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9-1-2008

 

La volta scorsa abbiamo parlato dell’identità e della tautologia e dicevamo che sembra che sia necessario per il linguaggio muovere da qualcosa di certo, di sicuro, appunto da una tautologia e cioè l’autoaffermarsi di sé di qualche cosa, ora a questo riguardo cioè dell’identità possiamo leggere qualche cosa di Severino che ha scritto un libro che si chiama appunto Tautótēs, alla lettera, identità. Qui cerca di stabilire se è possibile che qualche cosa sia identico a sé, cosa che potrebbe essere interessante, vediamo come svolge la questione. Dice che in una qualunque identità noi ammettiamo che per esempio A è A e allora dice così:

 

Nel suo significato più ampio e nella sua forma fon­damentale, alla quale è riconducibile ogni forma speci­fica di relazione, la relazione è l’esser qualcosa da parte di qualcosa (l’essere un essente da parte di un essente: l’essere un significare da parte di un significare — il significare che innanzitutto si manifesta nel linguaggio e come linguaggio /…/.

In questo suo significato più ampio, e in questa sua forma fondamentale, la relazione sussiste tra un essen­te qualsiasi e un qualsiasi essente e quindi non solo tra un essente qualsiasi e un qualsiasi altro essente, ma, anche, tra un essente qualsiasi e se stesso.

Nel Sofista (252d) Platone esclude che tra tutte le cose vi sia χοινωνία — ossia la relazione per cui una cosa qualsiasi è una qualsiasi altra cosa — perché, se così fosse, tale χοινωνία sarebbe lo stesso impossibile esser altro da parte di ogni cosa (onde «il movimento stesso, in quanto tale, sarebbe assolutamen­te un esser fermi e a sua volta la stasi stessa sarebbe un muoversi»; ibid., 252 d). Ma, proprio per questo, c’è χοινωνία tra un essente qualsiasi e un qualsiasi altro essente in quanto negato. Un qualsiasi essente è la nega­zione di un qualsiasi altro essente. La casa non è l’albero (il bianco non è il nero, la legna non è la cenere).

Questo non esser l’albero non è un che di contraddit­torio - e cioè di impossibile e di nullo -, solo in quanto la casa non è la totalità di ciò che non è l’albero, ma è una parte di tale totalità, cioè solo in quanto la casa è un non albero. Ma, appunto, il non esser albero, da parte della casa, è l’esser non albero da parte della casa; e, anche qui, questo esser non albero non è un che di contraddit­torio e di nullo, solo in quanto la casa è una parte della totalità di ciò che è non albero, e cioè solo in quanto l’esser non albero da parte della casa (la casa che è non albero) è l’esser un non albero (la casa che è un non albero).

In quanto negato, l’albero è in relazione alla casa; e un qualsiasi essente, in quanto negato, è in relazione a qualsiasi altro essente, secondo quel significato più am­pio e fondamentale della relazione, per cui essa è l’esser qualcosa da parte di qualcosa. Quindi l’esser qualcosa da parte di qualcosa non è soltanto l’esser qualcosa-co­me-negato, da parte di qualcosa, ma anche l’esser qual­cosa-come-affermato: la casa è soleggiata, la legna è verde, la legna è la legna.

 

Ciò che appare non è il semplice, ma la differenza - la molteplicità degli essenti -; e la differenza è relazione, l’esser qualcosa (come affermato o come negato) da parte di qualcosa. In quanto espressa dal linguaggio, in quanto contenuto della coscienza, la relazione e, per il pensiero dell’Occidente, relazione di «soggetto» e «predicato». Nonostante il convincimento, diffuso nel­la moderna logica simbolica, che non ci si possa arresta­re a questa forma di relazione, essa rimane la forma fondamentale di relazione, perché anche le forme più complesse di relazione sono riconducibili al dire e al pensare che qualcosa è (predicato di) qualcosa. Anche una « funzione » saturabile da più argomenti, come ad esempio «x è situato tra y e z», è pur sempre un dire qualcosa («situato tra y e z ») di qualcosa (x).

Anche quando il pensiero dell’Occidente non se ne rende conto, esso intende pur sempre il linguaggio e il pensiero come un affermare che qualcosa è qualcosa. E, quando nega questo, afferma pur sempre qualcosa di qualcosa (del linguaggio e del pensiero afferma cioè che non è un affermare qualcosa di qualcosa). Questo, anche quando, nella filosofia contemporanea (in campo neopositivistico-analitico e in campo ermeneutico), si mette tra parentesi la «realtà extralinguistica» o «ex­tratestuale» . Anche nelle lingue in cui è assente la copula o, in generale, che hanno una struttura diversa dalle lingue indoeuropee, il dire e il pensare, è sempre un dire e pensare qualcosa di qualcosa.

Anche quando si nega che esista «il» dire e «il» pensare, si dice e si pensa che qualcosa («il dire, il pensare») è qualcosa («non esiste»). Il dire e il pensare, cioè ogni dire e ogni pensare, è sempre un dire e un pensare che qualcosa è qualcosa (d’altro o di identico a sé): «A è B », «A è A».

 

Ma nel pensiero dell’Occidente il predicato è sempre, altro dal soggetto. E sempre altro proprio perché, innanzitutto, non è il soggetto. E non è il soggetto, e noci riesce ad evitare di essere altro dal soggetto, nemmeno o quando il suo contenuto è identico al soggetto stesso - onde si afferma che A è A. L’esser A da parte di A è una dualità che differisce dal semplice esser A.

Per poter affermare l’esser sé, l’identità a sé di qualcosa, è necessario affermare la differenza dei termini della relazione in cui l’identità consiste (e cioè dei termi­ni della identità in cui la relazione, in quanto esse, qualcosa da parte di qualcosa, consiste). Ogni cosa diversa da sé proprio perché è identica a sé. Dicendo pensando che qualcosa è qualcosa, si dice e si pensa a un’identità; ma ciò che è posto come identico è un non identico.

 

Sta dicendo che ogni volta che si dice, si dice qualcosa di qualcosa, e che affermare che A è A è dire qualcosa di qualche cos’altro, e questo lo condurrà presto a dire che il dire e il pensare, ogni dire e anche ogni pensare è sempre un dire e un pensare che qualcosa è qualche cos’altro, di altro identico a sé, per esempio, A è B o A è A. Ma nel pensiero occidentale il predicato è sempre altro dal soggetto, cosa che costituisce un problema nella formulazione di A è A visto che dovrebbe essere la stessa cosa ma lui ci dice che nel pensiero occidentale il predicato è sempre altro dal soggetto, è sempre altro perché innanzitutto non è il soggetto e non riesce ad essere altro dal soggetto. Ogni cosa è diversa da sé proprio perché è identica a sé, in questo A è A che è l’unico modo per affermare l’identità di A si afferma la sua differenza, perché una A è soggetto e l’altra è predicato. Non è molto lontano da ciò che diceva Peano come forse ricordate qualche volta fa che poneva una A a sinistra e l’altra a destra, mentre per essere identiche devono avere entrambe tutte le stesse proprietà ma una ha la proprietà di essere a sinistra e l’altra di essere a destra…

Intervento: A è A è una relazione quindi stabilisce una differenza, se non ci fosse relazione non ci sarebbe differenza…

Che l’affermazione dell’identità sia affermazione della differenza – «dualità» –, ossia della non identità, è riconosciuto in modo del tutto esplicito da Aristotele. Nel libro V della Metafisica (1018 a 7-9): «È manifesto che l’identità è una certa unità o dell’essere di più cose, o quando è assunta come più cose, ad esempio come quando si die che una cosa è identica a se stessa; [in questo caso] la stessa cosa viene infatti considerata come due cose».

Innanzitutto, dicendo che l’identità è «l’unità dell’e sere di più cose», il testo dice che ogni esser qualcosa da parte di qualcosa è un’identità. Infatti, l’identità, con «unità dell’essere di più cose» – cioè come unità dell’essere di diversi – significa l’essere altro da parte di qualcosa: dicendo che A è B si dice l’unità dell’essere di A e di g e cioè l’identità di A e B – giacché l’identità, come unità dell’essere di più cose, non può significare che l’esser B da parte di A. Ma – dice il testo – anche l’essere identico a se stesso da parte di qualcosa – A è A) è l’unità in cui lo stesso è «assunto, considerato, trattato» come più cose, e cioè in cui una cosa, proprio perché è identica a sé, è assunta come diversa da sé – sì che l’esser identico a se stesso si presenta come l’unità dell’essere di più cose, cioè di cose diverse.

Una cosa, per Aristotele, non è diversa da sé, ma quando viene detta o pensata come identica a sé, essa viene (inevitabilmente) «assunta» come una dualità: nella coscienza della sua identità essa è una dualità, è diversa da sé. Ma se Aristotele vede che l’identità – cioè l’esser qualcosa da parte di qualcosa – è sempre identità dei non identici, egli non avverte che l’identità dei non identici è la contraddizione impossibile e necessaria­mente inesistente. Giacché pensando e dicendo che qualcosa è qualcosa («A è B», «A è A») – e il pensiero e il linguaggio non possono pensare e dire altro che qual­cosa è qualcosa – il pensiero e il linguaggio dell’Occi­dente identificano i diversi – identificano i non identici, affermano la non identità dell’identità; pensano e dico­no dunque l’impossibile, ciò che è nulla.

Innanzitutto dicendo che l’identità è l’unità dell’essere di più cose il testo dice che ogni essere qualcosa da parte di qualcosa è un’identità, infatti l’identità come unità dell’essere di più cose cioè come unità dell’essere di diversi significa l’esser altro da parte di qualcosa giacché pensando, dicendo che qualcosa è qualcosa, per esempio che A è A, il pensiero e il linguaggio non possono pensare e dire altro che qualcosa è qualcosa, il pensiero e il linguaggio d’occidente identificano i diversi, identificano i non identici affermano la non identità dell’identità, pensano e dicono dunque l’impossibile ciò che è nulla, dopodiché pone la questione dell’isolamento cioè del tentativo operato dal discorso occidentale di isolare un elemento per stabilire che è identico a sé però, dice, una volta isolato non posso stabilirne l’identità perché per stabilirne l’identità devo affermare che è se stesso in quanto isolato dall’identità appunto con se stesso e cioè del suo non essere altro da sé. Tommaso diceva che per l’intelletto è due ma la cosa è una, la relazione di identità non potrà essere una relazione reale ma solo di ragione. Questo per dirvi quanto la questione dell’identità potrebbe e può apparire complessa visto che abbiamo detto che l’identità è fondamentale per stabilire il punto di partenza del linguaggio, è fondamentale per il linguaggio muovere da qualche cosa che sia identico a sé cioè costituisca una verità, la tautologia è la verità per eccellenza, solo la tautologia è vera, se non è una tautologia non è vera come la logica ha notato tant’è che ogni proposizione logica deve concludere con una tautologia per essere vera allora. Dicevo questo per indicare l’importanza che ha nel pensare contemporaneo ma non solo, avete visto da Platone, da Aristotele, la possibilità di stabilire se l’identità è identica a sé oppure no. Severino risolve il problema in un modo e cioè dice che è pur vero che per stabilire che A è A l’una è soggetto e l’altra è predicato quindi sono due, Tommaso dice sì, sono due per ragione ma una è la cosa, e allora sono due o una queste identità? Perché se sono due è un problema perché se uno è soggetto e l’altro è predicato allora non sono lo stesso e quindi all’interno dell’identità ci si rivela una differenza, come fare? Allora, dicevo, Severino risolve il problema dicendo che l’identità non consiste nella A ma nella relazione fra A e A, fra questi due termini, cioè fra soggetto e predicato, questa relazione è l’identità e come tale identica a sé in quanto identica a tutte le relazioni simili da quando sono esistite fino a quando esisteranno. Questo problema ci dice una cosa interessante, e cioè che tutto il pensiero occidentale, dico il pensiero occidentale perché è quello che più si è dato da fare su questi termini, ha cercato di individuare, di isolare qualche cosa che fosse identico a sé fuori dal linguaggio, nonostante sia Severino sia molti altri come lo stesso Heidegger, per esempio, è stato molto attento alla questione del linguaggio e giunge a considerare che non c’è nulla fuori dal linguaggio come adesso va a dirci,

 

Qui si vuole dire soltanto che il destino della verità appare all’interno del linguaggio, appare il suo essere espresso dalla parola, anche questa parola è una molteplicità di modi di essere segno del destino della verità, anche in questo caso il destino della verità è l’identità presente in quella molteplicità, l’identità a cui si riferisce un’insieme infinito di differenze segniche. Ma questa identità è l'innegabile. Solo es­sa - che innanzitutto è la struttura originaria del de­stino, cioè dello stare della verità - è l'innegabile. In quanto tale identità è l'innegabile, essa permane come innegabile nell'infinito differenziarsi del linguaggio che lo esprime, e la connessione e il rinvio del suo significato all'infinità dei significati varianti e storica­mente condizionati non può determinare la sua nega­bilità (anche se quella connessione e quel rinvio de­terminano quello specifico « contraddirsi » dell'inne­gabile, che è stato analizzato nel capitolo viti della Struttura originaria: la « contraddizione C »).

 

Anche l'identità in cui consiste il destino innega­bile della verità appare, proprio in quanto distinta dalle differenze segniche che la esprimono, all'interno di una differenza, ossia all'interno di una certa lingua storica (che a sua volta, nel suo ridire l'innegabile è una serie di differenze). Ma questo non ha nulla a che vedere con la tesi che l'«innegabile», il «destino», l'«autonegazione della negazione dell'innegabile», ecc.

(L'autonegazio­ne della negazione dell'innegabile è vista in concreto — quanto al suo senso e alla sua inevitabilità — negli scritti qui sopra richiamati). Se un qualsiasi linguag­gio dice altro, o l'«assolutamente altro» dall'innega­bile, tale linguaggio è negabile. Anche quello che qui si sta scrivendo appartiene al linguaggio che indica i tratti dell'innegabile. È scritto in una certa lingua; ma questo non significa che esso sia soltanto un gioco lin­guistico sostituibile e trasgredibile.

Ma questa identità è innegabile? Lui si accorge come tanti altri che l’identità è innegabile per un verso, deve esserci anche se non si riesce a dimostrarla in modo definitivo, eppure continua a dire che deve esserci perché se non c’è identità allora non c’è nemmeno la percezione, non c’è neanche la differenza e neppure il movimento perché se non c’è identità non si può stabilire differenza, se non c’è identità non c’è stasi e quindi non si può reperire il movimento se qualcosa non permane. Come si stabilisce il movimento se non rispetto a qualcosa che permane? Anche l’identità in cui consiste il destino innegabile della verità appare proprio in quanto distinta dalle differenze segniche che la esprimono all’interno di una differenza ossia all’interno di una certa lingua storica. L’innegabile è una serie di differenze l’innegabile sarebbe appunto l’identità ma questo non ha nulla a che vedere con la tesi che l’innegabile sia il destino dell’autonegazione della negazione dell’innegabile, l’innegabile è l’identità, negarla significa autonegarsi. Tutto questo dice costituisce

 

il «gioco» di un certo linguaggio, cir­condato e smentito da altri giochi linguistici. La lin­gua italiana è coordinata ad altre lingue capaci di esprimere l'innegabile. È all'interno di queste lingue che l'innegabile si manifesta come tale.

 

Come dire che c’è sempre un’identità comunque e qualunque sia la lingua se un qualsiasi linguaggio nega l’innegabile nega l’identità tale linguaggio nega la propria negazione dell’innegabile, ma se nega questo non può più negare niente, nega la stessa possibilità di negare alcunché che è esattamente ciò che dicevamo tempo fa rispetto al linguaggio, se si nega l’esistenza del linguaggio si nega anche la possibilità di negare l’esistenza del linguaggio è la stessa cosa.

L’autonegazione della negazione dell’innegabile è vista in concreto quanto al suo senso e alla sua inevitabilità… /…/ Se un qualsia­si linguaggio nega l'innegabile, tale linguaggio nega la propria negazione dell'innegabile.

 

Se un linguaggio nega l’esistenza di un’identità che è innegabile allora questo linguaggio è negabile, qualcosa di molto prossimo a ciò che diceva prima rispetto al nulla…

 

Anche quello che qui si sta scrivendo appartiene al linguaggio che indica i tratti dell'innegabile. È scritto in una certa lingua; ma questo non significa che esso sia soltanto un gioco lin­guistico sostituibile e trasgredibile.

 

Come dire che c’è alla base di qualunque gioco linguistico un gioco linguistico che non è trasgredibile né sostituibile e neppure negabile…

Intervento: serve a confezionare tutti gli altri…

Esatto, ma a questo non arriva Severino però l’avvertire più che scoprire qualcosa che non è negabile, la struttura, una struttura portante che esiste. Tutto quello che dice in Tautótēs e in altri scritti continua a girare intorno a questo: c’è qualche cosa che è identico, deve esserci per forza ma non è provabile, non lo possiamo dimostrare perché di fatto nel momento in cui cerchiamo di affermarlo ci troviamo di fronte a una dualità, lui usa l’escamotage della relazione se io dico che A è A abbiamo detto che uno è soggetto e l’altro è predicato e quindi sono diversi, come stabilire che sono la stessa cosa? Lui dice è la relazione tra i due che è l’identità…

Intervento: non è la stessa cosa di quello che diceva De Saussure quando diceva che il linguaggio procede per differenze? Come dire che se non esistesse una differenza e quindi una relazione non ci sarebbe linguaggio il linguaggio incomincia a esistere al momento in cui sono due, c’è un due quindi c’è relazione…

La questione rimane, e cioè se qualcosa non permane, se non c’è qualcosa di identico a sé non c’è neppure la relazione perché la relazione è fra due e ciascuno di questi due deve essere permanente, deve essere identico a sé se no la relazione scompare: se questa A non è individuata né individuabile allora non si può dire né che è uguale ad A né che differisce da A…

Intervento: cioè è la relazione e quindi la differenza che stabilisce l’identità un po’ sulla falsariga di quello che diceva De Saussure e se il linguaggio nasce con almeno due elementi, perché devono esserci due elementi per costituire una relazione ciò che si sta dicendo in un certo senso è che l’identità c’è perché un solo elemento è come dire che sarebbe fuori dal linguaggio, perché sia nel linguaggio occorre che ci siano due elementi che stabiliscono la differenza e di conseguenza una identità… immaginare che ci sia un solo elemento significa che il linguaggio non esiste e quindi quell’elemento è fuori dal linguaggio…

Infatti la prima A, se non ci fosse la seconda non sarebbe pensabile…

Intervento: però la relazione è anche lei costruita dal linguaggio, anche la relazione non è qualcosa di ontologico che esiste di per sé…

Intervento: dico che esistono due elementi per costruire il linguaggio, ci vogliono due elementi…

Intervento: questo lo stiamo dicendo però stiamo stabilendo una cosa del genere se no si ricade sempre nella metafisica, nel senso che la metafisica stabilisce delle regole senza poter tener conto che sono regole… perché la relazione così come la tautologia così come quando è il linguaggio che stabilisce che A è identico ad A…

Intervento: io posso anche non chiamarla relazione io dico quando esistono due elementi che sono in rapporto si costruisce qualcosa se ce n’è uno non c’è niente…

Intervento: sì ho capito, ho capito benissimo però la relazione stessa è qualcosa che è costruita dalle regole del linguaggio e quindi se no ritorniamo di nuovo a come diceva Peano stabiliamo che A è A ma una è a destra e l’altra è a sinistra…

La questione appare complessa ma potrebbe anche essere molto semplice da affrontare perché se come dice il nostro amico Severino da Brescia il primo A, il soggetto preso da solo non significa niente, perché non dice niente letteralmente se non predica qualcosa nemmeno di sé, non dice niente e quindi è inutilizzabile e se invece lo prendiamo insieme alla sua ripetizione cioè al suo predicato allora sono due e allora se è altro il secondo dal primo vuole dire che la A differisce da sé, perché sono entrambe A eppure sono diverse, come dire che A = A ma A differisce da A simultaneamente, questo andrebbe contro il principio di non contraddizione, antico principio aristotelico su cui si fonda tutta la possibilità stessa di pensare e allora sì certo, la relazione esiste fra i due elementi però questa relazione di fatto posta come l’identità è un artificio, perché dovrebbe porre la relazione come l’identità? Perché? E se la poniamo come un elemento allora ritorniamo nel discorso di prima, la relazione è la relazione, e siamo daccapo ad infinitum. Poniamo la relazione come l’identità, esattamente ora per affermare questa relazione o la poniamo come soggetto di qualche cosa e allora c’è un predicato, “la relazione è la relazione” “A è A” e allora di nuovo siamo daccapo, la prima è diversa perché la prima è soggetto e la seconda predicato…

Intervento: non ponendo invece la relazione come identità?

Allora a questo punto non ci sarebbe più il concetto di relazione perché lui introduce il concetto di relazione per stabilire finalmente l’identità come…

Intervento: la relazione è per l’identità…

È quello che sostiene Severino, però c’è il rischio di cadere nello stesso discorso di prima: la relazione a questo punto è la relazione cioè identica a sé e siamo daccapo il primo termine della relazione il soggetto e il secondo il predicato…

Intervento: l’inghippo è che pone la relazione come se fosse un’entità… è quello che dicevo prima perché esista linguaggio occorrono due elementi perché uno da solo non è un elemento linguistico non pone la relazione come un’entità? se io affermo perché esista il linguaggio ci vogliono almeno due elementi linguistici, questo si diceva necessario perché una parola non fa linguaggio, no ma il fatto che esistano due che poi entrino in relazione per costruire non pone la relazione come un’entità…

Sì il suo discorso potrebbe anche sostenersi però in questo caso la questione della relazione, torno a dire, qui l’inserisce proprio invece per trovare un fondamento all’identità perché se questa identità non ha un fondamento, se questa identità non si trova allora questo ha delle implicazione immediate su tutto ciò che ne segue vale a dire che qualunque cosa è anche il suo contrario e cioè qualunque affermazione è anche il suo contrario, se non c’è un’identità se non è fondabile un’identità, a questo punto qualunque cosa come diceva lui è niente, assolutamente niente, da qui la necessità di reperire qualcosa che sia identico. Ma se questa identità la si cerca in modo tale per cui dovrebbe mostrare di sé al di fuori della struttura che la produce la sua essenza allora questo non si troverà mai e in effetti come abbiamo detto infinite volte ciascuna volta in cui si cerca un elemento che è fuori dal linguaggio e da quella posizione lo si interroga iniziano i paradossi inevitabilmente, perché qualunque cosa non può a questo punto mostrare di sé di essere quello che è se non attraverso un terzo elemento che è il linguaggio, non lo può fare e quindi ciò che sfugge a Severino come anche a Heidegger, leggete comunque In cammino verso il linguaggio, è un buon testo e molte cose che diciamo oggi in parte vengono anche da li, dicevo l’inghippo sta nel fatto che si sostituisce una regola del linguaggio con un ente, un ente che a questo punto nonostante dica continuamente che non c’è nulla fuori dal linguaggio però continua a cercare qualcosa fuori dal linguaggio e una volta che è immaginato questo ente essere fuori dal linguaggio da lì non può più rispondere se non attraverso il linguaggio e quindi attraverso un terzo elemento, come dire che appunto l’identità deve essere specificata da qualcosa che non è identità. È qualcosa che ha incontrato anche la logica formale, quando per dimostrare il teorema di deduzione deve necessariamente ricorrere al teorema di induzione che è necessario per arrivare a dimostrare il teorema di deduzione però per dimostrare il teorema di induzione è necessario il teorema di deduzione. Una sorta di gioco di specchi, ma se invece poniamo l’identità come una regola per giocare, una delle procedure del linguaggio allora non ha bisogno di essere fondata né dimostrata perché il linguaggio la pone come una procedura per funzionare e se si vuole dimostrarla si compirà un percorso che potrebbe essere anche interessante, notevole, elaborato etc. ma che non giungerà mai a una soluzione perché non troverà mai un qualche cosa che non sia linguaggio che possa sostenere l’identità, che possa mostrarla, manifestarla, provarla, con che cosa può provarla se non attraverso il linguaggio? Quindi ecco che l’identità a questo punto non può essere dimostrata, l’esistenza del linguaggio non può essere dimostrata perché è al di qua di ogni possibile dimostrazione, è la condizione della dimostrazione, per questo non può essere dimostrata tant’è che apposta non parliamo di dimostrabilità del linguaggio ma di una costrizione logica, come dire che non può non essere in nessun modo, se il linguaggio fosse dimostrabile allora esisterebbe qualche cosa al di fuori del linguaggio che potrebbe dimostrarlo, che possa renderlo vero, verificarlo, ma non c’è e pertanto non può essere dimostrabile perché è lui la condizione della dimostrazione e può “dimostrarsi da sé” tra virgolette nel suo manifestarsi, nel suo muoversi, nel suo apparire, nel suo apparire tanto come noumeno quanto come fenomeno, cioè come ciò che appare sia come ciò che è immediatamente intuitivo, ed è immediatamente intuitivo nel senso che è sempre lì, è in atto mentre io penso, mentre faccio qualunque cosa, mentre penso al linguaggio etc. Ecco perché gira a vuoto Severino, gira in tondo e trova una escamotage che di per sé non lo porta da nessuna parte se non a ripetere all’infinito la stessa operazione, dice la relazione è l’identità, bene! Allora la relazione è la relazione o è altro? Se è altro non è più una relazione…

Intervento: o quanto meno non è più una identità, è una struttura per far funzionare il linguaggio…

Esattamente, è una procedura, è un’istruzione non è un’entità metafisica, come è un’istruzione che due assi battano due jack a poker, non è un’entità metafisica è una regola del gioco, l’identità è la stessa cosa, se la poniamo invece come un’entità metafisica allora sì deve rendere conto di sé e abbiamo visto che non lo può fare…

Intervento:…

Sì, deve essere differente da ciascun altra certo ma per potere differenziarsi, questo già Aristotele lo sapeva, occorre che qualcosa permanga perché ci sia la differenza se no non c’è differenza, se ciascuna parola del dizionario significasse tutte le altre simultaneamente come le distinguerebbe l’una dall’altra? Potremmo buttare via tutti i dizionari anche se a qual punto non ci verrebbe neanche in mente di farlo perché non avremmo neanche il pensiero per fare questa operazione. Dunque abbiamo risposto anche a questo quesito, e cioè se l’identità da cui muove ciascun atto linguistico è effettivamente identica a sé oppure no, oppure non è stabilibile questa identità, e allora sarebbe stato un problema effettivamente perché a questo punto il linguaggio muoverebbe da che cosa? Da qualcosa che è simultaneamente sé e altro da sé e quindi non potrebbe prendere nessuna direzione o tutte simultaneamente, cioè nessuna; questo avrebbe degli effetti e cioè la totale assenza di senso, l’impossibilità stessa del senso: ogni cosa sarebbe insensata ma non si potrebbe neanche giungere a questa conclusione perché per dire che tutto è insensato occorre pure che ci sia un senso che permane come tale e rispetto al quale, a fronte del quale qualunque altra cosa è insensata. A questo punto si ripone la questione alla quale giungemmo la volta scorsa e cioè il fatto che il linguaggio sì, necessita di una identità, ma questa identità naturalmente non la pone in termini né logici né metafisici ma come dicevamo la volta scorsa come certezza retorica, un epicherema per farla breve, un sillogismo la cui premessa è totalmente infondata, diverso dall’entimema dove invece la premessa maggiore manca. Dunque questa certezza retorica come epicherema. Ciascun discorso degli umani è fondato o su un entimema o su un epicherema per cui avviene quel bizzarro fenomeno che costruisce un sillogismo come questo: Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli sono dodici, Pietro e Paolo sono dodici: se A = B e B = C allora A = C,

 

A = Pietro e Paolo

B = apostoli

C = 12

Pietro e Paolo = 12

 

Non fa una grinza, e in effetti buona parte delle argomentazioni che si costruiscono gli umani fra sé e sé hanno questa forma, anche se non se ne accorgono, in questo caso è più facile accorgersene perché è evidente che Pietro e Paolo non sono dodici…

Intervento: gli umani parlano in questo modo perché universalizzano qualche cosa che invece è particolare, credono qualche cosa ma lo credono come una verità assoluta e quindi questo qualcosa diventa universale e da lì si arriva a conclusioni di quel genere…

Uno dei compiti dell’analisi è rendere particolare ciò che appare essere universale, un’affermazione universale è un’affermazione tautologica, una verità, come dicevano gli antichi una verità sub specie æternitate, come dire che sarà sempre così per tutta l’eternità, come dire che A = A non è vero soltanto oggi ma sarà vera anche domani e nei giorni a seguire, questo vuole dire una verità sub specie æternitate, che sarà sempre necessariamente vera e non potrà mai essere differente da sé, una affermazione universale ha questa prerogativa. Per gli umani ciò da cui muove il loro pensiero ha per lo più questa forma universale, è data per acquisita, sarà sempre così perché è necessario che sia così, non può essere altrimenti che così. Rendere tali universali dei particolari significa che è così rispetto a questo gioco che sto facendo e reinserire questo elemento all’interno del gioco che l’ha costruito e allora appunto da universale diventa particolare, cioè non è più così in modo universale ma è così perché il mio discorso l’ha costruito così, cosa della quale mi assumo la totale responsabilità, se invece è universale, una verità sub specie æternitate non sono responsabile del fatto che A = A necessariamente.

È curioso oltreché interessante notare che alcune persone anche molto attente, molto acute come Severino, o come può essere Heidegger o può essere Wittgenstein abbiano notato la necessità di qualche cosa, in questo caso dell’identità e la necessità di provarlo e lo scontrarsi poi con la maledizione dell’impossibilità di farlo, pur riconoscendo la priorità del linguaggio non si accorgono che ciò stesso che gli sta consentendo di compiere quell’operazione è linguaggio e quindi se parla di identità questa identità non è qualcosa che è fuori del linguaggio ma è qualcosa che è costruita dal linguaggio, cioè quello che sta facendo in quel momento non esiste fuori da lì, è questa la chiave di volta per intendere ogni cosa, se no non si intende, nulla ci si arresta inesorabilmente agli stessi paradossi che fermarono gli antichi. Tutto ciò ci conduce a riprendere la questione della retorica che conduce ciascuno a costruire quell’epicherema, cioè quel sillogismo imperfetto che induce poi a prendere per universale ciò che è assolutamente particolare, ed è la retorica che fa questo, la logica parte da una premessa che non è un epicherema, è semplicemente una istruzione e in questo è più vicina a ciò che andiamo dicendo: stabilisce che una certa cosa è questa, perché? Perché è così, dopodiché procede con le implicazioni tant’è che l’assioma di per sé è indimostrabile per definizione. La volta prossima riprendiamo la retorica, magari vediamo se riprendere qualcosa dalla Clavis Magna di Bruno oppure no. Potremmo considerare invece il nostro vecchio amico Peirce su come si formano le credenze, considerando anche la conclusione cui giunge, assolutamente opinabile, tuttavia mostra alcuni aspetti del costruirsi delle credenze che è di qualche interesse perché effettivamente si costruiscono così, cioè il modo in cui ciascuno costruisce le premesse su cui fonda la propria esistenza, andate a rileggervi Peirce.