INDIETRO

 

 

8 settembre 2021

 

Metafisica Aristotele

 

Il principio di non contraddizione è fondamentale nella logica. Il principio di non contraddizione serve per potere affermare la verità con certezza, escludendo dalla verità il falso. In effetti, se nella logica formale, in quella modale, in una qualunque teoria logica compare una contraddizione come teorema, quindi, come vera, dimostrata, tutta la teoria diventa banale: viene invalidata se A e non-A è un teorema. Questo perché, come già i medioevali avevano rilevato con la loro formula latina ex falso sequitur quodlibet, dal falso segue qualunque cosa, e quindi la teoria non serve più perché si può dimostrare qualunque cosa e il suo contrario. E, allora, nel secolo scorso si sono inventate le logiche paraconsistenti, che sono quelle logiche che ammettono, oltre ai due valori di verità vero e falso, anche un terzo valore: vero/falso. Queste logiche paraconsistenti sono state inventate proprio per evitare che alcuni sistemi di logica fossero cancellati a causa di una contraddizione interna, cioè, ci si è domandati se è possibile in qualche modo evitare che una certa teoria logica sia cancellata perché c’è una contraddizione. Per intendere il modo di risolvere il problema vi faccio un esempio. Stanisław Jaśkowski, un logico polacco della prima metà del secolo scorso, ebbe questa idea: immaginate delle persone che discutono tra di loro, immaginate questo come se fosse un sistema logico; ora, può accadere che due persone, all’interno di questa discussione, sostengano due cose opposte, ma questo non falsifica tutta la discussione perché due affermazioni possono convivere anche se opposte, l’importante è che ciascuno dei presenti non si autocontraddica. Tutte le logiche paraconsistenti sono grosso modo costruite così. Il che non è una grande pensata perché è esattamente quello che già diceva Aristotele nella Metafisica e nell’Organon: due affermazioni, per essere contraddittorie, devono essere in atto, non in potenza. Se io dico: domani pioverà oppure non pioverà, non dico niente, ma non mi contraddico perché non affermo nulla di preciso. La contraddizione sarebbe invece questa: sta piovendo e non sta piovendo. Finché io le pongo in potenza, come direbbe Aristotele, ma non in atto, non c’è nessuna contraddizione, e quello che fa Jaśkowski è questo, con qualche variante, ma è quello che dice Aristotele, e cioè: se queste affermazioni sono in potenza non sono contraddittorie. Per i logici la logica non è altro che una macchinetta, bene oliata, in cui si immettono cose e queste cose vengono restituite in quanto vere o false. Una macchina che funziona con un programma, che è grosso modo quello stabilito dalle tavole di verità. Come tutte le macchine, funziona ma non può dimostrare se stessa, non può garantire della verità di se stessa. La cosa interessante è che la logica, non solo quella paraconsistente, per la quale non ho di fatto alcun interesse, ma la logica in generale con la sua ricerca della verità ricerca un qualche cosa che deve potere essere creduta da tutti. E ciò che può porsi in quanto creduto da tutti è quella cosa che generalmente chiamiamo “verità”. Potremmo definire la verità anche in questo modo: ciò che deve imporsi su tutti. Non è che faccia molto altro. Aristotele ha un progetto, a cui abbiamo già accennato, progetto che è quello di trovare un qualche cosa che sia imponibile a tutti, cioè che imponga di essere creduto da tutti, perché solo così è possibile dominare, solo così è possibile stabilire il bene, non solo stabilirlo ma stabilirlo in modo che tutti lo perseguano. Deve essere qualche cosa che deve essere perseguito da tutti e, quindi, deve essere creduto da tutti; per potere essere creduto da tutti deve avere certi requisiti. Aristotele individua il principale: non deve essere autocontraddittorio. Solo così è possibile stabilire la verità, quindi, il τέλος, il fine. E questo è il progetto di Aristotele. Ora, all’interno di questo progetto, che abbiamo visto nelle pagine precedenti essere quello di stabilire il principio primo, gli assiomi fondamentali, e cioè il principio di non contraddizione, c’erano però alcuni che ostacolavano il principio di non contraddizione, non ritenendolo un principio primo. Tra questi c’era Protagora. Di Protagora non è rimasto niente. Se voi prendete I presocratici di Diels-Kranz, considerata la Bibbia dei presocratici, non trovate nulla se non testimonianze sulla sua vita, dove si dice sia nato in un certo luogo, si dice sia morto in quell’altro, si dice abbia fatto questo o quest’altro, ma “si dice” appunto, non c’è nessuna certezza. Le uniche cose tramandate che lui ha detto – dei suoi libri non è rimasto nulla – è che l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono, che l’uomo non ha la possibilità di stabilire se gli dei esistano oppure no perché non ha informazioni sufficienti e la vita è troppo breve per un quesito così importante. Questo è ciò che rimane di Protagora, tutto qui. Ora, dicendo che l’uomo è misura di tutte le cose, certo, si può considerare questo come un’opposizione al principio di non contraddizione, ma “si può” così come anche no, non è che lui stia di fatto negando il principio di non contraddizione. Tuttavia, Aristotele ha voluto che fosse così, che Protagora fosse il capofila dei negatori del principio di non contraddizione, in modo da poterlo attaccare, perché se riesco – potrebbe avere pensato Aristotele – a confutare tutti coloro, non solo Protagora ma anche i sofisti, gli eleati, i naturalisti, ecc., se riesco a confutare la loro tesi, che in qualche modo invalidano più che negare il principio di non contraddizione, allora ho confutato anche loro. Questo tenendo sempre presente che ciò che dice Aristotele è che il principio di non contraddizione, in quanto principio primo, non può essere dimostrato; si può usare la dimostrazione attraverso la confutazione dei negatori: se confuto i negatori allora è come se potessi affermare con tranquillità la validità del principio di non contraddizione. Bisogna vedere se gli riesce, però. 1008b 30. Inoltre, supposto anche che tutte le cose siano e non siano in un dato modo, si dovrà pur ammettere che nella natura delle cose esiste il più e il meno. Dice: si dovrà pur ammettere, perché? Infatti, non potremmo certo dire che sono nello stesso modo pari il due e il tre, né potremmo dire che sbaglia nello stesso modo chi confonde il quattro con il mille. Se, dunque, costoro non sbagliano nello stesso modo, è evidente che uno dei due sbaglia di meno e che, pertanto, è più nel vero. Ora, se più nel vero vuol dire più prossimo al vero, dovrà anche esserci un vero (assoluto), rispetto al quale ciò che è più prossimo è altresì più vero. Naturalmente, qui ignora o fa finta di ignorare Zenone, il quale ha detto che tra il quattro o il mille non è che il mille sia più vicino alla fine, se sono infiniti che sia quattro o mille è la stessa cosa. Quindi, già si potrebbe dire che è molto discutibile il fatto che, come dice, si dovrà pur ammettere che nella natura delle cose esiste il più e il meno, che potremmo anche dirlo ma questo non ci serve per stabilire quale sia più vicino o quale sia più lontano rispetto a un certo punto, non lo possiamo dire. 1009a 5. Dalla stessa convinzione deriva la dottrina di Protagora, e perciò tutte e due le dottrine, necessariamente, reggono o cadono in egual modo. In effetti, se tutte le opinioni e tutte le parvenze sensoriali sono vere, esse dovranno, necessariamente, essere tutte vere e tutte false nello stesso tempo. (Infatti, molti uomini hanno convinzioni opposte, e tutti ritengono che coloro che non condividono le proprie opinioni siano in errore; e da questo scaturisce, come necessaria conseguenza, che la stessa cosa sia e anche non sia). E se è così, segue anche, come necessaria conseguenza, che tutte le opinioni sono vere. (Infatti, coloro che sono nel vero e coloro che sono nel falso hanno opinioni fra loro opposte; ma se le cose stesse stanno in questo modo, tutti saranno nel vero). Questa è la critica che fa in generale a Protagora e ai sofisti. Qui c’è una cosa che possiamo anticipare. Aristotele confuta ciò che viene dai sensi perché dai sensi vengono cose diverse, ma lui su che cosa si fonda, su cosa basa tutta la sua argomentazione? Sul fatto che i più pensano in un certo modo, cioè, sentono in un certo modo, e se i più pensano una certa cosa dobbiamo pensare che questa certa cosa sia vera; quindi, la pone come premessa maggiore di un sillogismo. Ma adesso vediamo nel dettaglio. 1009a 35. …in effetti è possibile che la medesima cosa sia, ad un tempo, i contrari in potenza, a non in atto. Che è quella cosa geniale che avevano pensato i logici della logica paraconsistente. 1009b 15. …anche Empedocle e Democrito e tutti gli altri, si può dire, sono caduti in questa convinzione. E, infatti, Empedocle afferma che, mutando lo stato fisico, si muta anche il pensiero: “In relazione alle cose presenti ai sensi, il senno aumenta negli uomini”, e in altra parte egli dice che “nella misura in cui gli uomini mutano, sempre diversi ad essi si presentano i pensieri”. Anche Parmenide dice la stessa cosa: “Come, infatti, ogni volta ha luogo la mescolanza nelle membra dei molteplici movimenti, così negli uomini si dispone la mente. Infatti è sempre il medesimo ciò che negli uomini pensa la natura delle membra, in tutti e in ciascuno. Il pieno, infatti, è il pensiero”. E di Anassagora viene riferita una affermazione fatta ad alcuni suoi discepoli, secondo la quale gli esseri erano per loro quali li ritenessero essere. Cioè, sono come io penso che siano, come voglio che siano. L’idea di Aristotele è che sia questo da combattere, e cioè che le cose siano a un tempo vere e false, e cioè ancora che la congiunzione A e non-A sia un teorema. Questo senza tenere conto che lui stesso afferma esattamente questo, cioè che A e non-A è un teorema. Non lo dice così, ovviamente, ma quando parla dell’entelechia o del sinolo, cioè dell’unione di potenza e atto, di materia e forma, dice lui stesso, se c’è l’atto non c’è la potenza, se c’è la potenza vuol dire che non c’è più l’atto; come dire che ciascuno dei due, da solo, esclude la presenza dell’altro, esclude la presenza anche se questa presenza è necessaria: l’atto non è niente senza la potenza. Ora, l’atto possiamo considerarlo come una A, la potenza come non-A, come ciò che si oppone all’atto, e, quindi, potremmo inferire, con relativa tranquillità, che potenza e atto sono due opposti – se c’è l’uno non c’è l’altro, che è quello che vuole la logica: se c’è A non deve esserci non-A. Quindi, ciò che lui stesso afferma, nell’impeto di voler confutare gli eleati e i sofisti in generale, nega ciò stesso che lui pone, e cioè che materia e forma coesistano necessariamente, anche se separati, perché la materia non è la forma e se c’è la forma non c’è più la materia, e viceversa. Questi due elementi si oppongono: l’uno è il negativo dell’altro, ma sono necessari entrambi, come a dire che A e non-A è un teorema. Eppure, lo nega quando sono altri a porlo. È una pratica molto comune ancora oggi, che viene messa in atto con estrema facilità. 1010a 15. Contro questo ragionamento noi diremo che ciò che muta, quando muta, fornisce loro qualche motivo di credere che esso non sia, ma che tuttavia questo è contestabile. Infatti, ciò che perde qualcosa, conserva sempre elementi di ciò che va perdendo e, insieme, deve già essere alcunché di ciò che sta diventando. E, in generale, se qualcosa è in via di corruzione, dovrà avere una certa realtà; e, se diviene, è necessario che esista anche ciò da cui diviene e ciò ad opera di cui diviene; ed è necessario, anche, che questo processo non vada all’infinito. Perché se va all’infinito non possiamo più fare niente. Su questo punto c’è tutta la discussione di Severino, dove conclude che, in effetti, il prodotto finale è altro da ciò da cui è partito, vale a dire, ciò da cui è partito non c’è più: nel suo esempio, la legna, diventata cenere, non c’è più e, quindi, la legna diventa ciò che non può essere, perché è altro da sé. Che poi qualcosa si perda necessariamente, questo non è poi così sicuro, Severino lo pone come una certezza, ma potrebbe essere discutibile. 1010b. Per quanto riguarda il problema della verità, dobbiamo dire che non tutto ciò che appare è vero. E qui c’è una breve nota di Reale. Questo argomento è inteso bene dal Bonghi. Questo argomento, dice Bonghi, è cavato non dalla natura dell’ente né da quella del soggetto senziente, ma bensì dalla natura del sensibile in quanto tale. Se tutta quanta l’essenza dell’ente sensibile consistesse nel carattere di sensibile senz’altro, è chiaro che mancando la condizione della sua sensibilità, che è una natura senziente in cui si faccia viva ed attuale, verrebbe del tutto meno l’ente stesso sensibile. Invece, se nell’ente sensibile oltre alla sensibilità ci ha, ed è l’essenza sua, quel tanto d’essere che ne è il sostrato, non mancherebbe l’ente stesso al mancare della natura senziente ma solo la sensibilità sua. Quindi, non viene a mancare, come invece vorrebbe Aristotele, la sostanza ma viene a mancare qualcosa che non viene più percepito, ma il fatto che non sia percepito non significa che non ci sia più, che sia scomparso. 1010b 15. Del colore giudica la vista e non il gusto, e del sapore giudica il gusto e non la vista. Ora, nessuno di questi sensi dice mai, nello stesso tempo, intorno alla stessa cosa, che essa è così e, ad un tempo, non così. Ma neppure in tempi diversi, almeno per quanto riguarda la qualità, un senso può essere in contraddizione con se stesso /…/ Per esempio, lo stesso vino può sembrare talora dolce e talora non dolce… Che non è neanche vero, ci sono degli alimenti che appaiono dolci e agri, dolci e salati a un tempo, ma ciò che vuole dire Aristotele è che il dolce, l’idea di dolce rimane dolce e questo non lo posso mutare. 1010b 30. E in generale, se esiste solamente ciò che è percepibile dai sensi, qualora non ci fossero esseri animati non potrebbe esserci nulla:… Non ha tutti i torti, ma lui sembra voler dire con questo che è impossibile …infatti, in tal caso, non potrebbero esserci sensazioni. Senonché è vero, forse, il dire che, in tal caso, non ci sarebbero né sensibili né sensazioni (le sensazioni sono, infatti, affezioni del senziente); ma è impossibile che gli oggetti che producono le sensazioni non esistano anche indipendentemente dalla sensazione. Infatti, la sensazione non è sensazione di sé medesima, ma esiste qualcosa che è altro dalla sensazione ed al di fuori della sensazione, il quale esiste, di necessità, prima della sensazione stessa. Infatti, ciò che muove è, per natura, anteriore a ciò che è mosso: e questo non è meno vero, anche se si afferma che la sensazione e il sensibile sono correlativi. Anche qui Aristotele va contro se stesso, nel senso che lui stesso dice che nel sinolo, la materia non c’è senza la forma, per cui perché ci sia la materia, cioè il primo, è necessario il secondo, cioè la forma; quindi, è il secondo che dà esistenza al primo. Pertanto, non è del tutto vero quello che dice qui, e cioè che muove per natura è primo. C’è una nota interessante che andiamo a leggere. Questa argomentazione è precipuamente diretta contro i disputatori eristici. Costoro fanno tutte le cose relative alla sensazione e all’opinione. Orbene, Aristotele istituisce il seguente dilemma: o si ammette in conseguenza delle premesse che nulla è stato, è e potrà essere se non c’è prima un soggetto che senta e opini, ovvero si ammette che qualcosa fu, è o sarà anche senza essere sentito o opinato. La prima tesi aristotelica Aristotele la dà semplicemente come assurda… Cioè: le cose ci sono anche se nessuno le percepisce. Resta, dunque, la seconda, ma allora se qualcosa può essere stato, essere ora o in futuro, senza essere sentito e opinato, ne consegue che non tutto è relativo all’opinione e che non si può ridurre il vero solamente a ciò che appare a ciascuno. Questa è una delle obiezioni di Aristotele più corrette: non possiamo ricondurre tutto alla sensazione – che sia così oppure no, questo è un altro discorso – cioè, pone l’esistenza di qualcosa che non sia necessariamente correlato con la sensazione. 1011a. Ci sono alcuni – tanto fra coloro che sono veramente convinti di queste cose, quanto fra coloro che sostengono queste dottrine solo a parole – che sollevano questa difficoltà: chi è colui che è in grado di giudicare quale uomo sia sano e, in generale, chi è colui che è in grado di giudicare rettamente intorno a ciascuna cosa? Queste difficoltà assomigliano alla questione se noi stiamo dormendo oppure se siamo desti. Tutte le aporie di questo genere accampano la stessa pretesa: coloro che le sollevano pretendono che ci sia una ragione di tutto. Vediamo la nota. Per fare l’esempio di Alessandro, ci sarà una proposizione intermedia tra la seguente vera, cioè Dione cammina, e la seguente falsa, Dione non cammina, e tale proposizione dovrà essere né vera né falsa, il che è assurdo. No, non lo è se si tiene conto di Zenone, perché se noi rallentiamo il movimento o lo moltiplichiamo all’infinito, che è la stessa cosa, a un certo punto in base a che cosa decidiamo se è fermo oppure in movimento? Qui ci si potrebbe avvalere dell’aporia della freccia: come facciamo a sapere se si muove se in ogni istante occupa uno spazio, che è quello che è? E di nuovo la questione di Achille e la tartaruga: lo vedo che si muove, ma in realtà non lo posso concettualizzare; quindi, lo so ma anche non lo so, quindi, è vero e non vero, al tempo stesso. È esattamente il contrario di ciò che dice Aristotele. 1011a 10. Infatti costoro cercano un principio, ed anche di tale principio pretendono che ci sia dimostrazione: ma che poi essi stessi non siano convinti che ci sia dimostrazione di tutto, lo provano chiaramente le loro azioni. Come già si è detto, il loro errore consiste in questo: essi cercano una ragione di quelle cose di cui non c’è ragione; infatti, il principio di una dimostrazione non può essere oggetto di dimostrazione. Il che è vero: non c’è un principio della dimostrazione. Ricordate la battuta di Wittgenstein: chi dimostrerà la dimostrazione? Chiaramente, la dimostrazione della dimostrazione va all’infinito. Ultima nota che possiamo leggere. Incontrovertibile smentita della tesi degli eleati. Colui che sostiene la tesi dell’immobilità del tutto (Parmenide e gli eleati) trova nella propria condizione di uomo che nasce e che muore la più netta smentita. Che è esattamente la questione di cui dicevo prima rispetto a Zenone, e cioè del movimento, del divenire. La questione è quella del divenire: come posso affermare che qualcosa diviene, che cioè vada da un punto a un altro? 1011b. E per questa ragione, è necessario dire a coloro che discutono non perché convinti della difficoltà ma solo per amore di discutere, che non ciò che appare in generale è vero, ma ciò che appare a questo dato individuo. E, come si è detto prima, essi devono, necessariamente, far relative tutte le cose: relative all’opinione e relative alla sensazione; cosicché nulla può essere stato e nulla potrà essere, senza un soggetto che prima opini. Ma se qualcosa fu o sarà (anche senza essere opinato), allora è evidente che non tutto sarà relativo all’opinione. Sì, se qualcosa fu o sarà (anche senza essere opinato), ma se non è così? Inoltre, se qualcosa è uno, esso deve essere tale relativamente a qualcosa di uno o di numericamente determinato; e se la medesima cosa è, insieme, e “metà” e “uguale”, essa non è certo uguale in relazione al doppio. E se, in relazione al soggetto che opina, “uomo” e “oggetto di opinione” sono la stessa cosa, allora non potrà essere uomo il soggetto che opina, ma solo l’oggetto opinato. E se ogni cosa esiste solo in relazione al soggetto opinante, a sua volta il soggetto opinante dovrà essere relativo ad una infinità di specie di cose. È esattamente quello che poi affermerà Hegel: quando dice che il soggetto e l’oggetto sono lo stesso, sta dicendo proprio questo; se il soggetto è uno e l’oggetto è l’infinito, è chiaro che il soggetto diventa infinito, e lo diventa nel momento in cui l’oggetto ritorna sul soggetto, cioè, fa questo movimento di Aufhebung.

Intervento: …

Sì, certo. Il principio di non contraddizione, così come lo ponevamo la volta scorsa, in effetti dice solo questo, che se dico, dico necessariamente qualcosa, non posso negare mentre dico che sto dicendo qualcosa. Questo è il principio di non contraddizione come principio primo, che è altro, come dicevamo, dal principio morale, cioè, non devi contraddirti perché la contraddizione è male. Come dicevo prima, non è altro che uno strumento per costringere altri a credere: è questo che chiamiamo verità. Che, dunque, la nozione più salda di tutte sia questa: che le affermazioni contraddittorie non possono essere vere insieme; e a quali conseguenze pervengano quanti affermano il contrario; e per quali ragioni sostengano questo, tutto ciò si è illustrato a sufficienza. E, poiché è impossibile che i contraddittori, riferiti a una medesima cosa, siano veri insieme, è evidente che neppure i contrari possono sussistere insieme nel medesimo oggetto. Infatti, uno dei due contrari oltre che contrario è anche privazione. Ora, la privazione è negazione di un determinato genere di proprietà della sostanza. Se, dunque, è impossibile, ad un tempo, affermare e negare con verità, è impossibile, anche, che i contrari sussistano insieme, a meno che non esistano in un certo modo, oppure che l’uno sussista in un certo modo soltanto e l’altro in senso vero e proprio. 1012a 15. Alcuni filosofi sono incorsi in questa convinzione nello stesso modo in cui sono incorsi in altre assurdità: non sapendo risolvere certe argomentazioni eristiche, cedono alle argomentazioni stesse e concedono che sia vero ciò che si è concluso. Alcuni, dunque, si fanno queste opinioni per questo motivo, altri, invece, perché vogliono cercare una ragione di tutto. A tutti costoro si risponde prendendo come punto di partenza la definizione. E la definizione c’è necessariamente, per il fatto stesso che essi devono dare un significato a ciò che dicono. La definizione infatti sarà, precisamente, la nozione di cui il nome è segno. Sembra che la dottrina di Eraclito, il quale dice che tutte le cose sono o non sono, faccia essere vere tutte le cose; invece quella di Anassagora, secondo la quale c’è un termine medio fra i contraddittori, fa essere false tutte le cose. Infatti, quando tutto è mescolato, il miscuglio non è né buono né non buono, e, di conseguenza, di esso non si può dir nulla di vero. Continua con le sue obiezioni. Dice che se qualcuno vuol dire qualcosa deve cominciare con il definire ciò che sta dicendo, cioè, dare un significato a quello che dice. Chiaramente, è soltanto dando un significato a qualcosa che è possibile la contraddizione. 1012b 5. Ma per confutare tutte queste dottrine bisogna, come si è detto nei precedenti ragionamenti, non pretendere che l’avversario dica che qualcosa è o non è, ma che dia significato alle sue parole, in modo che si possa discutere partendo da una definizione, e incominciando dallo stabilire che cosa significhi vero o falso. Ora, se ciò che è vero affermare altro non è se non ciò che è falso negare, è impossibile che tutte le cose siano false: infatti, è necessario che uno dei due membri della contraddizione sia vero. Inoltre, se è necessario o affermare o negare ogni cosa, è impossibile che tanto l’affermazione quanto la negazione siano, entrambe, false: una sola delle due proposizioni contraddittorie è falsa. Dunque, si parte dalla definizione, cominciando a stabilire che cosa significhi vero o falso. Aristotele glissa via facilmente perché, in effetti, come faccio a stabilire che cosa è vero e che cosa è falso se ancora non che cosa è vero, anzi, dovrebbe essere questo a dovermi dire che cosa è il vero. Lui la dice così se ciò che è vero affermare altro non è se non ciò che è falso negare, ma non sta dicendo niente, non ci sta dicendo che cos’è vero e che cosa è falso. Non può farlo finché non stabilisce che cosa è il vero; ma per poterlo stabilire deve già sapere che cosa è il vero, e così via all’infinito. Tutte queste dottrine cadono, poi, nell’inconveniente di distruggere se medesime. Infatti, chi dice che tutto è vero, viene ad affermare come vera anche la tesi opposta alla sua; dal che consegue che la sua non è vera (dato che l’avversario dice che la tesi di lui non è vera). E colui che dice che tutto è falso, viene a dire che è falsa anche la tesi che egli stesso afferma. E se vorranno ammettere eccezioni, l’uno dicendo che tutto è vero tranne la tesi contraria alla sua, l’altro che è tutto falso tranne la propria tesi, saranno, cionondimeno, obbligati ad ammettere infinite proposizioni vere e false: infatti, colui che dice che una proposizione vera è vera, afferma un’altra proposizione vera, e così procederà all’infinito. È evidente, poi, (a) che non dicono il vero né coloro i quali affermano che tutto è in quiete, né coloro che dicono che tutto è in movimento. Se, infatti, tutto è in quiete, le medesime cose saranno sempre vere e sempre false;… Se tutto è fermo, allora posso dire che è vero e, quindi, tutto è vero; se tutto è in movimento, in divenire, tutto è falso. …è evidente, invece, che le cose mutano: la stessa persona che sostiene questa tesi, un tempo non esisteva e, di nuovo, in seguito non esisterà. Se, invece, tutto è in movimento, nulla sarà vero, e quindi tutto sarà falso; ma si è dimostrato che ciò è impossibile. Inoltre, necessariamente, ciò che muta è un essere: il mutamento, infatti, ha luogo a partire da qualcosa e verso qualcosa. (b) E neppure è vero che tutto sia talvolta in quiete e tal altra in movimento, e che non esista nulla di eterno. C’è qualcosa, infatti, che sempre muove ciò che è in movimento, e il motore primo è, di per sé, immobile. È il suo motore immobile. Però, lo enuncia, non lo dimostra. Dice che deve essere così, ma non si esattamente per quale motivo. C’è ancora, però, una cosa che mi era sfuggita. Questa è una cosa importante perché quella su cui si regge buona parte della teorizzazione di Aristotele: l’μπειρα, l’esperienza. Tutta la teorizzazione di Aristotele si fonda sull’esperienza, perché lui vuole, rispetto a Platone, recuperare la materia. Dice, dunque, Reale. In che cosa consiste l’errore di coloro che pretendono dimostrazioni ad oltranza? L’errore consiste nel fatto che costoro pretendono che si dia ragione anche di ciò che è evidente. Si tratta, quindi, di difficoltà che si risolvono semplicemente in base all’evidenza. Qual è il problema? Il problema è che Protagora, ma non solo lui, gli contesta esattamente questo, che l’evidenza è la mia e non quella di Cesare. E, allora, Aristotele vuole confutare Protagora affermando esattamente ciò che Protagora nega, e questa non è una confutazione, è semplicemente un dire contro, un dire di no a Protagora. Se Aristotele dice che è l’evidenza il criterio fondamentale, l’evidenza è proprio ciò che Protagora, gli eleati e i sofisti negano, perché non c’è un’evidenza assoluta, universale, ma l’evidenza è sempre tale per qualcuno. Il principio in quanto tale è di per sé evidente, quindi, non postula alcuna dimostrazione. Si ricordi, inoltre, la dottrina aristotelica, negli Analitici posteriori, secondo cui la indimostrabilità dei principi è necessaria proprio perché ci siano dimostrazioni. Infatti, se si dimostrassero i principi, dai principi si dovrebbe risalire a ulteriori principi e si andrebbe così all’infinito, il che significherebbe la pura eliminazione di ogni dimostrazione. Che è esattamente quello che sostengono gli eleati e i sofisti, in generale. Quindi, non confuta per nulla, semplicemente dice che non è così. Quale evidenza? Perché è proprio questo, che non c’è evidenza che gli eleati affermano, mentre è ciò che lui pone come criterio, come principio fondamentale, che è esattamente quel criterio che i sofisti negano. L’evidenza è ciò che si vede immediatamente, come anche l’etimo suggerisce, è il fenomeno, ciò che si vede. Ma è tutta la discussione che facevano gli eleati e i sofisti intorno a chi vede; chi vede ha una sua visione delle cose. A questo riguardo è famoso il dialogo di Platone Sofista, dove c’è un forestiero (l’eleate) il quale richiesto da Teeteto di dire se vede un certo albero davanti a loro risponde: “No, io non lo vedo, ma se tu me ne parli, allora lo vedrò”, come dire, se tu me ne parli allora avrò qualche cosa per sapere cosa tu stai vedendo, perché quello lì, che tu mi indichi, non lo vedo. Questo per dire che non è una questione da poco. Aristotele vuole che ci sia qualcosa di fermo, di fisso, che ci sia la materia. Si inventa questa materia ma, una volta inventata, non sa cosa farne, non sa come gestirla perché non è se non ha forma. E, quindi, sembra ritornare a Platone, ma è la cosa che lui più detesta al mondo; quindi, deve fare di tutto per non dire le cose che diceva Platone, e, quindi, si inventa questa materia, che poi diventa il sinolo. Il sinolo, come unione di materia e forma, o l’entelechia, come unione di potenza e atto, non è altro che l’essenza e l’essenza è anche l’εδος, l’idea, il pensiero, cioè, l’essere. L’essere è il pensiero, esattamente come diceva Parmenide: essere è pensare. Sembrano tutti tentativi, soprattutto qui in Aristotele, di uscire da qualcosa che altri hanno visto ma che non collima con quello che lui vuole dire, e ciò che lui vuole dire è qualche cosa di diverso da ciò che hanno detto altri. E, in effetti, come abbiamo visto, le sue confutazioni degli eleati e dei sofisti non confutano proprio niente, tutto rimane esattamente così com’è. Lui dice semplicemente: che cosa è vero? Ciò che non è falso. Platone ha detto qualcosa che forse non è stato visto e che noi potremmo cavare fuori, direbbe Reale. L’idea di Platone come una metafora, che stia nell’iperuranio è un modo per dire che non è immanente, che è trascendente, qualcosa che non si vede e non si tocca, ecc., cioè, il significato. Quindi, dicendo che le cose immanenti sono poca cosa, irrisorie, e che ciò che conta veramente è l’idea, ci sta dicendo che ciò che importa non è il significante ma il fatto che il significante rinvia a un significato. Questo significante, cioè, la cosa immanente, non c’è senza il significato, cioè, senza la sua idea, e, quindi, che le cose sono in quanto significati, in quanto idee, in quanto posso pensarle, cioè, posso dirle. Nessuno ha mai letto Platone in questa maniera, però potrebbe ricavarsi dai suoi scritti. Potrebbe essere interessante perché, in effetti, mostra una prossimità a ciò che andiamo dicendo e facendo, che è maggiore addirittura rispetto a quella di Aristotele, e cioè non ci sono le cose ma c’è il mio dire le cose, cioè il significarle, il mio pensarle. Gentile era sul pensiero, ma quando dice che qualunque cosa io pensi non faccio altro che pensare il mio pensiero, sta dicendo qualcosa di molto simile a ciò che dice Platone: sto pensando la mia idea, è il linguaggio che si sta dicendo, è questo che sta accadendo. La verità non è ciò che il mio dire dice, il contenuto di ciò che sto dicendo, che è assolutamente aleatorio e impossibile da stabilire; l’unica verità è che affermando qualcosa sto affermando qualcosa. Che cosa sto affermando, come si sarebbe detto una volta, è nelle mani di Dio. Che non sono buone mani… La prossima volta leggeremo il Libro Δsui princìpi. I princìpi sono importanti, il principio di non contraddizione per es. è un principio, è quello che serve a stabilire la verità, quindi a stabilire il bene, quindi a stabilire a cosa ciascuno deve tendere, intendendo la verità come l’abbiamo definita pima, e cioè come ciò che deve essere creduto dai più. Quindi, per dovere essere creduto deve prima potere essere creduto e, quindi, occorre una nozione di verità, ben salda: che la verità sia tutto ciò che non è falso.