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8 ottobre 2025

 

Agostino d’Ippona De doctrina christiana

 

Riprendiamo la lettura di Agostino, “L’istruzione Cristiana”. È importante la questione della fede in Agostino, ne parla continuamente. Possiamo pensare la fede come un rimedio all’impossibile del linguaggio. Agostino si accorge, a modo suo, che c’è un impossibile nel linguaggio e, infatti, ricorre a Dio. L’unico rimedio è la fede, cioè, credere che le cose siano in fondo come Dio voglia, e cioè che esista un qualche cosa che elimina il problema del linguaggio, l’impossibile del linguaggio. Ma la fede che cosa implica anche, immediatamente? La sottomissione a ciò che in cui si ha fede: mi devo sottomettere perché la fede possa avere effetto, cioè, generalmente io ho fede in ciò che penso e mi sottometto a questa verità che immagino appartenga alle cose che io dico.

Intervento: È come se quello che penso non venisse da me.

Esattamente. E, infatti, non viene da me, viene direttamente da Dio, perché lo sento. Infatti, la sottomissione volontaria è la sottomissione a qualche cosa che è al di sopra di tutto, perché sennò non ci si sottomette, se non appunto con la forza, ma, come sappiamo, questo è un discorso totalmente differente. Ci vuole un qualcuno che sia pensato al di sopra di tutti e allora mi sottometto volontariamente tutto contento, perché penso che tutti gli altri debbano sottomettersi come me. La sottomissione deve essere condivisa perché, se sono solo io, faccio la figura del debole, per così dire, ma il discorso cambia se tutti quanti si sottomettono. Questa sottomissione compare con il cristianesimo, è una sua invenzione, perché soltanto ponendo un ente assoluto è possibile pensare, proporre una sottomissione volontaria: è necessario che ci sia l’Uno, che ci sia Dio. Per questo dicevo che è un’invenzione del cristianesimo: si inventa Dio per sottomettersi. Ma la cosa interessante è che ci si sottomette per dominare, perché sottomettendomi a qualcuno io fornisco a questo qualcuno l’illusione di avere potere su di me e, quindi, lo tengo in pugno perché gli creo questa illusione, questo inganno. È la cosa che avviene generalmente nelle relazioni, sentimentali soprattutto: un gioco continuo di inganni reciproci. Ma all’inizio, nella stessa Bibbia, in fondo Dio pare avere bisogno degli uomini, degli umani per essere adorato, riverito, ecc., quindi, adorando Dio, sottomettendomi a Dio, io sottometto Dio alla mia volontà, perché lui ha bisogno di me e ha bisogno di me perché mi ama. Viene glorificato continuamente e, infatti, già nella Bibbia si dice che Dio è geloso degli uomini, ha bisogno che gli umani lo idolatrino, pensino sempre a lui. È come una ragazzina viziata che ha bisogno sempre di attenzione da parte di tutti, ché sennò se ne ha a male e punisce mandando accidenti di ogni sorta. Per cui la cosa nasce così, nasce già con l’idea che devo sottomettermi a qualcuno, ma che ha bisogno della mia sottomissione. Per questo dicevo che, in fondo, la sottomissione è l’apice della volontà di potenza.

Intervento: Praticamente ottengono potere tutti e due.

Sì, esattamente, ed è per questo funziona. Sì, funziona anche, potremmo dire, quasi dire politicamente, nel senso che qualcuno si sottomette a un certo ideale, a una certa ideologia, e in cambio cosa ne ha? È l’idea di avere un potere su chi in qualche modo gli propone o gli propina questa ideologia: il potere di criticarlo, di giudicarlo. Freud, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, ci è andato abbastanza vicino ma non ha colto proprio la questione. Si elegge un capo per poi poterlo abbattere, quindi, poterlo criticare, poter dire male di lui, poter dire che cosa deve fare e cosa non deve fare. A questo punto sono autorizzato perché io gli ho dato il potere e questo mi autorizza a poterlo giudicare. Il funzionamento grosso modo è sempre questo, però è necessaria la fede, cioè l’idea che sia possibile determinare uno stato di cose. La fede che le cose siano così, perché per sottomettermi devo avere fede che ci sia un qualche cosa di importante, di assoluto, a cui sottomettermi: può essere un ideale, può essere un Dio, può essere quello che si vuole, non importa. Ma mi sottometto e, quindi, dal momento in cui mi sottometto sono autorizzato, per così dire, a criticare, a dire al capo di turno quello che deve fare, se fa bene o se fa male, sono autorizzato a questo, cioè, a giudicare. Il potere è un po’ come la verità epistemica, è qualcosa che è dato come esistente di per sé. Esiste il potere, deve esserci; poi, può essere di Dio, può essere di un capo di stato, può essere di chi si vuole, però ci deve essere. Ci deve essere perché solo così io posso parteciparne. E qui interviene La Boétie. Posso partecipare di questo potere e, quindi, farne uso, farne uso giudicando gli altri, sentendomi al di sopra di altri. La questione della sottomissione è straordinariamente interessante e importante perché coinvolge di fatto ciascuno. Dal cristianesimo in poi il cristianesimo si è basato, si è fondato sulla sottomissione. Cosa fa il credente, il fedele quando entra in chiesa? La prima cosa che fa si inginocchia, perché la sottomissione va esibita, l’altro deve vedere che mi sottometto. In questo modo è come se io avessi un potere su Dio, perché io mi sottometto a lui, però lui da quel momento in poi deve occuparsi di me, deve pensare a me; così come lui vuole che tutti quanti pensino a lui, anch’io voglio che lui pensi a me, voglio essere importante per lui. In fondo, tutte queste manifestazioni religiose sono fatte, la teologia lo dice, per rendersi graditi, quindi, importanti a Dio: Dio mi ama. La sottomissione è anche sottomissione, in fondo, alle proprie opinioni; ci si sottomette alle proprie opinioni immaginando che siano vere e che, quindi, dicano, mi facciano pensare a come stanno veramente le cose. Io accetto di credere questo perché, accettando di credere questo, mi trovo nella condizione di nuovo di potere giudicare tutti quanti. Paolo è stato uno dei primi a porre la questione in questi termini, così precisi: la sottomissione è fondamentale; se non c’è sottomissione vuole dire che non c’è la fede e, se non c’è la fede, Dio non ti ama; se Dio non ti ama, allora non puoi avere potere su di lui, perché io ho potere su di lui solo se io lo amo e lui mi ama: c’è questo scambio. In effetti, l’essere importante per qualcuno è la condizione per avere potere su qualcuno. Ciò su cui noi stiamo lavorando è sul perché è così importante essere importanti per qualcuno. Come se questo qualcuno in fondo funzionasse…

Intervento: Da terzo, da referente.

Si, qualcosa del genere. E questo lo rende necessario.

Intervento: Come se da una parte ci fossi io, ciò che dico e l’altro, che tiene insieme le due cose.

Proprio così.

Intervento: Come se la fede in ciò che penso non fosse sufficiente, per via dell’irruzione dei molti.

Esatto. Quelli non si tolgono di mezzo, quindi, questa fede comunque è sempre in un qualche modo precaria e, quindi, ho bisogno che Tizio mi confermi, e poi Caio, e poi Sempronio, e poi tutti gli altri, è un continuo, naturalmente, è un continuo inseguimento dei molti che potrebbero sfuggire e, quindi, si tratta di agguantarli a uno a uno. Qui c’è l’idea di Severino, totalmente neoplatonica: solo quando tutti gli astratti, cioè i particolari, quindi i molti, parteciperanno dell’Uno, allora sarà l’Uno, sarà il tutto, sarà l’intero, ma bisogna eliminare i molti. integrarli. E questa è l’operazione fatta da Hegel, come ci ha mostrato bene Beierwaltes: integrare i molti, cioè, integrare la contraddizione. In realtà, Hegel non è che mantiene la contraddizione, lui vuole eliminarla attraverso il ritorno, usando i suoi termini, del per sé sull’in sé, che diventa a quel punto l’assoluto, dove non ci sono più i molti. La sottomissione deve essere di tutti e, se c’è qualcuno che non si sottomette, questo va eliminato. Solo se tutti sono sottomessi io mi sottometto. Quindi, devono essere tutti quanti e questo crea letteralmente la comunità, la comunità dei sottomessi. Dopotutto Agostino lavora prevalentemente su questa questione, sulla fede, certo, ma anche sulla sottomissione; anche se spesso non la cita direttamente, però c’è sempre questa idea di dovere sottomettersi alla verità, perché è l’unica condizione per potere parlare, sottomettersi alla verità epistemica, sottomettersi all’idea che una verità ci sia da qualche parte: solo così posso sostenere quello che affermo, sennò è doxa, opinione. Agostino a modo suo non ha torto: ci vuole la fede per parlare, ci vuole Dio, fin tanto che non ci si accorge che la fede in Dio non serve a nulla perché l’unico fondamento è la doxa. E, allora, effettivamente la fede cessa di avere qualche utilità, perché io affermo qualche cosa, so che ciò che sto affermando non può essere in nessun modo la verità, è soltanto qualcosa che affermo per continuare a parlare. Qui, a questo punto, chiaramente, come direbbe Nietzsche, la volontà di potenza digrigna i denti, perché non ha più un qualche cosa su cui fare leva, perché sulla doxa non ha nessun potere, perché la doxa è il divenire continuo, qualcosa che muta incessantemente e, soprattutto, non ha nessun fondamento. Però, la sottomissione ha questa particolarità, questa prerogativa: illude di avere il potere nei confronti di colui al quale mi sto sottomettendo; quindi, io mi sottometto, però, in questo modo ti controllo, ti domino. È qui che Hegel avrebbe forse potuto fare un passo ulteriore quando parla della dialettica servo-padrone. Il servo è, sì, sottomesso al padrone, ma per dominarlo. È una bella questione che consente anche di cogliere meglio tutto ciò che accade nel mondo di oggi, non da sempre ma dal cristianesimo in poi, sicuramente. Ripensando alla questione di Hegel, i servi tendono a fare uno, vogliono diventare Uno, che poi è quello che in qualche modo suggerisce Marx quando dice “proletari di tutto il mondo unitevi”. Unendosi diventano uno, ma questo uno non evita di molti. Qui ci sarebbe da accennare alla questione della rivoluzione permanente di Trotsky, perché, una volta fatto uno, questo uno non elimina i molti, i molti di nuovo prolificano, però la promessa è questa: diventare uno, tutti insieme, diventare uno, cioè, diventare Dio. Il diventare uno è più una posizione gnostica che neoplatonica. Per il neoplatonismo non si può diventare Uno, perché l’Uno è ineffabile e irraggiungibile, si può solo tendere all’Uno, che poi è la posizione del cristianesimo. Per lo gnosticismo, invece, bisogna diventare Uno, cioè, diventare Dio: sarete come dèi. Il popolo che si unifica, che fa uno, diventa Dio, il popolo è diventato Dio. Ed è ciò che fa di qualunque ideologia una religione, in fondo l’ideologia è una religione. L’ideologia punta, forzando un po’ l’etimo, a fare di molti discorsi un unico discorso, un’unica idea. Dico forzando un po’ l’etimo, in effetti è da discutere, però, perché no?

Intervento: È l’idea che in qualche modo informa l’azione.

Sì, questo è l’idealismo, mentre per Marx è il contrario, ma cambia poco. Perché è come domandarsi, è il padrone che ha bisogno del servo o è il servo che ha bisogno del padrone?

In effetti, una società collettivista, in cui il servo si appropria dei mezzi di produzione, economicamente non funziona perché manca il padrone.

Esatto, manca l’uno. Si, certo. Anche l’idea di Platone… Molti hanno accostato Platone a Marx, insomma, con le dovute differenti chiaramente, passano duemila e più anni. L’idea di Platone è proprio questa, di utilizzare i beni, metterli a disposizione di tutti in modo che ciascuno possa usufruirne, senza che qualcuno si ponga come il proprietario di questi beni. Solo che lui stesso a un certo punto si accorge, quando fa i vari passaggi dalla tirannide fino alla democrazia e poi, di nuovo, alla tirannia, perché lì intravede, senza poterlo sapere, l’esistenza della volontà di potenza. Se io divento il tiranno, un tiranno illuminato, all’inizio posso anche fare bene, ma dopo vengo preso dal delirio di onnipotenza, incomincio a fare disastri ed ecco che mi ammazzano. È la volontà di potenza che interviene, è questo che, come dicevo prima, in qualche modo Platone avverte quando nella Repubblica ha fatto questi passaggi: a un certo punto qualcuno esce dai ranghi e vuole imporsi; nessuno lo obbliga, ma appare inevitabile che il tiranno a un certo punto diventi un despota e che la democrazia a diventi nient’altro che il governo dei più contro i meno e che a un certo punto ci sia comunque qualcuno che si fa a capo di tutti quanti e dice io, meglio di tutti quanti voi, so come vanno fatte le cose. Anche in perfetta democrazia, alcune tirannie sono state elette democraticamente; per fare un esempio banalissimo, Hitler. Al colmo della democrazia, in effetti, c’è il crollo della democrazia, e quando cade la democrazia sorge il tiranno. Poi, Platone fa tutti i passaggi, l’oligarchia, il governo dei più ricchi che hanno più potere, fino ad arrivare poi al tiranno. La plutocrazia: il governo della ricchezza cui stiamo assistendo oggi, in cui ci sono vari personaggi, pochi, che hanno in mano quasi tutta la ricchezza del pianeta. La plutocrazia, il governo della ricchezza, i ricchi governano. Alla base di tutto c’è sempre la volontà di potenza, cioè la volontà di essere riconosciuto come il più potente, il più autentico, il più vero, il più importante e, quindi, dominare su tutti. E questi tutti si sottomettono, da una parte, come diceva La Boétie, per usufruire del potere che viene da questi potenti, e dall’altra anche per potere mettersi nella posizione di chi può giudicare questi potenti e, se li giudico, in fondo sono come e più di loro. A pag. 155. Ma quando apprendiamo questa parte dell’insegnamento, ne dobbiamo far uso più per esprimere ciò che abbiamo compreso che per comprendere. Invece la parte che riguarda conclusioni e definizioni e divisioni è di grandissimo giovamento a chi vuole comprendere… Sarebbe l’argomentazione, la logica. …purché si tenga lontano dall’errore per cui gli uomini possono credere di aver appreso proprio la verità della vita beata quando hanno appreso queste regole. Qui mette in guardia: non crediate che la vostra ragione vi permetta di arrivare a sapere tutto, la vostra ragione è limitata. Lui, come dicevo prima, conosceva abbastanza bene il linguaggio, era un retore, quindi ci lavorava praticamente; quindi, sa che questa verità epistemica non può essere raggiunta dagli umani, alludendo, senza volerlo, al problema del linguaggio, cioè non posso stabilire una verità epistemica. Che è ciò che ha stabilito Aristotele quando ha mostrato l’impossibile tanto della logica formale quanto della logica modale. Mostrando questa impossibilità, ha mostrato l’impossibilità del linguaggio, perché il linguaggio è costruito attraverso la logica. Quindi, mette in guardia perché si rende conto che non è possibile conoscere la verità epistemica, perché la verità epistemica è costruita dalle parole e le parole sono continuamente divenienti, come diceva qualche pagina prima: quando dico un nome, questo nome può significare tante cose, c’è un significato polivoco e, quindi, bisogna cercare il significato univoco. Lui naturalmente lo trova in Dio, l’unico che può fare una cosa del genere, cioè l’assoluto, l’irrelato, che quindi non è più in relazione con altre cose e, quindi, non ha lui un significato, lui produce i significati. Il che è una contraddizione in termini, perché, se io lo determino in qualunque modo, già lo pongo in relazione con qualcosa, se non altro con se stesso per dire che lui è lui. Non esiste l’irrelato, l’irrelato è un’invenzione degli umani, come la verità epistemica, come Dio. A pag. 159. Se però uno avrà apprezzato tutte queste discipline per poterne trar vanto in mezzo agli ignoranti, e non piuttosto per ricercare la ragione per cui sono vere quelle cose la cui verità egli avrà soltanto intuito… Il fatto è che con Agostino la verità c’è, è Dio, quindi, la verità non la si può raggiungere ma la si può intuire; che è esattamente quello che ancora oggi si fa quando ciascuno dice “sì, la verità magari nessuno sa bene cosa sia, però c’è”, la intuisce. Intuire: già l’etimo stesso allude a qualcosa di dentro, qualcosa che viene da dentro, lì intuisco che esiste la verità. …e la ragione per cui alcune, di cui avrà compreso l’immutabilità, sono non soltanto vere ma anche immutabili; se, innalzandosi dall’aspetto degli esseri corporei alla mente dell’uomo, avrà compreso che questa è mutevole, perché ora sa ora non sa, collocata com’è tra la verità immutabile al di sopra e le altre realtà mutevoli al di sotto; qualora non volgerà tutto ciò a lode e amore dell’unico Dio che egli sa essere l’autore di tutte le cose, potrà sembrare dotto, ma certamente non sapiente. Perché il dotto è colui che ha una scienza, una scienza qualunque o varie scienze, mentre il sapiente è colui che sa della verità epistemica, sa di Dio. A pag. 163. Allo stesso modo, tutte le discipline dei pagani non contengono soltanto invenzioni false e superstiziose e gravami faticosi e inutili, che ognuno di noi quando sotto la guida di Cristo esce dalla società dei pagani deve detestare ed evitare; ma contengono anche discipline liberali molto adatte all’esercizio della verità e utilissimi precetti morali... /…/ Quando il cristiano si separa spiritualmente dalla loro società, dai pagani apportatrice di miserie, deve strapparli da loro per volgerli al retto uso della predicazione del Vangelo. Tutte le cose che ha appreso dagli altri deve strapparle a loro per utilizzarle a vantaggio del Vangelo. Quindi, compiere un furto praticamente, un furto di idee. Tutto ciò che viene strappato dagli altri per la maggior gloria di Dio non è un crimine, è volontà di Dio. A pag. 169. Del resto, per quanto modesta fu la quantità di oro, argento e vesti, che gli israeliti portarono via con sé dall’Egitto, a confronto delle ricchezze che poi accumularono a Gerusalemme, soprattutto quelle che ci vengono presentate in possesso del re Salomone, altrettanto modesta è tutta la scienza utile che si ricava dai libri dei pagani, a confronto della scienza delle Sacre Scritture. Tutto ciò che apprendiamo fuori di esse, se è dannoso vi è condannato, se utile vi si riprova. E ognuno, quando vi avrà trovato tutto ciò che di utile ha appreso altrove, vi troverà ancora in maggiore abbondanza ciò che non trova affatto altrove e che apprende solo nella mirabile profondità e umiltà delle Scritture. Quando, dunque, i segni sconosciuti non saranno più d’impedimento al lettore così istruito, egli, mite e umile di cuore, sottomesso al dolce giogo di Cristo e gravato dal suo peso leggero, fondato e radicato e edificato nell’amore che la scienza non può gonfiare, si accosti a considerare e investigare i segni ambigui della Scrittura. Qui nel Libro terzo comincia a dire come va interpretata la Bibbia, e dice che va interpretata sempre nello stesso modo. Cita anche Ticonio come interprete delle Scritture, ma in fondo il principio fondamentale è questo: quando la scrittura non contraddice il credo cristiano allora va presa la lettera, se la contraddice allora va interpretata, cioè, va modificata in modo che non contraddica il credo cristiano. Questo è il principio fondamentale. Loro giustificavano così la cosa: il credo cristiano viene dalle Sacre Scritture, che vengono direttamente da Dio, quindi, il credo cristiano è la Parola di Dio. Quindi, se troviamo nella Bibbia delle parole che contrastano queste, allora non può essere Dio ad averle dette alla lettera, ma ha voluto che noi le interpretassimo; ci ha messi alla prova, insomma, perché ci si potesse esercitare nella nobile arte della semiotica o dell’ermeneutica, in questo caso. A pag. 191. Ne consegue che, là dove la Scrittura o prescrive qualcosa che ripugna alla consuetudine degli ascoltatori o condanna qualcosa che a loro non ripugna, se l’autorità della parola divina ormai vincola la loro coscienza, essi ritengono quell’espressione figurata. Se ripugna alla consuetudine è un’allegoria, è figurata. Questo è il criterio da seguire: se quello che si legge dà ragione al credo cristiano, allora lo si prende così com’è; se lo contraddice, bisogna interpretarlo. A pag. 195. Peraltro, anche in questo passo alcune parole sono adoperate con senso traslato. è il caso di “ira di Dio”… Per i cattolici, per i cristiani l’ira di Dio non suona tanto bene perché dev’essere il Dio dell’amore. …e “hanno crocifisso”: non sono però molte e non così atteggiate da oscurare il senso e proporre un’allegoria o un enigma, cioè quella che definisco propriamente espressione figurata. Invece le parole rivolte a Geremia: “Ecco, ti ho collocato sopra popoli e regni, perché tu distrugga e sradichi, disperda e annienti” non c’è dubbio che costituiscano per intero un’espressione figurata, da riportare alla finalità che abbiamo detto. Non può essere che Geremia sia una belva feroce. Se dice che Geremia deve fare tutte queste cose, distrugga, sradichi, disperda, ecc., non va bene con la religione dell’amore; e, allora, vuole dire che ha usato il senso figurato, cioè, vuole dire un’altra cosa. Ciò che invece appare vergognoso a chi non è esperto, sia che la Scrittura lo presenti come soltanto detto sia anche fatto da Dio o da qualche uomo di accreditata santità, tutto questo va inteso come espresso in senso figurato, e questo significato nascosto va messo in chiaro per servire da alimento all’amore. In effetti, chi fa uso più parte dei beni fuggevoli del mondo rispetto alla consuetudine della gente in mezzo alla quale vive, si comporta da continente o da superstizioso; chi invece le usa in modo da eccedere i limiti delle abitudini delle persone dabbene…. A pag. 199. Quando lettori inesperti e abituati ad altre usanze incontrano racconti di tal fatta, se non si sentissero vincolati dall’autorità della Scrittura, li riterrebbero vergognosi, senza rendersi conto che tutto il loro modo di comportarsi nel matrimonio, nei banchetti, nel vestire e in tutte le altre usanze del vivere quotidiano, sembrano vergognosi ad altri popoli e ad altri tempi. Messi sull’avviso da questa grande varietà di consuetudini diverse, alcuni che, per così dire, dormicchiavano, in quanto, se non erano immersi nel profondo letargo della stoltezza, però non potevano neppure restare svegli alla luce della sapienza, hanno ritenuto che non esista una giustizia in sé, ma che a ogni popolo sembra giusta la propria consuetudine... Invece no, ci vuole una giustizia che trascenda tutte queste giustizie particolari. …e poiché queste sono diverse da gente a gente e invece la giustizia deve essere immutabile, ne risulterebbe che non c’è giustizia da nessuna parte. La giustizia deve essere immutabile. Perché appartiene a Dio, non c’è un altro modo, non c’è un’altra possibilità. La giustizia, come la bontà, come la verità, appartengono a Dio, quindi sono immutabili. E qui cita una frase secondo la quale ci sarebbe una giustizia assoluta. Dice: non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te. Non è vero, perché ci sono casi in cui questo non funziona, in alcuni casi sì, in altri no. Per esempio: io non voglio essere aiutato, perché mi va di fare le cose da me e quindi non aiuto neanche gli altri per lo stesso motivo; e, quindi, il precetto crolla immediatamente. Perciò nell’interpretazione delle espressioni figurate osserveremo la regola di esaminare attentamente ciò che leggiamo e tanto a lungo finché l’interpretazione non sia indirizzata al regno dell’amore. Cioè, ti metti lì e non ti muovi finché non riesci a dimostrare che questo è un atto d’amore. Se una locuzione imperativa vieta un’azione vergognosa o delittuosa o ne comanda una utile o benefica, essa non ha senso figurato. Se dice così quello che si deve fare, non ha senso figurato. Se invece sembra prescrivere alcunché di vergognoso o delittuoso, ovvero proibire ciò che è utile e benefico, ha senso figurato. A pag. 203. Dove la Scrittura dice: “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete, dagli da bere. Non c’è dubbio che prescrive un’azione benefica. Ma quel che segue: “Così facendo ammasserai carboni ardenti sulla sua testa” … Cioè, lo piegherai alla tua volontà. …bisogna interpretare i carboni ardenti come i gemiti di penitenza grazie ai quali viene guarita la superbia di chi si rammarica di essere nemico di colui che ora soccorre nella sua miseria. All’origine c’era l’idea di fargli del bene e così lo tieni in pugno. A pag. 219. Quale ricchezza e abbondanza potrebbe infatti avere predisposto nelle Sacre Scritture la divina provvidenza, maggiore di questa per cui è possibile interpretare le stesse parole in più modi, confortati dal riscontro di altre parole divine non meno autorevoli? Cioè, questa ricchezza di parole e di significati l’ha data Dio, quindi dobbiamo rendergli grazie, ma è anche quella che ci consente poi di interpretare come vogliamo noi.