammino intrapreso dalle trattazioni successive che restano ancora parzialmente oscure nei loro singoli passaggi. Qui vediamo come al tempo stesso Platone si sia trovato di fronte alla questione e l’abbia intravista, sfuggendogli completamente di mano. La coglie quando si accorge che una è in relazione a un’altra cosa, quindi, che la relazione è fondamentale… Tutto è relazione, tutto è segno, come dirà poi Peirce. Qualsiasi cosa nel dire sia detta di qualcosa è un qualcosa, ovvero con le parole di Platone: il τί è σημεον dell’έν (Uno)… Il qualcosa è ciò che significa questo Uno, perché qualcosa è Uno. Il τί, qualcosa come tale, allude all’Uno. Questo vuol dire che nel significato di qualcosa è implicita l’unità, l’Uno. Qui σημεον (significato) è usato a ragion veduta. In Aristotele diventerà un termine filosofico vero e proprio. σημανειν indica per lui un determinato modo del pensiero, quello che spetta alla parola in quanto parola, il significare. Cioè, la parola è in quanto significa. Ogni τί significa insieme, dunque, all’Uno una indicazione numerica in senso lato. Qui insieme nell’espressione significa insieme, che vuol dire sin da principio insieme. Inoltre, il termine τινέ, che è il duale di τί, (entrambi, l’uno e l’altro) implica il numero due e il τινές (alcuni)… Τί, τινέ e τινές, uno, due e molti. …implica la nozione di molteplicità. Τί, τινέ e τινές sottintendono έν, δο, πολλά (uno, due, molti)… Quindi, numeri. È chiaro che qui il numero è inteso in senso ontologico e non operativo. Vige qui pertanto una nozione ancora assai ampia di numero… Infatti, è posta in senso ontologico. …e nel numero si identifica una determinazione costitutiva di ogni qualcosa in quanto tale, una moltitudine di qualcosa, come ad es. pluralità, alcuni, molti. Uno, alcuni, molti, sono numeri in senso ontologico affatto originari. Bisogna tenere presente questa nozione ampia di ριθμός (numero) sia per comprendere che ruolo abbia il numero nell’ontologia dello stesso Platone sia per capire un dato di fatto storico, che cioè vi sia stato presso i Greci un determinato indirizzo filosofico, i Pitagorici, che concepiva i numeri come vere e proprie determinazioni fondamentali dell’ente. Ciò non ha nulla a che spartire con una visione matematica del mondo e simili, ma sorge da questo senso affatto originario del numero, in base al quale numerare non significa altro che dire qualcosa, un po’, alcuni, molti, e in tal modo articolare la molteplicità delle cose. Dunque, poiché nel τί, qualcosa, come λεγμενον, come detto, sono necessariamente implicati l’ente e l’Uno, l’espressione “non dire qualcosa” equivale a “non dire nulla”. Questo significa in realtà non poter parlare affatto. Sembra così che la trattazione abbia toccato la sua difficoltà più estrema e che non ci sia più alcuna via d’uscita che possa spiegare il λόγος del μ ν, del non-ente, visto che abbiamo appurato che non è in alcun modo possibile parlarne. Che è invece ciò che vuole fare Platone: dire che il non-ente è, contrariamente a quello che diceva Parmenide. E, quindi, deve parlarne, ma come? Siamo giunti a dire che dire il non-ente è tacere. Come ne parliamo? Lo Straniero fa riflettere Teeteto sul fatto che sussiste una difficoltà ancora più grande, anzi, la più grande e prioritaria. Soltanto da questa, infatti, è possibile dominare con lo sguardo tutte le altre difficoltà che abbiamo incontrato a proposito del non-ente. Ve l’anticipo: se del non-ente non si può parlare, giacché ogni discorso è un discorso su qualcosa, non è nemmeno possibile parlare contro il sofista, posto che non è nemmeno possibile ragionare su di lui. Egli è, infatti, il non-ente in persona, nella sua semplice presenza di fatto. Questo vuol dire che il sofista si è nascosto talmente bene dietro il suo riparo che è impossibile sconfiggerlo sul piano del discorso e del dialogo. Lo Straniero fa osservare che nel discorso sul non-ente c’è evidentemente questo: nel discorso dovrebbe sopraggiungere, sovvenire qualche altro ente. Affiora qui per la prima volta in siffatto contesto il concetto di έτερον. Questo è importante. Si è sempre parlato di πολλά, di molti, o di λλος, altri; qui è la prima volta che interviene la parola έτερον, che vuol dire diverso. Questa nozione di έτερον è ciò a partire da cui Platone opererà una revisione del non nel non-ente, cioè della negazione. Quindi, questo non-ente non significa che non esiste l’ente, significa che è diverso. Questo è il punto cruciale in Platone dove “risolve” la questione. Questa novità che sopraggiunge, il fatto che nel nominare un ente no sia implicito un altro non presenta evidentemente alcuna difficoltà. Quando chiamo in causa il τί, come ente e al tempo stesso come Uno, dico qualcosa di comprensibile, ma come stanno le cose nel nostro caso? Diremo che è possibile attribuire al non-ente un ente, cioè che nel non-ente è implicito e detto insieme un ente? Cioè: dicendo non-ente dico ente? Lo Straniero gli ricorda un fenomeno già considerato, il numero. Tutto ciò che è numero lo annoveriamo fra ciò che è, se mai qualcosa è è il numero. Ciò che echeggia ancora in Platone per quanto riguarda i Pitagorici. Pertanto, se ogni numero è un ente, non proveremo mai a trasferire qualcosa del numero né quantità, né pluralità, né l’Uno, l’unità, al non-ente. Queste cose sono, quindi, non possiamo dire che non sono. Non sarà evidentemente possibile προσφέρειν (attribuire) al non-ente un numero, che invece è ente… Il numero è un ente, quindi, non posso attribuire a un non-ente un numero. D’altro canto, però, come è possibile esprimere a parole un non-ente, coglierlo nel ritenere senza reputarlo un non-ente, ovvero intenderlo come alcuni non-enti? Quando si considerano il non-ente e i non-enti è dunque necessario implicare ancora una volta ριθμός, cioè un numero? Ma numero, come abbiamo accertato, è ente. Pertanto, anche in quest’ottica il non-ente può essere concepito χρις ριθμο (separato dal numero) ... Non possiamo attribuire il numero al non-ente perché il numero è qualcosa. …che equivale a dire χρις ντοςNon possiamo presupporlo fuori dagli enti. D’altra parte diciamo che non è né giusto né sensato tentare di armonizzare fra loro l’ente e il non-ente. Dice che non è né giusto né sensato mettere insieme l’ente con il non-ente e, quindi, vanno tenuti separati. Fate più attenzione alle differenti espressioni che connotano la peculiare συμπλοκή, unione di ente e di non-ente. Questa è la συμπλοκή, l’unione di ente e di non-ente, il trasferimento, il passaggio dall’uno all’altro. Dovremo dire allora: il non-ente, visto puramente in se stesso, è senz’altro irritenibile, non lo si può assolutamente reputare esso non-ente come qualcosa; indicibile, impronunciabile, insomma riassuntivamente, λογον (fuori del linguaggio). Non è affatto impossibile l’oggetto di un qualche discorso, non vi è alcun λόγος del non-ente. Tutte queste storie che costruisce, Platone le costruisce senza rendersi conto che non sta parlando di enti di natura, sta parlando di concetti, mentre il problema, che la filosofia ha sempre incontrato, è quello di scambiare i concetti, cioè enti di ragione, con enti di natura, immaginando che essendo enti di natura siano coì per virtù propria, di natura divina, mentre sono concetti costruiti, costruiti in modo tale da poter proseguire a costruire altre cose. Anche colui che confuta, e cioè anche chi dice che il non-ente non è, come fa Parmenide, viene risospinto nella medesima difficoltà. Se, infatti, dice che il non-ente non è, parla contro se stesso. E tale difficoltà è ancora più ardua giacché siamo stati noi stessi a dire che il non-ente è λογον, per di più che esso è λογον. Come faccio a dire che il non-ente non è se è fuori dal linguaggio, se non è qualcosa? Per dire che il non-ente non è devo determinarlo e nel momento in cui lo determino è qualcosa, ovviamente. E, allora, è o non è? È con queste cose qui che gli antichi si divertivano. Nemmeno questo in fondo può essere detto qualora il principio di Parmenide sussista a buon diritto. Ecco che la difficoltà è spinta qui sino al culmine e ciò al solo scopo di vedere una volta in più che il λέγειν è il λέγειν τίE cioè che il dire è sempre il dire qualcosa: se dico, dico qualcosa. Se dico che il non-ente è o non è, dico qualcosa, dico cioè un ente. È chiaro, infatti, che quando si parla del non-ente ci si mette costantemente nell’impossibilità di condurre innanzi la propria impresa. Se il parlare di è sempre un chiamare in causa qualcosa e se il parlare come tale è la modalità primaria per dischiudere l’ente e per accedervi, il non-ente rimane precluso al λόγος. Non c’è niente da fare. Però, ne sto parlando e se ne sto parlando in qualche modo l’ho determinato e, quindi, l’ho determinato in quanto ente. Questo marcato rilievo del λέγειν come λέγειν τί non è nient’altro che la scoperta della chiara appropriazione di una struttura fondamentale, tanto del λέγειν quanto del noein (pensiero) e del δοξάζειν (l’opinione). Il parlare è il parlare di qualcosa. Non è una banalità, proprio gli sforzi compiuti da Platone ci mostrano a quale prezzo si sia potuto vedere questo stato di cose fondamentale del λέγειν e del λέγειν τί. Non c’è un λέγειν che non sia un λέγειν τί, un dire qualcosa. Questa struttura fondamentale del discorso e del pensiero, in senso più ampio, di ogni atteggiamento dell’essere umano, in generale di ogni vivente… …questa struttura fondamentale dell’essere, denominata nella fenomenologia con la parola “intenzionalità”, la quale si richiama a un termine della scolastica, intentio… Se dico, dico qualcosa, cioè, ho intenzione di dire qualcosa. Non dico se non c’è l’intenzione di dire qualcosa. Noi sappiamo qual è l’intenzione: è la volontà di potenza. Il fatto che il dire sia sempre un dire qualcosa comporta l’intenzione di dire, quindi, di determinare, quindi, di dominare. Ancora oggi si continua a suggerire il fenomeno dell’intenzionalità sia un particolare atteggiamento, un osservare, notare o prendere di mira qualcosa; tutto questo, invece, non c’entra. L’intenzionalità è bensì una struttura che pertiene al vivente in vista del suo essere stesso. Tale struttura sussiste anche quando nel mero passivo avere qualcosa non sto in realtà attuando alcuna notazione esplicita né alcun intendimento in senso stretto. Proprio per questo suo specifico riferimento, sia linguistico che storico e semantico, il termine intentio è facilmente equivocabile, tanto più qualora se applicato alle cosiddette esperienze vissute… C’è l’intenzione, certo, di dire qualcosa, ma l’intenzione nel dire è l’intenzione di determinare, cioè di fermare, di determinare, in definitiva, l’indeterminabile. Come posso determinare se ciascuna cosa è quella che è in vista di un’altra? Come la determino? Sì, in vista di quell’altra, la quale naturalmente è in vista di quell’altra. Il sofista rimane dunque sinora totalmente al riparo da ogni attacco. Come se avessero detto: il non-ente è in qualche modo e il sofista dicesse “Allora, provalo! Come fai a dire il non-ente? Se parli di non-ente non parli proprio”. Anzi, egli stesso ha la possibilità di passare al contrattacco, visto che in lui è lo stesso un non-ente nel suo sussistere di fatto a parlare. Di lui diciamo che la sua τέχνη è τέχνη φανταστικ (abilità nel costruire immagini). Ora siamo noi che dobbiamo rendergli conto di ciò che, per nostra stessa ammissione, non può essere in nessun modo oggetto di alcun discorso ed è lui a domandare a noi, che lo chiamiamo costruttore di simulacri; che cosa intendiamo noi con la parola εδωλον. La trattazione torna quindi a spiegare la nozione di εδωλον, anche se non più allo stesso livello, ecc. /…/ Adesso non si tratta più di attestare la presenza dell’εδωλον, vale a dire del non essere… L’εδωλον qui è chiaramente ciò che si oppone alla realtà, a ciò che è, quindi, è il non essere: εδωλον come non essere. …bensì di comprendere l’εδωλον stesso, il non essere stesso, il non-ente in quanto tale, ovvero di prepararne la comprensione, non più però in relazione a una τέχνη μιμετικ, come il disegnare o il dipingere, ma in rapporto con il ποιεν di questo εδωλον. Cioè, la costruzione di questo non essere. Adesso, insomma, la discussione su che cosa sia l’εδωλον non dovrà avvenire sulla scorta del paradigma, bensì avendo di mira il sofista stesso, la cui τέχνη è appunto il λέγειν. /…/ In altri termini, bisogna qui rendere comprensibile che cosa significhi εδωλα λέγειν (discorsi sui simulacri, sul non essere), ovvero, discorso falso. /…/ Teeteto dice “È chiarissimo. Direi che, ad esempio, le immagini riflesse sull’acqua o sullo specchio, oppure ciò che è disegnato, dipinto, scolpito, impresso e altre cose simili… Questi sarebbero gli εδωλα, i non-enti, il non essere. Qui acutamente Heidegger traduce εδωλον con non essere perché è un essere falso, quindi, non essere. Teeteto risponde nel senso di rinviare a εδωλα concretamente presenti. Lo Straniero gli risponde: “Adesso sembri uno che evidentemente non ha mai ancora visto un sofista”. Con ciò intende dirgli che non comprende affatto che cosa voglia propriamente il sofista. Un sofista, infatti, se rispondi così alla sua domanda, ti apparirà come uno che chiude gli occhi, anzi, come uno che nemmeno li ha. Se gli parlerai come a uno che vede con gli occhi e gli indicherai queste immagini che ha lì davanti, ti deriderà, non coglie minimamente il punto centrale della sua questione se credi di rispondergli con l’indicazione di diversi tipi di immagini, si spaccerà per uno che non conosce affatto queste cose e ti dirà “Non so nulla di immagini riflesse, disegnate e simili” e pretenderà invece soltanto e unicamente ciò che risulta visibile nei λόγοι (nei discorsi). Qui occorre fare un’annotazione. Il sofista, in effetti, è stato il primo e l’unico nella storia del pensiero che non ha creduto all’illusione del vedere. “Lo vedo e, quindi, è così” è un’affermazione che per il sofista non significa niente. È stato il primo e unico nella storia del pensiero, nessun altro ha mai osato tanto. Il sofista è colui che non crede al luogo comune, non si appoggia al luogo comune, pur sapendo che si parte sempre dal luogo comune, però non scambia il luogo comune per verità, come vuole fare Platone con la dialettica e, più ancora, Aristotele. Non commette questo errore, non prende questo abbaglio. Che significa quello che si vede nei λόγοι stessi lo si vedrebbe anche persino chiudendo gli occhi? Ciò che è visibile nel λέγειν è il λεγμενον (detto), quel qualcosa a cui ci si rivolge in quanto qualcosa. Questo propriamente andiamo cercando e di questo sto parlando, riferendomi alle immagini non è questa o quella cosa che vedo con gli occhi del corpo, bensì è appunto ciò che di volta in volta conferisce a quanto viene visto la sua comprensibilità, la possibilità che ci si rivolga a esso e che mi consente di chiamare εδωλον l’immagine che vedo riflessa nell’acqua. A Teeteto che vuole costruire una teoria il sofista risponde in termini teoretici, e cioè rispetto alle condizioni di quella teoria, quali sono le condizioni per cui è possibile vedere qualcosa riflesso in uno specchio o pensare uno specchio. Pertanto, quello che stiamo cercando non è ciò, dice lo Straniero, che tu adduci, bensì qualcosa che in un certo senso passa attraverso tutte queste singole cose, ovvero, c’è già, ontologicamente parlando, in ciascuna di esse. È questo il senso di cui parlava nelle pagine precedenti, quando diceva che la τέχνη del sofista è su tutto, ma un “su tutto” non nel senso di tutte le cose presenti ma un “tutto” come questione. Il sofista non sa tutto, i dettagli non lo interessano, ma sa interrogare tutto, questo sì, questo occorre riconoscerglielo. Egli fa chiaramente notare che in fondo e senza saperlo egli sa già, ha già in vista qualcosa. Se tu, cioè, ritieni di poter rivolgerti a tutti questi diversi εδωλα con un solo nome, quando infatti pronunci l’espressione εδωλα riferendola a tutti, tu dici εδωλον ς ν ν, il non-ente in quanto uno ed ente, come se fossero una cosa sola. Ebbene, nel tuo modo di chiamare in causa, che appare naturale ed ovvio, in questo tuo uso linguistico immediato intendi già in un certo qual modo Uno. Qui sottolinea l’aspetto linguistico, è linguisticamente che chiama in causa l’Uno, non esiste l’Uno in natura, ma linguisticamente lo chiama in causa, cioè, lo costruisco. Questo chiamare in causa è produrre. Ecco che Teeteto è stato ormai propriamente innalzato al giusto livello metodologico. Da ciò è risultato chiaramente che nell’esame dell’εδωλον non si tratta affatto del vedere sensibile con gli occhi ma di quello che avviene con gli occhi νος, del pensiero. Forse, non so se sia una forzatura, questa caratterizzazione del sofista possiede anche un elemento di ironia là dove si dice che si farà beffe di Teeteto quando questi dovesse prenderlo come uno che vede. /…/ Platone, infatti, è convinto che i sofisti siano completamente ciechi per quanto riguarda l’autentico vedere, quello che accade nel λόγος. /…/ Ora, prestate attenzione, la formulazione con cui si determina l’εδωλον è caratterizzata dall’emergenza dell’espressione έτερον, la quale costituirà in seguito la soluzione vera e propria della difficoltà di fondo nella questione dell’essere e del non-ente. È difficile rendere in traduzione il modo in cui Teeteto formula questa determinazione dell’εδωλον. Procedo scomponendo la frase: l’εδωλον, l’immagine, è to έτερον τοιοτον, ciò che è un altro siffatto, vale a dire un altro; il rappresentato è al tempo stesso uguale all’ente vero e proprio, egli è uguale come se vi fosse stato quasi estratto. Si tratta di una formulazione non immediatamente comprensibile… /…/ A cosa mai è riferito questo έτερον τοιοτον, cioè un altro questo stesso, questo stesso altro forse a un altro siffatto ente in senso proprio? O che altro? Risponde Teeteto: “No, per niente. Non ληθινν (qualcosa che è quello che è)”. E ciò non nel senso che questo έτερον τοιοτον allora non sia dal canto suo alcunché di reale. Esso è bensì, quanto alla sua struttura, εκς, appare come, rassomiglia, all’ληθινν (a quello che è realmente). Ma lo Straniero non demorde: “ληθινν non vuol già dire di per sé ντος ν, essente come può essere un ente, essere vero e proprio? Se dunque l’εδωλον, ovvero immagine, è qualcosa che richiama all’essere vero e proprio, vuol dire allora che è un non ληθινν Cioè, non è qualcosa di vero e proprio. Questo, però, è contrario, è contro, è il contrario dell’ληθινν, ma il contrario dell’ente vero, dell’ντος ν, è evidentemente il μ ν, il non-ente. Tu ti rivolgi, dunque, all’εϰός, all’immagine, come niente affatto essente o, in altri termini, lo chiami μ ληθινν, non autentico. Potremmo a questo punto tradurre ληθινν con autentico. Insomma, lo Straniero vuole spingere Teeteto ad ammettere che l’εδωλον, se non è un diverso, un έτερον, rispetto all’autentico, allora è il contrario dell’autentico e, pertanto, è un non-ente. Perché con ente intendiamo un ente autentico, vero. In ciò risiede la sofistica, nel fatto che lo Straniero reinterpreta lo έτερον, l’alterità dell’ληθινν, del vero e proprio, ovvero dell’ν, semplicemente stravolgendolo nel senso di un contrario rispetto all’ν. Ma Teeteto si ribella a questo tentativo di interpretare l’essere dell’εδωλον come non essere e ribadisce “Ma insomma in qualche modo pur sempre c’è, l’immagine nell’acqua pur sempre è”. È vero che Teeteto non possiede positivamente una nozione dell’essere dell’immagine ma vede che l’immagine è e, invero, in qualche modo in un senso determinato. Qui interviene un’altra parola importante: πώς, in qualche modo. Vedremo quale ruolo ha. Perciò non permette che questi argomenti lo distolgano da quello che vede. Ecco qui lo scontro fra lo Straniero, l’eleate, il sofista, e Teeteto. Teeteto non si sgancia da ciò che vede, ma è ancorato al suo vedere; il sofista cerca di allontanarlo da questo vedere, che è finto, illusorio. Non perché non vede, certo che vede, ma perché, se dovessimo dirla tutta, di fatto non sa che cosa vede: vede, sì, certo, ma non sa cosa. Come Zenone e la tartaruga: lo vedo ma non so cosa propriamente sto vedendo. Torna ad obiettare lo Straniero: “Non è quell’ente stesso che vi è rispecchiato”: Teeteto, orientandosi a quello vede, precisa il suo discorso: Questo certamente no… L’immagine non è il rappresentato. …devo solo aggiungere: in quanto immagine è qualcosa di reale, il suo essere immagine è reale. L’immagine è pur sempre qualcosa, appunto in quanto immagine. L’immagine deve essere qualcosa per potersi mostrare, spacciare per ciò che essa non è, è dunque davvero in qualche modo ente. Ma con questo essere in qualche modo, come risulterà da seguito della trattazione, è fatta vacillare l’interpretazione tradizionale consueta dell’ente, nel suo rigido senso parmenideo. Ma ciò che intanto risulta è questo stato di cose. Sul piano concettuale dobbiamo intendere l’immagine come ciò che non essendo tuttavia è, propriamente non essente tuttavia esso è, in senso proprio essente. L’immagine non è perché non è quella cosa che rappresenta, tuttavia l’immagine è qualcosa. Non sappiamo cosa, ma poiché ne stiamo parlando qualcosa è. Ora, questo è il fenomeno vero e proprio verso il quale si dirige ora la trattazione, cioè la συμπλοκή (unione). Se l’immagine possiede un essere si afferma che il non-ente può stipulare con l’ente una συμπλοκή, che è una cosa ben diversa dalla mera affermazione che il non-ente è. È per questo che ho richiamato l’attenzione sul fatto che le espressioni προσφέρειν alludono a una struttura del λόγος ben precisa. Πώς, rivolgersi a qualcosa, in relazione a qualcosa, ovvero, come possiamo dire più precisamente, rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa. La συμπλοκή è l’espressione di questo peculiare carattere del rivolgersi proprio del λόγος: qualcosa in quanto qualcosa. È mai possibile che ci si rivolga a qualcosa in quanto ciò stesso non è? La questione della possibilità di un λόγος siffatto e del λόγος in generale, la possibilità di rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa si fonda in questo, se in genere, relativamente all’ente, sia possibile essere altro rispetto a ciò che esso stesso è. Qui è riassunto in due righe tutto il problema della filosofia: è possibile che io mi rivolga a qualche cosa se questo qualche cosa è altro da sé? Il problema, come è emerso nelle pagine precedenti, è che necessariamente altro da sé, se è è in quanto altro, in quanto si rivolge ad altro. E, allora, come faccio a rivolgermi a una qualunque cosa? Cosa significa, posta in questi termini, che mi sto rivolgendo a qualche cosa? Questo qualche cosa non c’è o, più propriamente, è già altrove. E, allora, a che cosa mi rivolgo? Adesso si intende meglio la questione del vedere e del sofista. Io vedo, mi rivolgo a qualche cosa… Ma che cosa sto facendo esattamente? A che cosa mi sto rivolgendo? Che cosa sto vedendo? Questo non lo so. So che vedo, perché mi hanno insegnato che questo è vedere, ma che cosa vedo non lo so. È questo il senso del paradosso di Zenone. Siamo costretti, dice lo Straniero, ad ammettere che il non-ente in qualche senso sia. Perché lo vedo, quindi, è, ma non so che cos’è. Quindi, è quello che vedo ma anche non lo è. Ma se ciò è possibile allora può anche darsi che esista qualcosa come un εδωλον, un’immagine, uno ψεδος, un falso. Può allora sussistere la possibilità che sia qualcosa come un πατν, un ingannare, un lavorare con εδωλα, cioè, con un ente che è un non-ente, e allora può esservi anche un’opinione falsa. Per il momento una simile possibilità è ancora affatto dubbia. La discussione si sviluppa ancora sulla base che consente allo Straniero di chiedere “L’opinione falsa equivale ad avere un punto di vista su qualcosa, avere una veduta su qualcosa, che di per sé è ingannevole. Questa opinione falsa, la ψεδος δόξα equivarrebbe a un’opinione sui non-enti. Il tema della δόξα, inteso come opinione falsa, è dunque il nulla. Ma Teeteto si ribella anche a questa conclusione: il non-ente, come falso, è a tema di un’opinione falsa, non è il nulla, è un non-ente che in un certo qual senso è. Lo λόγος, come falso discorso, o la δόξα, come falsa opinione, implicano in sé il dire o il rivolgersi a, un non-ente in quanto ente oppure un ente in quanto non-ente. Questo infatti è il carattere di quella che chiamiamo un’asserzione falsa, spacciare un ente per un non-ente ovvero un non-ente come ente. Bisogna osservare che qui Platone adopera l’espressione λόγος in un senso ancora affatto provvisorio e in un’accezione indifferente, sicché la parola λόγος può essere intesa al meglio nel senso di rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa. Questa è una traduzione di λόγος che non si trova da nessuna parte, che adopera solo Heidegger: rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa. È opportuno rinunciare completamente al termine “giudizio”, che in logica è assai plurivoco. Verso la fine del dialogo Platone offre una determinazione del λόγος che si approssima a quella aristotelica. /…/ Il λόγος viene determinato come συμπλοκή di νυμα e σώμα (di nome e di aspetto). Il σώμα è quello che è, νυμα è il significato. Qui c’è in nuce il segno di de Saussure: significante e significato. Il significante è quello che è; il significato è un rinvio, è ciò a cui il significante rinvia necessariamente per essere un significante, per significare qualcosa. Adesso Heidegger riprende il principio di Parmenide. Possiamo formulare brevemente il principio di Parmenide con queste parole: έν ν το παν (uno, ente come tutto) … Tra parentesi c’è anche όλον perché poi παν (tutto) viene mutato in όλον, che vuol dire sempre “tutto” ma in un’accezione leggermente diversa. Se chiediamo perciò agli eleati cosa propriamente dicono, quale sia la loro opinione sull’ente, risponderanno έν ν το παν. Ma come, obietteremmo noi, non adoperate forse il termine ν anche per indicare qualcosa, per il quale usate altrimenti sempre e costantemente Uno. Quello che chiamate per principio Uno poi lo chiamate anche ente, sicché per riferirvi al medesimo usate due espressioni. Essi, insomma, sia nel nome dell’Uno sia nel nome dell’ente si rivolgono all’una e medesima cosa. /…/ Chi difende la tesi di Parmenide è in costante imbarazzo di fronte a questa domanda. Qualsiasi cosa venga, infatti, detta o chiesta a proposito dell’Uno, che è unico, è appunto qualcosa, e qualcosa è come tale altro rispetto all’Uno. Se chiedo di dire che cos’è l’Uno mi si dirà qualcosa che è sempre altro rispetto all’Uno, perché è un rinvio a qualche cos’altro. E tuttavia la tesi è έν είναι (l’Uno è). Qui lo Straniero riconosce la difficoltà fondamentale che si presenta ogni qual volta si voglia esaminare questa ipotesi έν ν το παν. Nella nostra accezione moderna l’ipotesi è la supposizione di uno stato di cose a cui si riferisce poi la domanda se le cose stessero in questo o in quel modo. L’ipotetico, per il suo stesso senso, è qualcosa che rimane sospeso, esso raggiunge la sua possibile stabilità e sussistenza solo nella misura in cui si rivela capace di spiegare uno stato di cose dato. Un’ipotesi sussiste solo in grazie di ciò che essa spiega, nella misura in cui lo spiega. Se fallisce la sua funzione esplicativa cade. Il greco πόθεσις, nel senso qui adoperato da Platone, è da intendersi in senso opposto. Ciò che è posto nell’πόθεσις non è posto in virtù di qualcos’altro, non sussiste in relazione a quest’altro che deve spiegare, bensì in sé e per sé, come ciò che è sempre già sussistente da sé. È ciò a partire da cui unicamente è possibile decidere del possibile essere e non essere di tutte le altre cose. Un esempio in tal senso è lo stesso poema didascalico di Parmenide, cioè il principio “l’ente è”. Tale ipotesi non sottostà alla formula “se… allora”, bensì in essa la πό è da intendersi nel senso dello ποκείμενον, ciò che in esso stesso e fin dal principio c’è sempre già. Ciò che gli antichi chiamavano φύσις, ciò che c’è già, da sempre. L’idea che ci sia qualche cosa che è già sempre, perché possano esserci le cose che sono, è un’idea stranamente antica, ma fondamentale perché è il primo modo di accorgersi che è perché c’è il linguaggio che ci sono tutte le cose, sennò non ci sarebbe niente.