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8-10-2014

 

Dice Meinong: la psicologia ha a che fare solo con gli eventi psichici reali e non con quelli puramente possibili, una scienza del conoscere non dovrà porsi simili limiti, se non altro perché il sapere in quanto tale ha valore (da qualunque parte arrivi) qui ad esempio qualcosa che “non è ma potrebbe essere” attira infatti su di sé l’attenzione come desiderato (qui dà anche una definizione di desiderio tutto sommato. Desiderio: essere attirati da qualche cosa che non è ma che potrebbe essere) di conseguenza acquistano il titolo di oggetti della conoscenza, non solo tutti gli oggetti pseudo esistenti cioè realmente giudicati o rappresentati ma tutti gli oggetti che anche sono in potenza sono oggetti della nostra conoscenza. Non c’è però alcun oggetto che non sia, per lo meno in potenza, oggetto della nostra conoscenza (qui però vedete che la tesi di Meinong urta contro la posizione di Aristotele: un oggetto auto contraddittorio non è oggetto di conoscenza perché dice niente, entrambe le posizioni sono sostenibili, come sapete bene) se ci si pone dal punto di vista della finzione secondo la quale la facoltà del conoscere non sarebbe danneggiata da nessuna delle limitazioni poste nella costituzione del soggetto quali possono essere le soglie, le differenze di eccitazione eccetera, però presupponendo un’intelligenza capace di prestazioni illimitate non vi sarà allora nulla di inconoscibile e ciò che è conoscibile c’è anche o poiché si è soliti predicare il “c’è” preferenzialmente di enti anzi specialmente di esistenti, sarà più chiaro dire “tutto il conoscibile è dato ed è dato al conoscere”(questa è una posizione abbastanza platonica) e nella misura in cui tutti gli oggetti sono conoscibili di essi si può predicare senza eccezioni la datità che essi siano o meno è come una specie di qualità generalissima, l’importante che sono dati comunque (“dati” proprio nel senso di participio passato di “dare”) non v’è quasi più bisogno di trarre la conseguenza per il rapporto degli oggetti della conoscenza con gli oggetti di altre attività psichiche, gli oggetti quali che siano i vissuti cui essi appartengono sono immancabilmente anche oggetti della conoscenza (cioè qualunque cosa, se è qualche cosa e non può non essere qualcosa, perché questa è la questione di Meinong, cioè che non può non essere qualcosa in nessun caso, se qualcuno ci pensa è qualcosa. Bisognerebbe domandargli se un qualche cosa che nessuno ha mai pensato né potrà mai pensare in nessun caso, anche quello è un oggetto oppure no) (però diceva perché è pensabile in potenza, per cui anche se non è pensabile oggi è pensabile domani (…) lui dice che anche quelli in potenza sono dati. Lui considera soltanto tutto ciò che è pensabile in potenza o in atto, il resto non gli interessa) la matematica tutta, ed in modo evidente, la geometria tratta del non reale (il triangolo non è reale, è un concetto) così il pregiudizio più volte menzionato a favore del reale conduce da qui a un dilemma che pur se del tutto evidente risulta in fondo bizzarro, un dilemma di cui sicuramente non è possibile divenire coscienti in maniera facile ma che si può formulare più o meno in questo modo: o ciò a cui il conoscere si rivolge esiste realmente oppure esso esiste almeno nella mia rappresentazione (più brevemente dice lui “pseudo esiste”) per la naturalezza di questa disgiunzione non v’è testimonianza più convincente dell’uso della parola “ideale” che per il moderno sentimento linguistico significa tanto quanto pensato o semplicemente rappresentato , e sembra perciò dover spettare naturalmente a tutti quegli oggetti che non esistono o che non possono assolutamente esistere (quindi un oggetto che non può assolutamente esistere dice Meinong lo chiamiamo “ideale”) ciò che non esiste fuori di noi deve, così si opina involontariamente, esistere almeno in noi, esso cade pertanto dinnanzi al foro della psicologia ma forse quello stesso pregiudizio in favore della realtà si lascia ricostruire mostrando la verità dalla quale potrebbe essere scaturito (il pregiudizio) sarebbe sicuramente sbagliato opinare che ogni conoscenza debba riguardare l’esistenza o un esistente, non è però vero in fondo che alla fine ogni conoscenza in quanto tale ha a che fare con un ente? (Diceva se conosco, conosco qualcosa, e cioè considera il conoscere come un termine sincategorematico. Sincategorematicamente, questo è un punto importante. Ogni conoscenza in quanto tale ha a che fare con un ente) L’ente, il “fatto” senza cui nessuna conoscenza potrebbe valere in quanto conoscenza è l’oggettivo (l’oggettivo è l’oggetto che non esiste) afferrato attraverso il corrispondente atto di conoscenza, oggettivo a cui spetta un essere o più precisamente consistenza (Bestand), non importa che si tratti di un oggettivo positivo o negativo di un essere o di un essere così, sarebbe forse arrischiato che detta attualità del suo oggettivo immancabilmente data in ogni conoscere si trasponga, in un certo modo, a quell’oggetto di cui si occupa esclusivamente la teoria per passare poi esageratamente in un’implicita esigenza di realtà estesa a tutto ciò che sta di fronte al conoscere? (sta dicendo che non ci autorizza a dire che se conosciamo, conosciamo qualcosa necessariamente, e che questo qualcosa sia reale. Dice “per passare poi esageratamente in un’implicita esigenza di realtà estesa a tutto ciò che sta di fronte al conoscere?” andiamo avanti:) Posso del resto tornare a quanto già discusso … se, come siamo portati a credere che esiste nulla nel mondo che sia né fisico né psichico, (questo è ciò secondo lui che si è portati a credere) allora la metafisica è certamente la scienza della totalità del reale (cioè di tutto ciò che esiste in quanto esiste) nella misura in cui essa si rivolge sia al fisico sia allo psichico in tal senso anche la tesi fondamentale del monismo che afferma l’uguaglianza, l’essenza del fisico e dello psichico come non di meno quella del dualismo che afferma la diversità di natura, sono di ordine metafisico, ma chi conosce due cose come identiche o differenti conosce certamente qualcosa riguardo queste cose (se io dico che l’accendino è diverso dall’orologio conosco qualche cosa dell’accendino e dell’orologio, per potere dire che sono differenti) tuttavia la sua conoscenza concerne anche l’uguaglianza o la diversità, e l’uguaglianza è tanto lontana dall’essere una cosa quanto lo è la diversità, entrambe le cose sono esteriori alla disgiunzione tra fisico e psichico che si situano fuori dal reale, c’è appunto un sapere del non reale, e per quanto i compiti della metafisica a suo modo siano colti così generalmente vi sono pure problematiche ancora più universali di quelle della metafisica, quelle cioè per cui quell’orientamento al reale, esistenziale per la metafisica, non costituisce più alcun limite, di questa specie sono appunto le problematiche afferenti alla teoria dell’oggetto (cioè quelle che si riferiscono alla teoria dell’oggetto. Sta dicendo che in effetti la teoria dell’oggetto è qualche cosa che comprende la metafisica ma va oltre la metafisica, perché la metafisica si occupa solo del “reale”, che sia psichico o materiale questo è irrilevante, ma non si occupa di ciò che non è, mentre la teoria dell’oggetto si occupa anche di ciò che non è, del non esistente, perché anche il non esistente ha un essere come diceva prima) se la metafisica è la scienza generale del reale vogliamo contrapporle la teoria dell’oggetto come scienza generale del non reale? Ma questo sarebbe troppo riduttivo, perché gli oggetti reali dovrebbero essere esclusi dalla dottrina dell’oggetto in quanto tale? (sta dicendo che la metafisica si occupa di oggetti reali, la teoria dell’oggetto si occupa anche di ciò che non esiste, ma a questo punto non ne facciamo due cose, perché la teoria dell’oggetto che si occupa anche di ciò che non esiste dovrebbe escludere la metafisica? Non c’è motivo) o sarebbe forse più opportuno caratterizzarla come dottrina di ciò che consiste prendendo la parola “consistere” (Bestehen) in qualche modo in opposizione a “esistere” e presupponendo che tutto ciò che esiste consiste anche, ma non tutto ciò che consiste, per esempio la diversità, esiste? (sta dicendo che in effetti la teoria dell’oggetto ingloba la metafisica). Ciò che non ha consistenza, l’assurdo sarebbe escluso, l’interesse naturale vi si rivolge certo però in ridottissima misura ed esso (l’assurdo) offre alla comprensione intellettuale meno appigli ma appartiene in fin dei conti anch’esso al dato tanto che la teoria dell’oggetto non può ignorarlo in nessun modo, a simili mancanze si potrebbe ovviare semplicemente stabilendo che la teoria dell’oggetto si occupa del dato senza riguardo all’essere di questo, visto che mira esclusivamente alla conoscenza del suo “essere così”(il dato, come si dà) in ogni caso però ciò che dovrebbe impedire di fermarsi a questa determinazione è, per così dire, di natura più profonda dal punto di vista di una teoria dell’oggetto, se si volesse infatti porre a fondamento della teoria dell’oggetto l’indifferenza all’essere, essa dovrebbe al tempo stesso rinunciare ad essere scienza ed anche la conoscenza dell’ “esser così” ne verrebbe esclusa, al conoscere infatti non è assolutamente necessario, come sappiamo, che il suo oggetto sia, ogni conoscenza però deve avere un oggetto “essente”(dice che se volessimo porre a fondamento della teoria dell’oggetto l’“indifferenza all’essere”, questa teoria dovrebbe rinunciare anche ad essere scienza, e una scienza è conoscenza di qualche cosa “ne verrebbe esclusa” infatti) se la teoria degli oggetti si occupasse di un “esser così” in cui non convenisse alcun essere, non avrebbe alcun diritto a valere come teoria a prescindere dalle situazioni eccezionali che vanno qui tralasciate , si potrebbe formulare comunque il principio in questo modo: la teoria degli oggetti trascura l’essere solo nel caso dei suoi oggetti ma non nel caso di determinati oggettivi, qual è la ragione di questa disuguaglianza di misure? (perché prendiamo gli oggettivi e non gli oggetti?) e poi, e forse soprattutto, se questo o quell’oggetto sia per natura assurdo, se un oggetto consista o possa addirittura esistere, sono questioni che interessano di fatto la teoria dell’oggetto e in fondo questioni relative all’essere, in breve allora anche la restrizione all’ “esser così” non concorda con l’essenza della teoria dell’oggetto (cioè se prendiamo l’essere e lo intendiamo come l’“esser così” non ci basta per costruire una teoria degli oggetti, perché la teoria dell’oggetto considera che qualche cosa è anche nel caso in cui, non solo, non è reale ma per esempio è assurdo, è impossibile, come il famoso quadrato rotondo. Non è semplice la lettura del testo di Meinong perché non è sempre limpido né lineare, anche altri hanno avuto delle difficoltà, poi:) Sulla teoria dell’oggetto. In primo luogo ho ricordato questa disciplina filosofica che non ha ancora trovato posto nella tradizione ed è dunque in un certo senso nuova, per definire in modo formale cosa innanzi tutto è oggetto (Gegenstand) manca sia il genus che la differentia (sia sapere che cos’è individualmente, sia che cos’è per differenza da altro) tutto è infatti oggetto al contrario l’etimologia di “stare di fronte” appunto Gegenstand (vi avevo detto all’inizio “stare di fronte”) questa etimologia offre almeno una caratterizzazione indiretta attraverso il rinvio ai vissuti che afferrano l’oggetto, che non debbono però considerarsi come costitutivi anche di quest’ultimo, (sta dicendo che se a me l’oggetto sta di fronte questo non significa necessariamente che sia un attributo dell’oggetto ma è qualcosa che riguarda il vissuto, mio personalissimo) ogni esperienza interna, almeno ogni esperienza sufficientemente elementare ha un siffatto oggetto e nella misura in cui l’esperienza giunge a espressione, quindi innanzi tutto nelle parole e nelle proposizioni linguistiche, di fronte a una simile espressione si trova normalmente un significato e questo è sempre un oggetto, pertanto anche ogni sapere ha naturalmente a che fare con oggetti (quindi non solo il fatto che mi stia di fronte mi consente di dire che è un oggetto, ma per il fatto che lo dico con un’espressione, questa espressione ha un significato, mi trovo di fronte ancora un altro oggetto che è appunto il significato). Grandi e importanti gruppi di oggetti non hanno però trovato una patria nelle scienze tradizionali, inoltre in queste scienze si ha a che fare esclusivamente con la scienza del reale mentre il non reale che è, e oltre a ciò il non ente, il possibile ed anche l’impossibile possono costituire l’oggetto di determinate conoscenze, alle quali colui che teoreticamente è ancora ingenuo indirizza spontaneamente i propri interessi, al massimo quando ciò promette di fornire un medio di conoscenza per il reale, in opposizione per una simile preferenza per il reale, e fino ad ora di fatto ancora mai rotta in nessuna scienza, permane l’innegabile bisogno di una scienza che elabori i suoi oggetti senza limitarsi precipuamente al caso particolare della loro esistenza, tanto da poter essere designata in questo senso come “indifferente all’esistenza”, ho chiamato “teoria dell’oggetto” “Gegenstand Theorie” questa scienza dell’oggetto in quanto tale o dell’oggetto puro. (“puro” dal fatto che esista o non esista”) Per gli oggetti non è affatto essenziale l’essere effettivamente afferrati, lo è però certamente il poter essere afferrati (qui introduce il concetto di “afferramento” che per lui è importante ma che poi di fatto non ha una determinazione così precisa, è molto generica, intuitiva, potremmo dire l’oggetto che afferra) in tal senso la teoria dell’afferramento è una specie di complemento alla teoria dell’oggetto, l’afferrare è naturalmente qualcosa di ultimo, indefinibile (vedete come la metafisica a un certo punto si manifesti come qualche cosa che non è definibile, cioè si appoggia su qualcosa che non è definibile, qualcosa di simile a ciò che diceva Trubeckoj, lui era un fonologo soprattutto, che ha costruito una teoria del fonema come l’oggetto “proprio” della fonologia. Il “fonema” sarebbe la minima unità di suono che lui individua come oggetto, per lo stesso Trubeckoj non è dicibile. Per esempio la “p”, in quanto oggetto ideale della fonologia non è dicibile, ciò che si dice in effetti è un’altra cosa ma non è quella cosa lì, è un po’ platonica anche questa, il platonismo checché ne pensiate è molto più presente di quanto possiate immaginare, dunque ci si troverebbe di fronte alla situazione per cui la condizione del dire è l’indicibile, questo in Trubeckoj lo si può notare, che è un qualche cosa che è metafisico ovviamente, ma non è molto lontano da questa ricerca che sta facendo Meinong , dopo tutto questo “afferramento” di cui sta dicendo è indefinibile eppure è qualche cosa di ultimo, cioè di fondante, ma è indefinibile. La filosofia continentale si distingue da quella analitica, la filosofia analitica viene dal positivismo logico, mentre la filosofia continentale è una filosofia che trova prevalentemente la sua ispirazione in Heidegger, e poi tutti quelli che gli hanno fatto seguito. La filosofia continentale suppone che il significato delle cose non proceda “analiticamente” dall’analisi di proposizioni che dovrebbero riuscire a individuare e a determinare e delineare il significato delle cose, delle parole in definitiva, ma suppone che questo significato si produca come effetto, da qui tutta l’ermeneutica che anche quella trae la sua origine in Heidegger. L’ermeneutica si fonda sul concetto di interpretazione, affonda le sue radici nel De Interpretazione di Aristotele, questo significa che le cose, in questo caso i significati, non sono un oggetto in quanto tale, identico a sé, , individuabile, ma sono il prodotto di una serie di connessioni che intervengono tra parole, da qui in buona parte ma non tutto anche la semiotica, quindi vedete che tante discipline si trovano ad affrontare questioni molto simili, ecco la divisione fondamentale tra filosofia analitica e continentale è questa: “il significato è quello che è” analitica, “il significato è il prodotto di connessione di elementi” continentale. Adesso l’ho detta in un modo molto spiccio. Allora:) Rispetto ad esso (il soggetto è sempre l’ “afferrare”) quanto deve essere afferrato l’oggetto è sempre ciò che è logicamente anteriore (perché se io afferro qualche cosa questo qualche cosa deve essere lì perché io possa afferrarlo quindi è anteriore all’“afferramento”, lui parla dell’ “afferramento” il capitolo è Sulla dottrina dell’afferramento in particolare sulla gnoseologia:) Rispetto ad esso quanto deve essere afferrato l’oggetto è sempre ciò che è logicamente anteriore il suo esser già dato, il resto, non deve necessariamente essere costituito dall’esistenza o dalla consistenza , in quanto possono mancare entrambe e possono essere sostituite dal “puro fuori essere”(Aussersain) per quanto invece l’“afferrare” esso consiste di una pre esperienza  attraverso la quale l’oggetto è presentato al pensiero e di una esperienza principale per mezzo della quale esso viene intenzionato. (qui la questione è apparentemente complicata, ma sta dicendo che per potere afferrare questa “cosa”, questa “cosa” ci deve essere prima del mio afferramento, ma questo essere dato in questo caso è un aggeggio, che ha una materia e una forma, quindi sarebbe un sinolo, come direbbe Aristotele, però dice non necessariamente: anche se questo aggeggio non fosse l’aggeggio che è, anche se non fosse, se fosse un oggetto impossibile come il famoso cerchio quadrato, comunque per poterlo afferrare questo ci deve essere già, per poterlo pensare deve essere già dato, è questa la questione che sta ponendo. Il primo aspetto quello dell’esperienza del presentarsi dell’oggetto “è stato già da sempre riconosciuto nella rappresentazione, il secondo va dimostrato dal giudizio” cioè primo lo “apprendo” per così dire, dopo lo giudico, come dire questo accendino primo lo percepisco, dopo posso prenderlo. Che è una questione per un verso complessa e per l’altra no, in fondo sta dicendo che c’è un qualche cosa, questa “datità” delle cose cioè degli oggetti appare essere prima rispetto all’“afferramento”, rispetto all’afferrare di queste cose, ora come faccia ad essere prima di questo, questo è il problema della metafisica tutto sommato.) Ciò che intuiamo con “comprensione” e quindi a priori lo chiamiamo “necessario”(infatti adesso parla dell’a priori, “ciò che intuiamo con comprensione lo intuiamo ma lo comprendiamo anche “immediatamente” cioè non è mediato dal giudizio, da un accidente qualunque “lo chiamiamo necessario” questa è la necessità per Meinong) la “necessità” è una proprietà dell’oggettivo (quindi non si riferisce a un Objekt, come diceva lui, a un oggetto in quanto tale, ma a qualcosa che è ideale, la cui esistenza o non esistenza è irrilevante) essa sembra però potersi caratterizzare al momento solo per mezzo dell’esperienza, (è qui il problema antico dell’a priori) sapere “a priori” è in primo luogo sapere circa la consistenza o l’esser così, nessun sapere circa l’esistenza positiva è libero indipendentemente dall’esperienza (e cioè non posso cogliere un’esistenza di questa cosa, positiva cioè che esiste realmente senza l’esperienza, se lo esperisco lo vedo, lo tocco al contrario sapere “a priori” se appoggiato da sapere empirico è imputabile facilmente all’esistenza (cioè io posso intuire qualche cosa immediatamente poi lo vedo ed ecco che diventa evidente, infatti parla dell’“evidenza” in questo modo) un giudizio così fondato in parte sull’a priori in parte sull’empiria, si conforma alla venatura empirica in quanto pars debilior (cioè più debole perché invece tra poco dirà che l’a priori è la parte più forte, fortior) ogni sapere empirico si basa sull’esperienza, è il fondamento, è costituito da percezioni, giudizi di esistenza evidenti ma non evidenti a priori relativi a qualcosa di presente (cioè deve esserci lì la cosa e allora la posso esperire, appunto “esperienza” “empiria”) intendendo questa espressione in modo abbastanza preciso da comprendere con essa non il punto presente in senso stretto, ma un segmento temporale sufficientemente breve che con questo punto ha inizio, (sta dicendo che l’esperienza ha un aspetto temporale cioè occorre che percepisca la cosa per un lasso di tempo. Dicevamo tempo fa rispetto al punto, questa puntualizzazione che diventa atemporale perché senza tempo, e senza tempo non c’è nessun oggetto) una percezione è o percezione interna che in condizioni favorevoli, ma solo in esse, è limitata dall’ evidenza di certezza in forza dell’auto rappresentazione di quanto deve essere percepito o è percezione esterna, che a causa del carattere soggettivo delle qualità secondarie così come delle primarie, offre soltanto evidenza suppositiva relativamente all’esistenza delle cose esterne o a determinate relazioni tra le loro qualità, così che si deve parlare qui solo di semipercezione (cioè lui distingue fra una percezione interna o esterna. La percezione interna è limitata all’evidenza di certezza, però dice che è una certezza evidente non empirica, come ricordarsi qualcosa, avere un pensiero, nessuno può dubitare di avere un pensiero nel momento in cui ce l’ha, questa è un evidenza certa, ma non empirica, invece la percezione esterna ha un carattere soggettivo. Insomma tra la percezione interna e quella esterna la differenza fondamentale è che la prima non è soggettiva la seconda sì, io percepisco questo aggeggio nella maniera in cui io lo percepisco, ma dice che l’acquisizione dell’esistenza di qualche cosa, la semplice esistenza per esempio, la semplice presenza di qualche cosa questa non è soggettiva, dice Meinong, perché non è vincolata potremmo dire a tutte le qualità soggettive che mi riguardano. Adesso qui qualche considerazione attorno alla gnoseologia che è il discorso intorno alla conoscenza. Qui parla della particolarità della gnoseologia del “fatto che l’oggetto da conoscere sia in esso proprio la conoscenza stessa” cioè nella gnoseologia, in quanto teoria della conoscenza, l’oggetto è la conoscenza, non è un’altra cosa, come invece in qualunque altra scienza l’oggetto è l’oggetto di cui la scienza si occupa:) ora da una parte la si è considerata come indispensabile presupposto di ogni conoscenza, dall’altra si è dedotta dalla rivendicazione di una tale posizione la sua impossibilità (e cioè è una disciplina che indaga se stessa, la teoria della conoscenza si pone come oggetto di ricerca la conoscenza stessa, quindi pone se stessa come conoscenza, ma come fa a conoscere se stessa attraverso se stessa? Potrebbe creare qualche problema per esempio in retorica, sarebbe una petizione di principio una costruzione del genere) e in verità però una conoscenza non diviene tale perché viene riconosciuta come tale, e non lo diviene dunque nemmeno attraverso i giudizi a posteriori emessi in ordine ad una sua critica, se qualcosa sia o meno conoscenza dipende semplicemente da questo stesso qualcosa e dalla sua natura e in forza della quale nel migliore dei casi come abbiamo potuto affermare “afferra il fattuale” in maniera penetrativa, giudicativa, essa è dunque conoscenza, per così dire, con propria autorità, è il principio della auto validità della conoscenza (sta dicendo una cosa importante, ma anche complicata, complicata teoricamente nel senso che attribuisce alla conoscenza la proprietà di essere in condizioni, lei sola, di valutare se stessa) ciò non esclude affatto una critica a posteriori, (cioè si può fare naturalmente) questa però deve ad un certo punto arrestarsi e lasciare qualcosa di non sottoposto alla prova a cui appunto “alla ventura” si è obbligati ad affidarsi, questo è il principio dell’incompiutezza critica di ogni conoscenza (cioè la conoscenza non può indagare oltre ad un certo punto cioè oltre se stessa. Vi leggo questo passo ché è importante, quindi abbiamo detto principio dell’auto validità della conoscenza, “questa (cioè la critica) deve ad un certo punto arrestarsi e lasciare qualcosa di non sottoposto a prova, si è obbligati ad affidarsi ad un principio dell’incompiutezza critica di ogni conoscenza” che è un’affermazione impegnativa in effetti come se stabilisse una sorta di colonne d’Ercole oltre le quali non si può andare, perché? Perché la conoscenza non ha un qualche cosa che la possa garantire al di fuori di sé, perché qualunque cosa fuori di sé è sempre conoscenza, qualunque critica io voglia fare alla conoscenza la farò sempre con la conoscenza, non uscirò mai da lì, ed è una questione notevole in effetti, ciò che abbiamo costruito in questi ultimi decenni in effetti ha posto un’obiezione, sì, anche alla conoscenza certo, ma non alla conoscenza in quanto tale, ma al fatto che la conoscenza deve avere un qualche cosa che possa determinarla in quanto conoscenza, e cioè un qualche cosa che dia la possibilità di affermare che qualche cosa è quello che è, o che è differente da sé, oppure un qualche cosa che comunque debba potere dare l’opportunità di mettere della proposizioni, quelle della conoscenza, in una forma tale, in una grammatica tale, che la conoscenza possa esistere, ed è quella cosa che per esempio Quine chiamava “grammatica della logica” senza la quale non c’è conoscenza, poiché le proposizioni non possono essere messe in quella disposizione tale per cui possono costruire altre proposizioni, essere riconosciute come proposizioni e quindi dare avvio alla conoscenza, quindi che questo costituisca un limite alla conoscenza non è proprio esattamente così) come ogni “afferramento” anche la conoscenza, e questa in misura ancora più particolare, è una prestazione particolare non riconducibile a nulla di più elementare (sta cercando i fondamenti, la conoscenza rappresenta un limite, l’ “afferramento” rappresenta un altro limite) ma chi crede a una conoscenza (infatti lo pone in forma dubitativa “chi crede” chi non ci crede è libero di fare quello che vuole) chi crede ad una conoscenza non dubiterà, dove lo riconosca, nemmeno sulla prestazione di questa, finché si considererà legato da conclusioni. (ecco però per essere legato a conclusioni, perché qualcosa sia riconosciuto da ciò che sto pensando come una conclusione ci vuole qualche cosa in più, ci vuole cioè sì, la conoscenza ovviamente, ma qualche cosa che questa conoscenza permetta di poterla costruire, di poterla porre in essere) a questa prestazione è essenziale il fatto di riferirsi a qualcosa che non coincide in nessun modo con l’esperienza conoscitiva, (badate bene) da cui eventualmente vanno accuratamente distinte solo le presupposizioni a servizio della presentazione, e le è pertanto sempre trascendente (allora a questa prestazione della conoscenza ovviamente, “questo suo darsi della conoscenza è essenziale il fatto di riferirsi a qualcosa che non coincide con l’esperienza conoscitiva” sta dicendo che la conoscenza non è l’oggetto della conoscenza tanto per farla breve. Quindi l’oggetto della conoscenza è pertanto sempre trascendente di fatto alla conoscenza) il pregiudizio a favore dell’immanenza (cioè di qualcosa che sta lì) può ricondursi in non piccola parte alla posizione privilegiata della percezione interna rispetto a quella esterna , anzi, anche ciò che è percepito internamente è immanente al soggetto conoscente, non però all’esperienza di conoscenza (cioè ciò che una persona avverte come percezione interna lo conosce ovviamente in un certo senso, però ciò che percepisce non è immanente alla conoscenza stessa, non sta dentro alla conoscenza, è qualche cosa che lui conosce, qualche cosa che la conoscenza produce ma non è qualche cosa che attiene alla conoscenza in quanto tale) se questo è vero allora non è la trascendenza quanto si può obiettare all’ “afferramento” conoscitivo di ciò che è psichico, ma è estraneo al soggetto e di ciò che è fisico, ciò che consiste o il “fuori essente”, in particolar modo l’ideale è ancor meno immanente al conoscere (sta dicendo che l’oggetto non sta dentro al conoscere, dentro la conoscenza, l’oggetto sta da un’altra parte) e anche l’applicazione all’esistente di ciò che è conosciuto a priori non diviene certo dubbia per il fatto di essere trascendente, l’importante è solo questo, che non manchi la necessaria evidenza. (Ecco qui riprendiamo la questione dell’empiria e dell’a priori che per lui è molto importante) come suggerisce lo stesso nome che si riferisce al fatto di trovare qualcosa di già dato, anche l’empirico è definitivo a partire dall’afferrare. Dal lato dell’oggetto si cerca invano un momento positivo, l’espressione “a posteriori” non sembra capace di un estensione etimologica pari a quella del termine “a priori” e funziona oggi solo in forza della sua opposizione a quest’ultima, evidente fino ad un certo punto (sta dicendo che per gli umani è sempre stato più importante l’a priori che l’a posteriori) oggettualmente rimane qui solo una determinazione negativa, vale a dire l’assenza di necessità (nell’a posteriori, nell’esperienza la sua caratteristica è una caratteristica negativa cioè non è necessaria, che io esperisca questa sigaretta non è necessario né per la sigaretta né per nient’altro) anche questa assenza (di necessità) si mostra legata prima di tutto alla condizione di conoscenza del soggetto, si ha a che fare con l’empirico ove la necessità non penetra nella conoscenza indifferentemente dal fatto che quest’ultima sussista oggettivamente o meno, un esempio notevole di questo si trova nel fatto che l’a priori si lascia applicare direttamente all’empiria, quanto cioè è stato conosciuto attraverso l’empiria diviene successivamente partecipe della necessità di ciò che è a priori (sta dicendo che io colgo qualche cosa a priori, cioè nell’immediato, senza giudizio, senza una valutazione, tutto questo è a posteriori, sarebbe il giudizio sintetico per Kant, quindi potremmo dirla in altri termini da quelli che usa lui, probabilmente non gli piacerebbero neanche: c’è prima una sorta di appercezione immediata dopo di che c’è l’esperienza, per esempio della percezione, la percezione immediata e poi esperienza di tale percezione quindi l’empiria, l’a posteriori necessita dell’a priori ma una volta che “aposteriormente”, una volta che è avvenuta una conoscenza a posteriori e quindi della percezione ecco che ciò che si è saputo in qualche modo va ad influire sull’a priori cioè lo conferma per esempio, dice “sì è proprio così”, gli dà una forma, mettiamola così, uno statuto logico, ontologico. In questo percorso di retroazione c’è una percezione immediata, non mediata da nulla, dopo di che questa percezione produce la “percezione” chiamiamola “seconda” in cui io valuto ciò che ho percepito direttamente, una volta che ho valutato questa percezione cioè l’ho giudicata, questo giudizio retroattivamente va alla iniziale percezione a priori dandole un valore per esempio, ma la conclusione, ciò che si conclude qualunque cosa sia) in quanto deve testimoniare di ogni trasposizione di questo tipo (questo movimento di cui dicevo prima) ha sempre almeno una premessa empirica che sfugge alla necessità (sta dicendo, contrariamente a quanto ha detto prima, che c’è sempre un qualche cosa di empirico che sfugge alla necessità cioè questo secondo movimento in cui io giudico, valuto, considero la prima appercezione a priori, ebbene in questo secondo movimento c’è qualche cosa che è come se non avesse bisogno dell’a priori, ma esistesse da sé) e se questa premessa funziona ogni volta come “pars debilior”(cioè come la parte più debole di un’argomentazione per esempio) allora anche alla conclusione risultante dalla trasposizione manca in realtà la necessità, che a rigore può essere attribuita solo equivocamente a questa conclusione, essa è infatti propria solo dell’implicazione e dunque del “con essere”(quindi e qui è la questione) ogni esistenza presenta qualche cosa per così dire inaccessibile alla considerazione della necessità e dunque alla necessità stessa, un resto per così dire irrazionale (lui dice a un certo punto che una conclusione in quanto deve testimoniare di ogni trasposizione di questo tipo “ha sempre almeno una premessa empirica che sfugge alla necessità” questa frase qui è impegnativa perché non la dimostra, “e se questa premessa funziona ogni volta come pars debilior cioè meno potente dell’a priori “allora anche alla conclusione risultante dalla trasposizione manca in realtà la necessità”. Cioè se questa premessa funziona ogni volta come pars debilior quindi non può essere un a priori, allora anche la conclusione sarà allo stesso tempo debole, mancherà quindi del carattere più forte della necessità. Però se è così, ma se non fosse così? Perché in effetti non dà una spiegazione di questa affermazione, la mette lì e basta) ciò che consiste a buon diritto indifferentemente dall’esistenza non viene danneggiato dall’esistenza (se una cosa esiste questo non influisce sul fatto né inficia il non esistente, direi che è ovvio) nell’esistenza stessa incontriamo però una specie di pendant al principio a priori di ragione nella forma della legge generale della causalità (come dire che nell’ a priori che cosa vediamo generalmente? La legge di causalità, la causa del mio giudicare qualche cosa è che abbia percepito questo qualche cosa) ciò che la teoria dell’oggetto generale persegue per il razionale è quanto a riguardo dell’empirico persegue la metafisica, che nella sua essenza è integralmente scienza della realtà.

Tutto questo che abbiamo detto di Meinong muove a delle considerazioni importanti, che ci riconducono alla questione del principio di non contraddizione, perché qui Meinong pone anche il principio di non contraddizione come un oggetto al pari di qualunque altro, senza tenere conto delle implicazioni che il principio può comportare in una riflessione sull’oggetto, perché già soltanto la considerazione che nella Metafisica di Aristotele, la questione del principio di non contraddizione costituisca la parte più importante di tutta la metafisica non è casuale: avere un criterio che consenta di stabilire che l’oggetto è quello che è con assoluta certezza ed escludere che possa essere altro da sé. Questo è il pilastro della metafisica di Aristotele. La questione dell’oggetto così come la pone Meinong è che esiste anche ciò che non è esistente, perché se io sto parlando di questo “non esistente”, sto parlando di qualche cosa, perché se parlo, parlo di qualche cosa, perché lui in tutto questo libro sta dicendo questo, e cioè che esiste anche il non esistente perché se sto dicendo che esiste l’inesistente sto dicendo qualcosa, questo non esistente è qualcosa e “il qualcosa” per definizione è un oggetto, quindi l’oggetto è anche ciò che non esiste. Questo però ci pone un problema che riguarda il concetto stesso di “esistenza” di cui per altro Meinong non parla mai, non definisce mai il concetto di esistenza, lo dà per implicito come ciò che è in qualche modo, però se il suo modo di essere è il non essere allora aristotelicamente non è, propriamente però Meinong continua a dire invece che se diciamo che non è qualche cosa è qualche cosa, perché stiamo dicendo qualcosa, esiste come “non è”. Ciò che dice Meinong è esattamente il contrario per esempio di ciò che afferma Severino, lui non parla di Meinong ma di Łukasiewicz che per qualche verso sostiene una cosa del genere. Severino aristotelicamente dice che affermare che ciò che è, è anche ciò che non è, non può darsi in nessun modo perché se si desse allora non sarebbe neanche questa affermazione, che è un grosso problema filosoficamente e metafisicamente, problema che risolveremo mercoledì prossimo.