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8 dicembre 2021

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Questa sera iniziamo a leggere Il sofista di Platone di M. Heidegger. All’inizio c’è un breve scritto in memoria di Paul Natorp, che è stato un filosofo tedesco, vissuto tra il XIX e XX secolo, fondatore della scuola neo-kantiana di Marburgo ed è stato uno dei più grandi studiosi di Platone. Heidegger ne aveva una grandissima stima, anche se aveva qualche obiezione rispetto al neo-kantismo, ma ciò non toglie che fosse un grande studioso di Platone. Nell’ultima riga di questo scritto c’è una cosa che Heidegger dice di Paul Natorp che potrebbe essere posta come esergo a ciò che stiamo facendo ultimamente. Dice, dunque, Heidegger parlando di Natorp: La sua vera comprensione della filosofia greca gli aveva insegnato che non c’è ancora oggi alcun motivo per vantarsi dei progressi della filosofia. Dice Heidegger, dunque: Questo corso del 25-26… Quindi, pochi anni prima la pubblicazione di Essere e tempo. …ha il compito di interpretare due dialoghi di Platone, Il sofista e Filebo… Qui parla solo del Sofista. L’interpretazione di questi due dialoghi deve renderci familiare proprio il significato di tali concetti, che sono questi: essere e non-essere, verità e parvenza, conoscenza e opinione, asserzione e concetto, valore e disvalore. Concetti fondamentali che si comprendono in un certo senso per sentito dire, il che induce a supporre che siano ovvii di per sé, senza bisogno di aggiungere altro. E, invece, lui aggiunge altro, naturalmente. L’espressione “fenomenologia” è la più adeguata per chiarire ciò di cui qui si tratta. Fenomenologia significa φαινόμενον, ciò che si mostra, e λγειν, rivolgersi a, chiamare in causa. Qui bisognerà fare attenzione a tutte le definizioni che Heidegger fornirà mano a mano, perché lui traduce e usa i termini in un certo modo e, quindi, vanno colti all’interno del testo nel modo che lui indica. Così definita la fenomenologia potrebbe però essere identificata con qualsiasi altra scienza, anche la botanica descrive ciò che si mostra. L’approccio fenomenologico si contraddistingue per la prospettiva specifica in cui colloca e osserva ciò che si mostra. La prospettiva primaria consiste nella questione dell’essere di quest’ente. Denominiamo, quindi, ciò che si mostra con il termine “fenomeno”. Quest’ultimo non va confuso con espressioni come parvenza e apparenza; la parola fenomeno designa l’ente così come esso si mostra, nelle sue possibilità di essere dischiuso. Lo scoglio più difficile da superare consiste, però, nel fatto che tutti questi ambiti presuppongono già una ricca storia di elaborazioni, sicché noi non ci accostiamo liberamente a tali oggetti, ma li avvistiamo già sempre a partire da determinati quesiti o da specifiche prospettive. Inesorabilmente, ciascuno non può approcciarsi a qualche cosa se non attraverso ciò che già sa. Questa è l’unica via per decidere il dilemma tra scienza e vita: imparare anzitutto a riattivare in noi stessi il metodo peculiare del lavoro scientifico e con ciò il senso più profondo dell’esistenza scientifica. Per Heidegger, in effetti, si tratta sempre di porsi nel modo in cui il greco antico pensava e, quindi, non soltanto ciò che il greco antico pensava ma “come” lo pensava. Emblematica è la nozione di λήθεια, rispetto a cui Heidegger si domandava come il greco antico pensa l’λήθεια, cioè che cosa accadeva in lui quando sentiva questa parola. Il passato verso il quale questo corso tenta di trovare accesso non è affatto qualcosa di separato e lontano da noi. Al contrario, noi stessi siamo questo passato e non lo siamo nella misura in cui coltiviamo espressamente la tradizione o amiamo l’antichità classica, ma perché la nostra filosofia e la nostra scienza vivono su tali fondamenta, quelle della filosofia greca, tanto più che ne abbiamo perso la consapevolezza, sono diventate ovvie. Ma proprio in ciò che non vediamo più, in ciò che è diventato quotidiano, è all’opera qualcosa che fu un tempo oggetto delle più grandi fatiche spirituali mai intraprese nella storia occidentale. L’interpretazione dei dialoghi platonici ha lo scopo di rendere perspicuo ciò che in tali fondamenti per noi è ovvio. Questo è tipico di Heidegger: invitare a ripensare e a pensare ciò che appare ovvio, scontato, ciò che non interroga più nessuno. Invece, lui insiste nel dire che è proprio questo che va pensato ancora. La modalità di accesso, conoscenza e verità, λήθεια. La modalità di accesso o di approccio che dischiude l’ente come questo o quell’ente… Perché è dell’ente che si tratta, è una domanda intorno all’ente. Lui lo approccerà attraverso i modi in cui ci si avvicina all’ente, come la tecnica, per esempio. Apparirà mano a mano che procediamo come di fatto la questione sia quella che abbiamo già letto nel Parmenide e poi nel Sofista, cioè quella della conoscenza, con gli eleati che giungono a considerare l’impossibilità della conoscenza. Ma, a fronte della impossibilità della conoscenza, come so che la conoscenza è impossibile? Si tratta di un sapere, quindi, deve esserci conoscenza, vale a dire, per potere dire che la conoscenza è impossibile ci deve essere conoscenza. Questa è la questione del linguaggio. Per potere parlare dell’infinito deve esserci il finito, perché ci sia il finito deve esserci l’infinito. Questa questione la filosofia se l’è portata appresso fino alla logica matematica, immutata: il problema dell’uno e dei molti di Parmenide e fino a Eliot Mendelson, che diceva che per dimostrare che la deduzione è vera occorre l’induzione e che per dimostrare che l’induzione è vera è necessaria la deduzione. Questa è la questione stessa del linguaggio, che è rimasta tale e quale nei secoli fino ad oggi. Per prima cosa l’ente è considerato in maniera del tutto indeterminata, e invero come l’ente del mondo con il quale è l’esistere e come quell’ente che esiste a se stesso. Lo stesso esistere è un ente, l’ente è tutto ciò che è. Questo ente è innanzitutto aperto, solo entro un certo raggio. L’uomo vive nell’ambiente che lo circonda, il quale è dischiuso solo entro certi limiti; da questo naturale orientamento con il suo mondo, egli matura qualcosa come la scienza, un’elaborazione entro determinate prospettive del mondo esistente e del proprio esistere. Ma ciò che inizialmente c’è non è ancora conosciuto nel senso della scienza; piuttosto la coscienza su di esso è un punto di vista (δόξ), che recepisce il mondo così come esso innanzitutto sembra e si mostra (doxei, le opinioni). In tal modo si formula inizialmente nell’esistere naturale determinati punti di vista, opinioni sulla vita e sul suo senso, e il sofista e il retore si muovono al suo interno. Non appena, però, da questo esistere naturale procede la ricerca scientifica, esso deve farsi strada proprio attraverso queste opinioni e queste determinazioni provvisorie, cercando la via di accesso sulle cose, in modo che queste risultino determinate. Da qui dovrà poi ricavare i concetti, tutto ciò non è già ovvio per l’esistere quotidiano ed è difficile che incontri l’ente nel suo essere. Eppure, così è stato proprio per un popolo come i Greci, la cui vita di ogni giorno dipendeva dal linguaggio. Abbiamo vito che per il momento la questione centrale è quella dell’ente, che cos’è un ente; perché nel Sofista si tratta della conoscenza e la conoscenza è rivolta a un ente, a un qualche cosa. La modalità di accesso o di approccio che dischiude l’ente, come questo o quell’ente, che prende possesso di ciò che in tal modo è stato aperto, è solitamente chiamata conoscenza. Quindi, la conoscenza è questa modalità di accesso che prende in qualche modo possesso della cosa. Qui c’è già Nietzsche, naturalmente: la conoscenza come prendere possesso, come dominio. Il conoscere che dischiude l’ente è vero. Una conoscenza che abbia afferrato l’ente si esprime e si compendia in una proposizione o in un enunciato, il quale riceve oi l’ulteriore specificazione di essere una verità. Il concetto di verità, ovvero il fenomeno della verità, come lo hanno determinato i Greci, ci offre chiarimenti su che cosa sia per i Greci il conoscere e che cosa esso sia nel suo rapportarsi all’ente. Presumibilmente essi isolarono il concetto di verità come proprietà del conoscere, riferendolo a quel conoscere che era vivo nel loro esistere. Non intendiamo passare in rassegna l’intera storia della logica greca, cerchiamo il nostro orientamento là dove la definizione di verità ha raggiunto il suo culmine nella logica greca, cioè in Aristotele. Infatti, lui intende parlare di Platone, ma non come qualcosa che poi arriva ad Aristotele, ma al contrario, cioè parte da Aristotele per tornare a Platone. La tradizione della logica, viva ancor oggi, rivela che proprio la nozione di verità viene determinata con esplicito riferimento ad Aristotele; egli fu il primo a sottolineare che vero è un giudizio e che le determinazioni sono rinvenibili primariamente nei giudizi: verità è verità del giudizio. Vedremo in seguito in quale misura sia in un certo qual modo corretta ma superficiale la definizione secondo cui il fenomeno della verità è discusso e fondato sulla verità del giudizio. Dire che la verità è un giudizio significa già dire che è nella parola. Il giudizio divide, discrimina, quindi, devi sapere dell’uno e dell’altro e, pertanto, presuppone già un sapere. Qui ci troviamo di fronte a un problema che bisognerà vedere se poi Heidegger svolge oppure no: il fatto che per sapere occorre già il sapere. È esattamente ciò che dicevamo prima rispetto al linguaggio: per potere sapere che sono nel linguaggio deve esserci il linguaggio, sennò non saprò mai niente. Per i Greci la verità, che per noi è alcunché di positivo, si esprime negativamente λήθεια, e la falsità che per noi è negativo assume forma positiva. λήθεια vuol dire non essere più velato, essere scoperto. Questa espressione privativa sta a indicare che i Greci avevano compreso che prima di ogni altra cosa è necessario conquistare il disoccultamento del mondo, cioè qualcosa di cui innanzitutto e per lo più non disponiamo. Qui ci sono chiaramente reminiscenze nei confronti di Eraclito: la natura ama nascondersi, cioè ciò che ci appare ci appare nascosto, velato, difficilmente conoscibile; ci vuole uno sforzo per poterlo conoscere, per potere disvelarlo. Il velare il disvelare è già implicito nel linguaggio: dire che bisogna conquistare il disoccultamento potrebbe anche intendersi come la necessità di accorgersi del modo in cui il linguaggio funziona, del modo in cui agisce, e cioè che per potere determinare un elemento devo dire ciò che quell’elemento non è. Quindi, è un disvelarlo, perché dico che cos’è finalmente, ma dicendo che cos’è lo rivelo, lo velo di nuovo perché dico altro rispetto a quella cosa, e così via all’infinito. Il mondo è inizialmente chiuso, sebbene non completamente. Il conoscere che dischiude il mondo non vi è ancora innanzitutto penetrato, esso è dischiuso solo nel raggio più prossimo dell’ambiente circostante, nella misura in cui lo richiedono i bisogni naturali /…/ In tal modo l’esistere quotidiano si muove in un duplice occultamento prima di tutto nella semplice ignoranza, ma poi in un occultamento ben più pericoloso, in quanto ciò che è manifesto diventa, a causa della chiacchiera, non verità. Sì, è vero, diventa non verità a causa della chiacchiera, ma la chiacchiera è anche causa, origine, condizione di ciò che lui invita a fare, e lui lo sa benissimo, visto che lui stesso lo ha detto più volte. La svelatezza è una determinazione dell’ente, in quanto esso si fa incontro. L’appartenenza dell’λήθεια all’essere non è tale che esso non potrebbe essere senza la svelatezza… Se non si svela non c’è niente. La natura è infatti presente anche prima di essere svelata… Su questo ci sarebbe da discutere. L’λήθεια è un peculiare carattere ontologico dell’ente, in quanto l’ente è in relazione con un certo rivolgergli lo sguardo con un aprirsi, guardandosi intorno all’ente e nell’ente con un conoscere. Qui, senza sottolineare la cosa, Heidegger pone una questione fondamentale: l’ente è tale perché è in relazione con altro; se non c’è questa relazione con altro non c’è neanche l’ente. ληθές è proprio anche dell’ν, dell’ente, ed è un carattere dell’essere stesso. Ciò è dovuto al fatto che essere è uguale a presenza e quest’ultima viene acquisita nel λόγος, è in esso. La presenza viene acquisita nel linguaggio, naturalmente. Ma questo aprire, cui l’λήθεια si rapporta, è esso stesso un essere, non di quell’ente che viene inizialmente aperto, il mondo, bensì è un modo di essere di quell’ente che chiamiamo “esistere umano”. Qui c’è più Heidegger della filosofia greca: l’uomo come esserci, che è continuamente gettato nel mondo e ricava questa gettatezza dal suo essere, in definitiva. Poiché per i Greci l’aprire e conoscere hanno di mira l’λήθεια, ciò che ne deriva prende il nome da essa stessa: ληθεειν. Questo termine vogliamo lasciarlo non tradotto. ληθεειν significa: essere scoprenti, trarre fuori il mondo dalla chiusura e dall’occultamento, e questo è un modo di essere dell’esistere umano. Quindi, questo ληθεειν è qualcosa di molto prossimo a ciò che Heidegger chiama esserci, Dasein, cioè l’essere scoprenti, trarre fuori il mondo dalla chiusura e dall’occultamento. Tale modalità si manifesta anzitutto nel parlare, nel colloquiare insieme, nel λγειν. L’ληθεειν si manifesta dunque innanzitutto nel λγειν. Il λγειν, il parlare, è lo statuto fondamentale dell’esistere umano. Solo l’uomo, il parlante, può trarre le cose fuori dall’occultamento; un animale no, non può neanche pensare di farlo. Nel parlare esso esprime sé nel modo del parlare di qualcosa, del mondo. Λγειν per i Greci era talmente pervasivo che, proprio riferendosi a tale fenomeno e muovendo da esso, giunsero alla definizione di uomo, denominandolo ζον λγον χον (animale che parla). Letteralmente, animale secondo il linguaggio, secondo la parola. A tale definizione si accompagna quella dell’uomo come l’ente che calcola, ριθμειν. Qui calcolare non significa enumerare ma contare su qualcosa, tenere in conto; a partire da questo senso originario del calcolare si è poi formato il numero. /…/ Aristotele qualifica il λόγος, che in seguito è stato chiamato enuntiatio, giudizio, secondo la sua funzione fondamentale come πφανσις, ποφανεσθαι, δηλοüν. /…/ Le sue modalità di attuazione sono la κατάφασις e la πφανσις, l’affermazione e la negazione, che successivamente sono stati chiamati giudizio positivo e giudizio negativo. Anche l’πφανσις, il negare una determinazione, è uno scoprire che lascia vedere. Anche negando, se nego qualcosa, quel qualche cosa c’è, è scoperto. Non posso infatti negare qualcosa senza indicare nel contempo quella stessa cosa. In ciascuna delle tal modalità del dire esso è un φανάι, un modo di essere della vita. Il parlare, in quanto atto comunicativo, non è un semplice rumore (ψόφος), bensì un ψοφός σημαντικός, un rumore che significa... Anche noi parlando emettiamo un rumore, ma è un qualcosa che ha un significato, cioè rinvia a qualcosa. …un rumore che indica qualcosa, esso è φωνή e ρμηνεία (significato). Heidegger la prende alla larga, perché parte dall’interpretazione di Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VI, Capp. 6-8. Qui introduce un altro termine, che sarà importante. Sono tutte cose da ricordare perché sono concetti sui quali è costruito tutto. Qui parla della φρόνησις. Φρόνησις è la conoscenza ma, come accade con il greco, le parole possono avere un’infinità di significati. Come la intende Heidegger? La φρόνησις è la circospezione, discernimento. Circospezione è letteralmente il guardarsi attorno per vedere che cosa succede, cosa c’è. Una persona circospetta è una persona che si guarda intorno con attenzione. Heidegger traduce φρόνησις, che comunemente è tradotta con conoscenza, con circospezione, cioè con un guardare con attenzione. Σοφία è l’autentico comprendere. Σοφία è il sapere, però, per lui è l’autentico comprendere. Il νος è quel ritenere che percepisce ciò che ritiene. Il νος è generalmente tradotto con intelletto. È qualcosa di simile a ciò che Hegel chiamava autocoscienza. Il νοεν affiora sin da subito nell’inizio decisivo della filosofia greca, là dove si decide il destino della filosofia greca e occidentale, cioè il Parmenide. La stessa cosa sono il ritenere e il ritenuto. In questa cosa c’è già tutto il pensiero, c’è già tutto il linguaggio, c’è persino dentro anche Gentile: il ritenere è la stessa cosa che il ritenuto. Ricordate Gentile: quando penso qualche cosa, ciò che sto pensando non è altro che il mio pensiero, cioè ciò che ritengo, il mio pensiero, e il ritenuto sono lo stesso. Prima di elencare i modi dell’ληθεειν… Aristotele dice: ληθεειν è ψυχή. Cioè: ληθεειν, il discoprente il mondo, è ψυχή, cioè sta nell’uomo. Ψυχή per Heidegger è l’esserci, il Dasein. La verità è sì un carattere dell’ente nella misura in cui quest’ultimo si fa incontro, ma in senso proprio essa è piuttosto una determinazione d’essere dello stesso esistere umano. Come dire che l’ente, che generalmente si considera al di fuori, fa parte della determinazione dell’esistere umano, cioè l’uomo esiste in quanto è in mezzo agli enti: ciascuno è nient’altro che il mondo di cui è fatto, il mondo che lo circonda; ciascuno è fatto di questo libro, di questo aggeggio, ciascuno è fatto di tutte queste cose in un certo momento, in una certa situazione. Essere vero e essere nella verità, intesi come determinazione dell’esistere, significano avere a disposizione in quanto scoperto l’ente con il quale l’esistere di volta in volta ha a che fare. Questo è importante. Quindi, che cos’è vero? È una determinazione dell’esistere, cioè un modo dell’esistere, che lui definisce così: avere a disposizione in quanto scoperto, in quanto visto, in quanto colto, l’ente con il quale l’esistere di volta in volta ha a che fare, cioè, tutte le cose che mi circondano. Che è un altro modo per dire ciò che dicevamo prima: ciascuno è tutti quegli enti di cui è fatto; lui è uno degli enti, di tutti questi enti in cui è compreso. Se ci atteniamo al senso di verità, come essere disoccultato, essere scoperto, appare chiaro che verità significa aderenza alle cose, intesa come quell’atteggiamento dell’esistere verso il mondo e se stesso, secondo il quale l’ente c’è alla maniera della cosa. Questa è l’oggettività rettamente intesa. /…/ Nel senso originario di questa nozione di verità, l’oggettività non equivale ancora a criterio vincolante assoluto di validità. Quest’ultima non ha nulla a che fare con la verità; qualcosa può essere universalmente valido e vincolante, tuttavia non vero. La maggior parte dei pregiudizi e delle ovvietà valgono appunto universalmente e si contraddistinguono per il fatto di occultare l’ente. Per contro, può essere vero ciò che è vincolante solo per un singolo e non per tutti; allo stesso tempo questo concetto di verità, verità come essere scoperto, non implica ancora che l’autentico scoprire debba per forza essere il conoscere teoretico o una determinata possibilità di conoscere teoretico  la scienza o persino la matematica, come se la matematica, essendo la scienza più rigorosa, fosse anche la più vera, e fosse vera in ultima analisi soltanto ciò che eguaglia l’ideale di evidenza matematica. La verità, la svelatezza, l’essere scoperto trae piuttosto il suo orientamento dall’ente stesso e non da un determinato concetto di scientificità. Qui c’è un concetto importante: la verità trae il suo orientamento dall’ente stesso. Sì, certo, però non è da intendere che la verità è l’ente così com’è veramente, perché io sono l’ente, io sono uno degli enti; non solo, ma l’unico ente che può pensare gli enti, che può scoprire gli enti, letteralmente. Dice: l’essere scoperto trae piuttosto il suo orientamento dall’ente stesso, da quell’ente che lui stesso è. Questo bisogna sempre tenerlo presente. Parliamo di enti, sì, certo, ma ciascuno non è solo quell’ente ma è quell’ente che può parlare degli enti, cosa non irrilevante. Λόγος qua λεγμενον (il discorso in quanto detto) è il modo in cui innanzitutto c’è verità, cioè nel detto… Nell’affermazione, nell’enunciato. Nel senso più immediato del conversare ci si attiene a ciò che viene detto. Nell’ascoltare quanto viene detto non accade ogni volta necessariamente una conoscenza in senso proprio, cosicché quando comprendo una proposizione non devo necessariamente ripeterla in ogni suo passaggio; posso dire che qualche giorno fa è piovuto senza richiamare alla mente la pioggia; posso pronunciare e comprendere proposizioni senza avere una relazione originaria con l’ente di cui parlo. In questa peculiare indistinzione tutte le proposizioni vengono replicate e con ciò comprese. Le proposizioni pervengono a un loro proprio esistere, ci si regola su di esse ed esse divengono regole di conformità, le cosiddette verità, senza chiamare in causa la funzione originaria dell’ληθεειν. Le proposizioni vengono condivise con gli altri, replicate in buona fede, e in tal modo il λγειν (il discorso) acquista una particolare autonomia rispetto ai πράγματα. I πράγματα sono le cose, da cui pragmatico, colui che si attiene alle cose. Conclusione: non si esce dalla chiacchiera. Non si esce dalla chiacchiera perché tutte queste proposizioni condizionano continuamente, non solo gli altri la lo stesso parlante, che dice una certa cosa, dicendola crede a questa cosa e, quindi, è condizionato lui stesso da quello che sta affermando. La maniera in cui si parla delle cose ha un peculiare carattere vincolante al quale ci si attiene nella misura in cui ci si vuole orientare nel mondo e ci si può appropriare da sé di tutto in modo originario. Qui ha sottolineato qual è la questione fondamentale, e cioè la necessità di appropriarsi delle cose. Per questo si crede qualunque cosa, perché il credere qualunque cosa significa appropriarsi di quella cosa, pensare di appropriarsi di quella cosa, cioè, mettere in atto, soddisfare la volontà di potenza. Questo λόγος che in una visione posteriore, ormai dimenticata, della posizione originaria fu considerato come ciò che è vero o falso. Di questa proposizione autonoma si sapeva che può essere vera o falsa e nella misura in cui tale proposizione autonoma viene presa per vera, senza sapere se essa lo sia effettivamente, sorge la domanda: in che cosa consiste la verità di questa proposizione? Come può una proposizione, un giudizio, che è una determinazione psichica, concordare con le cose? E, inoltre, se si prende la ψυχή come soggetto e il λόγος, il λγειν, come esperienze vissute, si ha questo problema: come possono le esperienze vissute, soggettive, concordare con l’oggetto? La verità consiste allora nella concordanza del giudizio con l’oggetto. Ebbene, un certo indirizzo sostiene che tale concetto di verità, secondo cui la verità è determinata dalla concordanza dello psichico, del soggettivo con l’oggettivo, è un controsenso. Infatti, per poter dire che la cosa concorda con il giudizio devo averla già conosciuta. Devo avere già conosciuto l’oggettivo per potere commisurare con esso il soggettivo. La verità dell’avere conosciuto è, quindi, presupposta dalla verità del conoscere, e dal momento che questo è un controsenso tale teoria della verità è insostenibile. È l’esempio che vi facevo prima dell’impossibilità di conoscere: come so che è impossibile conoscere? Come posso affermare che è impossibile conoscere, se non conoscendo almeno questa cosa, che è impossibile conoscere, ma questo lo devo conoscere per poterla affermare. Questa storia del concetto di verità non è casuale ma si fonda nell’esistere stesso, in quanto esso si muove nel modo quotidiano più immediato del conoscere. Questo è il concetto di verità comune, ρθτης. Il λόγος, decadendo presso il mondo, decade nel λεγμενον (nel detto). Il linguaggio, il λόγος, il dire decade nel detto, come se il detto racchiudesse in sé una verità, una verità, sì, condivisa ma che non ha nessuna sussistenza. Poiché il λόγος diventa mero λεγμενον, non si comprende più che il problema è celato proprio al suo interno, nel suo modo di essere. Eppure, già da Aristotele a Platone si sarebbe potuto capire che questo λόγος proposizionale è un λόγος alienato. Il λόγος proposizionale, cioè il λόγος che afferma qualcosa, è un λόγος alienato: per dire che cos’è questo devo dire ciò che questa cosa non è. Questa è l’alienazione: letteralmente, far diventare questo aggeggio qui altro da ciò che è, perché non posso dire che cos’è se non dicendo altro rispetto a ciò che è. Le cose che dico per descrivere questo aggeggio non sono questo aggeggio, ma senza questa descrizione dell’aggeggio non c’è neanche questo aggeggio. Era il problema di Dio di Porfirio: Dio è irrelato. Se è irrelato non lo posso conoscere, ma non solo non posso conoscerlo, non è nulla se è veramente irrelato. Se, invece, è relato, allora dipende da qualche cos’altro e non è più Dio, Dio non può essere dipendente da qualche altra cosa che lo fa essere tale; quindi, deve essere irrelato, ma se è irrelato non può essere conosciuto in nessun modo, da nessuno e per nessun motivo. Teniamo ben fermo quanto segue: ληθές è il pragma, vero è la cosa. ληθεειν è una determinazione d’essere della vita; esso viene attribuito in special modo al λόγος. Aristotele distingue primariamente i già citati cinque modi dell’ληθεειν, diversificandone il riferimento al λγειν. Sono infatti μετά λόγου (secondo il dire, il linguaggio). Il μετά non significa che il dire rappresenti una specie di aggiunta al non necessario rispetto alle modalità dell’ληθεειν; piuttosto, questo metà, che deriva da τ μέσος, ciò che sta nel mezzo, vuol dire che il λγειν sta in quella stessa modalità, proprio in mezzo a loro. Il conoscere e l’osservare sono sempre un parlare a prescindere dall’effettivo ricorso alla parola. Il conoscere e l’osservare sono sempre un parlare, sennò non ci sono, non c’è niente. Quando vedo qualche cosa sto parlando, quando ascolto qualcosa sto parlando, quando tocco qualcosa sto parlando: è questo che sta dicendo. Ogni atteggiamento si dischiude, e non solo il quotidiano orientarsi ma anche il conoscere scientifico, si attua nel parlare. Il λγειν assume primariamente la funzione dell’ληθεειν. La funzione del dire è quella di tirar fuori l’ente, di farcelo apparire. Per i Greci questo λγειν è la determinazione fondamentale dell’uomo ζον λγον χον (animale in quanto parlante) ed è così che Aristotele ricava anche in relazione a questa determinazione dell’uomo sul terreno del λγον χον e in riferimento a esso? Una prima articolazione dei cinque modi dell’ληθεειν. /…/ I due tipi fondamentali del λόγος χον. Qui Heidegger ci pone di fronte a una serie di questioni, che poi verranno articolate, sulle quali lavorare, quelle questioni che determinano l’ente così com’è. πιστημονικόν e λογιστικόν. 1) πιστημονικόν: ciò che può contribuire a sviluppare il sapere, quel λόγος che è di ausilio allo sviluppo del sapere. Quindi, è ciò che contribuisce a sviluppare il sapere. πιστημονικόν da πιστήμη. 2) Il λογιστικόν: ciò che può contribuire a sviluppare il βουλύεσθαι, il considerare con circospezione, il deliberare, quel λόγος che è di ausilio allo sviluppo della deliberazione. Questi sono i due principali elementi del λγον χον (dell’essere secondo il linguaggio): l’πιστημονικόν che dà ausilio allo sviluppo del sapere - questi sono termini che lui prende da Aristotele, dall’Etica Nicomachea – il λογιστικόν, invece, è il considerare con circospezione, è ciò che aiuta a deliberare, a decidere, a scegliere. La distinzione tra πιστημονικόν e λογιστικόν è ricavata in riferimento a ciò che viene dischiuso nell’interpellare e nel discutere, cioè a partire da quello stesso ente che nell’ληθεειν perviene alla propria azione. Abbiamo visto che ληθεειν è l’appropriarsi di qualcosa che si dischiude; è il far dischiudere qualche cosa per potersene appropriare. È un’operazione della volontà di potenza. πιστημονικόν è, cioè, ciò con cui rivolgiamo lo sguardo all’ente rispetto alle archai (i principi) non potrebbero comportarsi altrimenti; è, invero, quell’ente che possiede il carattere dell’ἀΐδιον, dell’essere sempre. Questo è interessante, perché, in effetti, come rivolgiamo lo sguardo all’ente? Dice Heidegger che possiede il carattere dell’ἀΐδιον, cioè del per sempre, dell’universale: noi possiamo conoscere solo in modo universale, non in modo particolare, come se fosse sempre lì, uguale, sempre identico a sé. Il λογιστικόν è ciò che può essere anche altrimenti… Il λογιστικόν è ciò che contribuisce alla decisione. Quando decido, se decido, è perché c’è un’alternativa. Questa decisione comporta che una cosa può essere in un modo ma anche altrimenti, e questo è il λογιστικόν. Tale è l’ente, dunque, diviso in questo modo: come ἀΐδιον, come ciò che è sempre, quindi, come necessario e contingente. L’πιστημονικόν è ciò che apre all’universale, il λογιστικόν è ciò che allude al particolare, cioè a qualche cosa che deve essere scelto, all’alternativa: questo o quello. Tale è l’ente con cui hanno a che fare la τέχνη e la φρόνησις. Τέχνη, da cui tecnica. Cosa provoca in noi oggi la parola “tecnica”? Cosa invece provocava al greco la parola τέχνη? Sicuramente, cose radicalmente e totalmente differenti. Ciò che il greco sentiva in questa parola τέχνη non ha niente a che fare con ciò che oggi noi produciamo ascoltando la parola “tecnica”. Questa parola τέχνη ha a che fare con cose che prima devono essere fatte e che non sono ancora ciò che saranno. La tecnica ha a che fare con ciò che deve essere fatto, una tecnica per. La φρόνησις rende accessibile la situazione. La φρόνησις come conoscenza, anche se lui parlava prima di circospezione, discernimento. La φρόνησις, il discernimento, è ciò che rende possibile la situazione. …le circostanze sono sempre diverse in ogni azione. Invece, πιστήμη e σοφία vertono su ciò che c’è già sempre, senza dover essere prodotto ex novo. πιστήμη, cioè la conoscenza certa, e σοφία, il sapere, hanno a che fare con qualcosa di certo, con degli universali; mentre la φρόνησις e la τέχνη hanno a che fare con dei particolari. Non è proprio esattamente così, ma è giusto per fare intendere meglio. Questa prima e assai rudimentale distinzione ontologica non matura solo all’interno di una riflessione filosofica, essa è anzi propria dello stesso esistere naturale. Non è costruita, bensì si colloca nell’orizzonte in cui si muove l’ληθεειν dell’esistere naturale. Sta dicendo che queste parole, che Heidegger vivifica dal greco antico, sono le parole con le quali i Greci pensavano la loro esistenza, pensavano il loro essere in mezzo alle cose: la τέχνη come qualcosa che deve ancora essere fatto, così come la φρόνησις è il discernere, che consente di fare nel modo giusto; mentre σοφία e πιστήμη hanno a che fare con cose già fatte, che sono sempre quelle. Nel suo modo di essere naturale si occupa di quelle cose sono oggetti del produrre quotidiano. Questo ambiente circostante non è rinchiuso in sé come una capsula, piuttosto esso è sempre uno stralcio del mondo stesso; casa e cortile hanno il loro essere sotto il cielo, sotto il sole, che seguendo il suo cammino quotidiano il giorno scompare e ricompare con ritmo costante. Il mondo della natura, che è sempre così com’è, è per così dire lo sfondo contro cui si staglia ciò che può essere altrimenti. Questo, secondo Heidegger, era il pensiero greco, cioè l’essere altrimenti ha bisogno di qualcosa che non è altrimenti, che è sempre lo stesso. Che cosa? La natura, la physis, ciò che si produce da sé e che è quella che è. Tale distinzione è affatto originaria; perciò è sbagliato dire che ci sono due ambiti dell’essere, quasi fossero due campi, che la considerazione teoretica colloca l’uno accanto all’altro. Tale distinzione, invece, il mondo stesso è la sua prima articolazione ontologica in assoluto. È il primo modo di pensare degli umani: c’è qualche cosa che è sempre lo stesso rispetto alla quale cosa è possibile pensare una variazione. Qui Aristotele (Etica Nicomachea) riprende la concezione corrente delle modalità dell’ληθεειν. Egli, quindi, non inventa una teoria della scienza e della dimestichezza con le cose, ma cerca soltanto di afferrare, possibilmente in modo più preciso, le opinioni di genti in merito. L’approccio adottato da Aristotele nell’analisi dei cinque modi dell’ληθεειν è quello già presente nella sua distinzione di fondo: orientarsi di volta in volta in base all’ente che viene dischiuso. Io colgo l’ente, lo traggo fuori, ma come? Parlando, naturalmente e, una volta tratto fuori questo ente, mi oriento in relazione a questo, cioè mi oriento in relazione a ciò che io stesso ho prodotto, mi oriento in relazione a ciò che il mio dire costruisce. Noi diciamo: ciò che sappiamo non può essere altrimenti… Se uno sa, sa, e ciò che sa non può essere altrimenti, se lo sa, sennò è il dubbio. Come dire che ciò che si sa è un universale, cioè, deve essere sempre così. Dunque, il punto di partenza di Aristotele è questo: come debba essere inteso l’ente nel senso precipuo del sapere. Quanto al sapere è ð πιστάμεθα, ciò che noi sappiamo, di questo diciamo “è così, mi sono informato, lo so già: l’πιστήμη di rivolge quindi a quell’ente che è sempre… La scienza ha bisogno di pensare che l’ente sia sempre quello che è, che sia sempre stato quello lì e che lo sarà anche domani e dopodomani, ecc., non che domani sarà un’altra cosa. …ciò che è sempre può essere saputo… È questa la questione: il sapere pre-suppone l’universale. Se so qualche cosa è perché lo so come qualche cosa che è sempre, cioè, lo so in quanto universale. Ciò che può essere altrimenti a rigore non è saputo. Infatti, se ciò può anche essere altrimenti viene a stare fuori del sapere, e se accade che io non sia presso di esso in questo preciso momento, esso può nel frattempo mutare. È come se dovessi stare lì a guardare l’ente per evitare che cambi, senza rendermi che anche se sto qui a guardarlo, mentre lo guardo cambia. …mentre io tengo fermo il mio punto di vista… Lui può cambiare ma io tengo fermo il mio punto di vista, sempre in riferimento a ciò che so, e quindi è un universale. Se ciò che può essere altrimenti è mutato, il mio punto di vista è diventato falso… Io continuo ad avere il mio punto di vista, ma non è più valido. Ciò che contraddistingue invece il sapere è che io continuo ad avere scienza dell’ente, anche quando non lo sto osservando... Θεωρεν è osservare, da cui teoria. …in questo preciso momento, visto che l’oggetto del sapere è un ente che è sempre. Se è oggetto del sapere vuol dire che è sempre. Avete inteso subito che è proprio ciò su cui invece l’eleate, il forestiero, poneva delle serie obiezioni sul fatto che qualcosa possa essere sempre. E questo vuol dire che il sapere dell’ente è un ληθεειν per sempre… Questo sapere è qualcosa che scopre l’ente per sempre, cioè lo scopre definitivamente. Sapere, dunque, è l’avere scoperto, è custodia dell’essere scoperto di ciò che è saputo… Lo custodisce, lo tiene lì fermo. È un essere posto al cospetto del mondo come ente avendo a disposizione l’aspetto di quell’ente. L’πιστήμη è una ξις dell’ληθεεινξις sarebbe un avere, è ciò che questo scoprire possiede. L’πιστήμη è ciò che possiede questo tirar fuori, questo scoprire l’ente. In questo è custodito l’aspetto dell’ente.