INDIETRO

 

 

8 agosto 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 430. Il prossimo compito concreto è interrogarci risalendo dal λόγος al fondamento della sua possibilità… Questa è la domanda che si pone Heidegger: come è possibile che parliamo? Come si fa? Cosa succede quando si parla? …e precisamente prendendo l’avvio dal λόγος nella sua intrinseca struttura essenziale ora chiarificata. … L’esempio formale del λόγος semplice è: a è b. Eppure, abbiamo con ciò la struttura essenziale del λόγος? Ciò che abbiamo stabilito è una forma determinata del λόγος, cioè: l’esempio di una κατάφασις (di un’affermazione) e – come supponiamo – un άληθεΰειν (un’affermazione che dice il vero), dunque la forma dell’asserzione vera positiva. Dunque, abbiamo questo, ma questo è un caso, non è il λόγος. Nella logica, quando si tratta del λόγος, della proposizione, del giudizio, questa forma è sempre la forma esemplare, se non addirittura l’unica. Come dire che tutte le affermazioni si risolvono in questa formula, a è b, qualunque sia l’affermazione. Ma accanto ad essa vi è anche l’asserzione vera negativa, e inoltre quella falsa positiva e quella falsa negativa. Di conseguenza dobbiamo tener conto anche di queste. A pag. 431. L’essenza del λόγος consiste proprio nel fatto che in esso, in quanto tale, è insita la possibilità del “o vero o falso”, del “sia positivo sia negativo”. Proprio la possibilità di tutte queste modalità di variazione, determinate sommariamente, è l’essenza intrinseca del λόγος. Quindi, non è che è prima ci sia il λόγος e, poi, il fatto che possa essere vero o falso, ma è perché c’è qualcosa che può essere così oppure no che c’è il λόγος, il discorso. Questo non è semplice da intendere bene, perché verrebbe da pensare: come fa una cosa del genere essere prima del λόγος? E adesso ce lo illustra. Solamente se coglieremo questo, avremo raggiunto il luogo per effettuare il balzo a partire dal quale risalire all’origine. Il λόγος non è una qualche configurazione sussistente che si presenta ora in questa, ora in quella forma, bensì è, per sua essenza, questa possibilità dell’uno oppure dell’altro. Possiamo dirla così: λόγος come apertura verso una possibilità. Diciamo: è una facoltà di… Con “facoltà” intendiamo sempre la possibilità di una condotta in-rapporto-a, cioè la possibilità di un rapporto con l’ente in quanto tale. Il λόγος è una facoltà, cioè è in se stesso il disporre di un riferirsi all’ente in quanto tale. Qui c’è la questione essenziale: il λόγος è una disponibilità, è un disporre di un riferirsi all’ente in quanto tale, un’apertura verso l’ente. A pag. 433. …è necessario vedere che l’essenza più profonda del λόγος consiste nel fatto che esso è in sé la possibilità di questo “aut-aut” del poter essere vero o falso, sia nella modalità dell’addire, sia in quella del disdire (affermare o negare). Solamente se impostiamo la questione intorno al fondamento della possibilità del λόγος in modo tale da interrogarci intorno all’esser resa possibile la sua intima essenza, cioè la facoltà dell’“aut-aut” dell’esser vero o essere falso, avremo la sicurezza di poter veramente scandagliare il fondo del λόγος nella sua struttura essenziale. Ci sta dicendo che qui c’è qualche cosa che rende il discorso quello che è, e cioè la possibilità di affermare o di negare. Il discorso è ciò che si costruisce a partire da questa possibilità di affermare o negare qualcosa, cioè di accogliere l’ente o di rigettarlo, dire che è oppure non è. A pag. 436. Il λόγος άποφαντικός in quanto asserzione è certo nella possibilità dell’esser-vero o esser-falso, ma questo modo di esser vero, di divenire-manifesto, si fonda in una manifestatività che noi, poiché viene prima della predicazione e dell’asserzione, definiamo manifestatività pre-predicativa o meglio verità pre-logica. La verità pre-logica sta nella manifestatività dell’ente. Questa è la verità pre-logica, pre-logica perché fino a quando non si manifesta qualcosa io non posso dire niente. Occorre che si manifesti, solo allora posso dire che è vero, che non è vero, che è brutto, ecc. Quindi, la manifestatività è il primo aspetto. “Logico” qui è inteso in senso molto ristretto, che concerne il λόγος άποφαντικός nella forma che abbiamo interpretato. Cioè, la parola che si manifesta. In riferimento a questo c’è una manifestatività che viene prima di esso, prima di esso nel senso determinato che questa manifestatività originaria dà fondamento alla possibilità dell’esser-vero e dell’esser-falso del λόγος, fondandolo anticipatamente rispetto ad esso. Come dicevo, se non si manifesta l’ente, di che cosa dico che è vero o che è falso? Non posso dire nulla. Inoltre abbiamo visto: l’asserzione si esprime, anche se non sempre in questa forma linguistica, nell’“è” dell’essere, e questo essere mostra innanzitutto e per lo più un’indifferenza e universalità di significato. Qualcosa è, non si sa che cosa ma “è”. Ormai risulta chiaro: l’asserzione non addice l’essere all’ente sul quale asserisce qualcosa, l’ente sul quale ha luogo l’asserzione non riceve nemmeno il suo carattere ontologico per mezzo dell’“è”, bensì, al contrario, l’“è” in tutta la molteplicità e determinazione relativa, si rivela sempre e soltanto come espressione di ciò che l’ente è, si come è, e di se è. Pertanto l’essenza dell’essere nella sua molteplicità non può affatto venir dedotta dalla copula e dai suoi significati. Questo è interessante. Uno dice “questo è quello”. No, sta dicendo Heidegger, non possiamo dedurre l’essenza dell’essere dal fatto di dire che una certa cosa è quella lì. È necessario piuttosto il ritorno al luogo a partire dal quale parlano ogni asserzione e la sua copula, l’ente stesso già manifesto. Su questo insiste molto Heidegger: l’ente deve essere già manifesto. Come accade che l’ente sia già manifesto prima che esista il λόγος, prima del discorso? Questa è, ovviamente, una questione ardua, perché prima del λόγος è come dire prima della parola, però, poi di fatto non è così perché, se torniamo al punto in cui Heidegger fa la differenza tra l’animale e l’umano, che cosa lo distingue? Beh, il fatto che l’animale non parla, non ha la parola. È questo che consente all’umano di cogliere l’ente in quanto ente. Come dire che soltanto perché c’è la possibilità di una distanza, come direbbe Peirce, che il segno instaura, allora è possibile dire che qualcosa sia, perché c’è una distanza tra me e quella cosa. A pag. 437. Il λόγος άποφαντικός come la facoltà che abbiamo caratterizzato indica perciò in direzione di una manifestatività dell’ente in quanto tale che viene prima di ogni asserire. Qui è già più cauto: viene prima non del λόγος ma di ogni asserzione. Infatti, dicevamo: per asserire qualcosa ci deve essere qualcosa. Si delinea la questione: questa manifestatività pre-logica dell’ente in quanto tale è l’originario fondamento della possibilità della sovracitata facoltà, e si mostra in questo fondamento quanto Aristotele aveva già presagito parlando della σύνθεσις e della διαίρεσις? Se questa manifestatività originaria dell’ente è più originaria del λόγος, ma il λόγος è una condotta dell’uomo, dov’è dunque questa manifestatività originaria? Certo non fuori dall’uomo, bensì è proprio l’uomo stesso in un senso più profondo, egli stesso nella sua essenza. Questa essenza è stata indicata sotto forma di tesi: l’uomo è formatore di mondo. dove si trova la manifestatività, e in che cosa consiste? Ora consideriamo finora a questo punto: se il λόγος άποφαντικός risale a un qualcosa di più originario quanto alla sua possibilità intrinseca, e se questo elemento originario è in una qualche connessione con quanto chiamiamo mondo e formazione di mondo, giudizi e proposizioni non sono in sé, in senso primario, formatori di mondo, sebbene appartenenti alla formazione di mondo. il λόγος è una facoltà, caratterizzata dall’“aut-aut” del disvelare-velare nel mostrare. Dunque già prima del compimento e per il compimento di ogni asserzione deve essere possibile nell’uomo che asserisce, un essere aperto per l’ente stesso sul quale di volta in volta giudica. Che cos’è l’essere aperto se non il progetto? La facoltà in quanto tale deve pertanto essere in sintona con l’“aut-aut” dell’adeguatezza e inadeguatezza all’ente del quale si discorre nel λόγος. Questo esser-aperto dell’uomo per l’ente stesso, che può divenir oggetto e tema dell’asserzione, non è la sussistenza di un vuoto profondo che può venir riempito, che si presenta nell’uomo a differenza che nelle cose e nella loro determinatezza, bensì: questo esser-aperto per l’ente come esso è, esser-aperto che sorregge mediante il λόγος, porta con sé in quanto tale la possibilità della vincolabilità mostrante attraverso l’ente. Qui c’è una questione complessa, cioè, il fatto che questo ente mostrandosi vincola. Perché vincola? Perché, nel momento in cui si mostra l‘ente, io, che sono un altro ente, sono modificato da questo ente che si mostra. Pertanto, sono vincolato, e quando asserisco qualcosa lo sono ancora di più, sono vincolato dalla mia asserzione, che afferma “a è b”. A pag. 438. Ma la manifestatività pre-predicativa deve non soltanto, in generale, già sempre accadere ed essere accaduta, se l’asserzione mostrante – in un modo oppure nell’altro – deve poter venir compiuta, questa manifestatività pre-predicativa deve essere essa stessa un accadimento tale che in esso accada un lasciar-si vincolare determinato. Qui introduce questo termine: l’accadere (Ereignis). Nel prosieguo del suo pensiero parlerà sempre meno dell’esserci e sempre più dell’evento, di ciò che accade. Il progetto è qualcosa che accade e poi delle cose accadono nel progetto. Questo accadere delle cose, che può apparire miracolistico, in effetti, in Heidegger non è molto ben precisato, perché la domanda, a questo punto, è: come le cose possono accadere, com’è che accade qualcosa? Certo, perché c’è il progetto, ma il progetto, a sua volta, è un accadere, quindi, c’è già un accadere. È ovvio che ciò che manca qui, come direbbe lui, è un’apertura più radicale verso la questione del linguaggio, cioè, qualcosa può accadere perché il linguaggio, una volta che si è instaurato, ha a sua volta instaurato una possibilità di distanza dalle cose, distanza che non è che il linguaggio propriamente instauri ma che crea, e per cui possono accadere le cose. Senza linguaggio non accade niente. Heidegger stesso lo diceva a proposito degli animali: lì non accade nulla, l’animale è queste stese cose, non si pone nemmeno la questione, ovviamente. Potremmo dire che per l’animale non accade niente; per l’uomo, sì, e accade perché c’è questa distanza per cui l’ente è in quanto ente. A pag. 441. Riprende l’esempio della lavagna che si trova in una posizione sfavorevole. La posizione sfavorevole. Certo, questo l’abbiamo già stabilito, e abbiamo persino spiegato perché questa sussista. Ma è stata proprio la saccente intelligenza di tale spiegazione a fuorviarci. Certo, penseremo, è meraviglioso come abbiamo proceduto filosoficamente quando abbiamo posto in evidenza come la posizione sfavorevole della lavagna non spetti a questa in sé, ma soltanto in virtù del suo esser riferita a chi legge e a chi scrive. Eppure anche questa spiegazione – a prescindere dal fatto che, in generale, ci svia dal cammino della ricerca – è già artificiosa. Infatti la posizione sfavorevole della lavagna è proprio una qualità della lavagna stessa – anzi, una qualità ben più oggettiva del suo colore nero. Infatti la lavagna non sta in una posizione sfavorevole, come può ritenere un’interpretazione affrettata, in riferimento a noi, le persone che di fatto sono presenti qui, bensì: la lavagna sta in una posizione sfavorevole in quest’aula. Però, se ci immaginiamo l’aula con il pavimento non in salita e cioè come una sala da ballo, allora a lavagna starebbe in una posizione favorevolissima in un angolo, fuori dalla porta. A ben guardare, non soltanto starebbe in una posizione favorevole, ma sarebbe completamente superflua. Questa lavagna sta in sé in una posizione sfavorevole in questa sala, che è un’aula che fa parte del palazzo dell’università. La posizione sfavorevole è proprio una qualità di questa lavagna stessa. Non le spetta perché uno ascoltatore che si trova a destra la vede male. Infatti anche chi vi siede direttamente dinanzi deve asserire: la lavagna sta in una posizione sfavorevole (cioè nell’aula), starebbe meglio là dove per buone ragioni viene collocata abitualmente, nel mezzo dietro la cattedra. Sta dicendo che questo aspetto della lavagna è veramente la sua qualità, e non il fatto di essere nera, di essere fatta di ardesia, no, ma di essere in una posizione sfavorevole, è questa la sua qualità, in questo momento e per me che la guardo. Vedete come l’esistenza della lavagna partecipa direttamente e imprescindibilmente dal mio progetto, progetto che è quello di guardare la lavagna mentre qualcuno scrive. È questo quello che fa della lavagna “quella” lavagna, perché non c’è “la” lavagna ma c’è quella lavagna che per me è in una posizione sfavorevole, e questo essere in una posizione sfavorevole è la sua qualità principale. A pag. 442. Grazia all’asserzione “la lavagna sta in una posizione sfavorevole” non otteniamo per la prima volta la manifestatività dell’aula; piuttosto quest’ultima è la condizione di possibilità perché la lavagna possa in generale essere ciò su cui esprimiamo giudizi. L’aula è la condizione per cui è possibile dire che la lavagna è in una posizione sfavorevole. In questo giudicare apparentemente isolato e su una cosa determinata, ci esprimiamo in realtà già a partire da una manifestatività che, come possiamo dire provvisoriamente, non è soltanto una molteplicità, bensì qualcosa nella sua totalità. Altra cosa importantissima questa in Heidegger. Questa lavagna, che sta nell’aula, è perché è nell’aula che è in una posizione sfavorevole, ed è proprio per via di questa posizione sfavorevole che la lavagna muove a delle asserzioni, a dei giudizi. Quindi, considera tutta la questione nella sua totalità, non esiste più la lavagna in quanto tale, esiste in quanto è nel progetto, esiste in questo caso in una posizione sfavorevole. Questo, il fatto che noi, in ogni singola asserzione, per quanto banale e complicata possa essere, ci esprimiamo a partire da un ente manifesto nella sua totalità… Vedete, qui si intende bene, ente manifesto nella sua totalità, la lavagna che si manifesta nella sua totalità, l’ente non è isolato né isolabile, è nella sua totalità, cioè nell’aula, nell’università, con me che lo guardo, che voglio fare delle cose, con me che do dei giudizi, tutto ciò è la totalità. La lavagna esiste come ente in questa totalità, o non esiste affatto. …e questo “nella sua totalità”, la totalità dell’aula, che già comprendiamo, non risulta a sua volta da un mostrare tipico dell’asserzione, bensì: le asserzioni possono sempre e soltanto venir poste all’interno di ciò che è già manifesto nella sua totalità. Quindi, io mai asserisco qualcosa sulla cosa avulsa dalla sua totalità, dal mondo – infatti, Heidegger definisce il mondo come la totalità dell’ente – ma io posso asserire qualcosa soltanto e quando l’ente mi si manifesta nella sua totalità, cioè nel mio mondo, cioè nel mio progetto; lì si manifesta qualche cosa. Questo già sposta un po’ la questione. Heidegger parlava prima di pre-logico. Sì, certo, ma sta dicendo anche che perché qualcosa si manifesti deve appartenere al mondo, alla totalità dell’ente. Questo richiama immediatamente quello che diceva de Saussure, e cioè il significante è tale perché è in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Come dire: il significante è quello che è perché è preso nella totalità dell’ente. Viene dunque in luce che, perché sia possibile compiere un’asserzione, non soltanto è necessario che questa si dia da sé la possibilità di un esser-vincolante, e che non soltanto ciò su cui giudica deve essere in precedenza concepito e colto in quanto ente, ma che, altrettanto necessariamente, ogni asserzione parli già a priori penetrando in una manifestatività nella sua totalità, e al contempo provenendo da una tale manifestatività. Quindi, si parla e si giudica soltanto a partire da qualche cosa che si manifesta perché può manifestarsi, perché preso nella totalità dell’ente. A pag. 443. Dunque, il λόγος, in sé e per sé, ha bisogno di questo campo d’azione dell’adeguabilità e dell’inadeguatezza. Vale a dire, che sia adeguato al mondo in cui è inserito. Ogni condotta asserente viene preceduta, in direzione di ciò su cui si fanno asserzioni, da una condotta tale che ha il carattere del portarsi-incontro di un esser-vincolante, a partire dal quale sono poi possibili adeguatezza e inadeguatezza, adæquatio nell’ultimo senso. Il primo momento che sta a fondamento del λόγος è questo portarsi-incontro di un esser-vincolante. Qualcosa si porta incontro a qualche cosa che mi vincola. Il secondo momento abbiamo cercato di avvicinarlo grazie all’analisi concreta di un esempio determinato: questa lavagna sta in una posizione sfavorevole. Che cosa vuol dire qui? Il fatto che questa lavagna “è” in quanto è in una posizione sfavorevole, è questo il suo essere, la sua essenza, che non certamente quella di essere fatta di ardesia, per esempio. …abbiamo attribuito importanza all’accertamento di ciò che viene inteso in questa cosiddetta qualità, mostrando come ciò che qui attribuiamo alla lavagna non sia soltanto una qualità relativamente a noi, osservatori e giudici, e come questa qualità sia invece assolutamente obiettiva, cioè una qualità che spetta a questo oggetto specifico in quanto tale, se soltanto lo vediamo esplicitamente nella sua vera oggettività, in relazione alla quale emettiamo un’asserzione quando affermiamo: la lavagna sta in una posizione sfavorevole. Sta dicendo che questa è la vera oggettività, non la materia di cui è fatta e tutte le altre proprietà di cui, per esempio, ci parla la scienza. La mera oggettività sta nel fatto che l’ente si manifesta all’interno di una totalità degli enti. A pag. 445. Ma, al tempo stesso, in quel modo di dire “di fronte a tanti alberi non vedere la foresta” notiamo la grande difficoltà dinanzi alla quale ci troviamo. Infatti – per restare nella metafora – non dobbiamo solamente vedere la foresta e in quanto tale, bensì dobbiamo anche dire che cosa è e come è. Naturalmente dobbiamo guardarci bene dall’interpretare il mondo in analogia con la foresta. L’importate è solo questo elemento decisivo: in riferimento ai singoli alberi e alla loro somma la foresta è qualcosa d’altro, e di conseguenza neppure semplicemente qualcosa che, arbitrariamente, pensiamo in aggiunta alla somma di alberi che presuppone data come elemento unico, la foresta non è soltanto quantitativamente di più di una somma di molti alberi. Questo qualcosa d’altro non è però nulla che sia sussistente accanto ai molti alberi, ma ciò a partire dal quale i molti alberi appartengono a una foresta. Anche in questo caso, l’ente che mi appare come una foresta, il fatto di apparirmi come foresta comporta che questa foresta sia un ente preso nella totalità degli enti. Il fatto, poi, che sia fatta di molti alberi, questo è irrilevante; un po’ come nell’esempio della lavagna: che sia fatta di ardesia, che ci siano i gessetti, ecc., non sono queste cose a rendere l’oggettività della lavagna, l’oggettività della lavagna è data da come si manifesta all’interno del mondo in cui mi si manifesta. Questa è l’oggettività, non ce n’è un’altra, e questo è importantissimo in Heidegger, perché sovverte tutto il modo di pensare del discorso occidentale, per il quale quella cosa è quella che è nel modo della metafisica, che la veda io o un altro è sempre la stessa. No, l’oggettività della lavagna è il modo in cui lei la vede, qui e in questo momento. Questo è anche ciò che Heidegger intende come evento: l’accadere di qualcosa che si manifesta a me, qui, adesso, nella totalità degli enti.

Intervento: Viene da pensare che per Heidegger l’evento sia essenziale mentre per la metafisica sia contingente…

Sì, possiamo dire così. Non è un accidente, certo. Infatti, dice che quella è l’oggettività, mentre per la metafisica l’oggettività sarebbe data da quell’altra cosa, fissa e immobile, rispetto alla quale questo sarebbe un accidente. A pag. 446. Il ritorno nella dimensione originaria del λόγος άποφαντικός rivela dunque come risultato una connessione strutturale ricca e in sé articolata, che manifestamente definisce un accadimento fondamentale nell’esser-ci dell’uomo che fissiamo con i tre momenti: 1. Il portarsi-incontro dell’esser-vincolante (il qualcosa che mi viene incontro e mi vincola); 2. L’integrazione (la sintesi, cioè, questo elemento viene integrato perché diventa il mio mondo); 3. Lo scoprimento dell’essere dell’ente. Qual è l’essere dell’ente? Il fatto di essere quello che è, in questo momento, nel mio progetto, in relazione a tutti gli altri enti, di cui lui è fatto e io sono fatto, e del modificarci l’un l’altro. Tutte queste sono l’essere e il terzo punto è lo scoprimento dell’essere dell’ente. Da questi tre momenti viene caratterizzato un accadimento fondamentale unitario nell’esser-ci dell’uomo, a partire dal quale soltanto e sempre scaturisce il λόγος. Adesso diventa più chiara la questione del λόγος. C’è un qualche cosa che si manifesta, che mi si porta innanzi e che in qualche modo mi modifica. A questo punto io posso scoprire che l’essere dell’ente è questo mondo, in cui io mi trovo e in cui l’ente, che mi viene incontro, si trova e che lo fa esistere per me così come appare. È a questo punto, dice Heidegger, che scaturisce il λόγος. Ciò che mi appare, ciò che io vedo, com’è? Perché è lì che incominciano i giudizi: qualche cosa prima mi deve apparire; se non c’è prima l’ente, il λόγος su che cosa valuta, su che cosa chiacchiera? Quindi, qualche cosa deve apparire, e noi sappiamo che appare perché c’è il linguaggio. Heidegger stesso notava che per gli animali non appare e non accade niente. Lui, certo, intende il λόγος come ratio, come discorso raziocinante, sì, certo, però il λόγος è sempre comunque un giudizio sulle cose. A questo punto sappiamo perché ci sono cose su cui giudicare, perché qualcosa è apparso, ed è potuto apparire perché io, in quanto ente parlante, sono aperto verso il mondo. C’è questa apertura fondamentale che è il mio progetto che, in definitiva, non è altro che la volontà di cambiare il mondo, cioè, la volontà di potenza. L’apertura fondamentale, quella che consente agli umani di approcciare il mondo, è la volontà di potenza. È per questa volontà di potenza che ha un progetto; come dicevamo, un progetto è sempre un progetto di potenza, ed è per questo che vuole modificare le cose. Per un animale il problema non si pone. A pag. 447. Ma questo accadimento fondamentale, che deve rendere possibile il λόγος, - ha ancora qualcosa a che fare con ciò che Aristotele menziona come condizione di possibilità e, di conseguenza, come origine del λόγος άποφαντικός, con la σύνθεσις- διαίρεσις, ovvero con la σύνθεσις che si esprime nell’“è” della copula? È la questione dell’“in quanto”. Certo, l’accadimento fondamentale ha ancora a che fare con questo, perché è proprio questa “è” della copula, questa “è” dell’“in quanto”, che è ciò che mi consente di cogliere ciò che accade come ciò che accade effettivamente, accade in quanto questo. Ma questa “è”, questo “in quanto”, è già un giudizio; a è b, è già un giudizio, ed essendo un giudizio prevede che qualche cosa si sia già manifestato, cioè, prevede la manifestatività dell’ente. L’ente può manifestarsi perché c’è il linguaggio, perché c’è la volontà di potenza; senza questo non solo non si manifesta nulla ma non si sarebbe mai manifestato nulla. A pag. 449. Abbiamo tentato quanto abbiamo fissato ancora una volta nel quarto punto attraverso una duplice impostazione: anzitutto, senza orientarci su una questione metafisica determinata, destando uno stato d’animo fondamentale del nostro esser-ci (Se ricordate, da lì noi eravamo partiti), e cioè tentando di trasformare l’esser-uomo di noi uomini, di volta in volta, nell’esser-ci di noi stessi. Questo dovrebbe fare lo stato d’animo fondamentale: trasformare gli uomini in qualcosa di più essenziale, cioè, nel nostro fondamentale esser-ci. L’esser-ci non sarebbe nient’atro che il terzo punto di cui parlava prima: lo scoprimento dell’essere dell’ente, vale a dire, lo scoprimento dell’esser-ci, lo scoprire che io sono il mondo di cui sto parlando, che sono queste cose di cui mi sto interessando, che sto giudicando: io sono queste cose, non sono altro. In tale accadimento (la formazione di mondo) deve dunque venir afferrato concettualmente il “mondo”. ora è dunque necessario cogliere unitariamente questo accadimento fondamentale, e al tempo stesso determinare a partire da esso, come accadimento della formazione di mondo, in modo diretto e positivo, l’essenza del mondo. Aveva già definito il mondo, e cioè come la manifestatività dell’ente nella sua totalità. A pag. 50 fa un’annotazione interessante. Ogni osservare (la scienza) – in un modo oppure nell’altro – rimarrà eternamente lontano da ciò che è mondo, in quanto la sua essenza si fonda su ciò che chiamiamo il prevalere del mondo, il prevalere, che è più originario di ogni ente che si impone. Questa è un’altra questione importantissima. Sta dicendo che ogni osservare della scienza è lontanissimo dall’avere inteso qualunque cosa. Ciò che a noi interessa è esattamente questo: preparare l’ingresso nell’accadere del prevalere del mondo. Perché dice preparare? Preparare qui significa: uscire dalla chiacchiera, in prima istanza; accorgersi di esser-ci, cioè, di essere nel mondo, di essere il mondo in cui mi trovo. E il prevalere del mondo, cosa vuol dire? È il prevalere della totalità degli enti, dell’ente, della sua totalità, dalla quale non posso uscire. È il prevalere, per tornare a de Saussure, del significante in quanto relazione differenziale con tutti gli altri significanti. La manifestatività pre-logica… Questa manifestatività è pre-logica. Come abbiamo visto, il λόγος interviene per giudicare su ciò che è apparso. A pag. 451. λόγος, ratio, ragione sono ciò che ha dominato la problematica globale della metafisica proprio in vista del problema del mondo… Sapere come è il mondo, sapere come lo si manipola, come si organizza, come lo si domina: l’obiettivo è sempre e soltanto questo, sennò non ci sarebbe nessun motivo per fare alcunché. … che però non è venuto in luce. Se vogliamo liberarci di questa tradizione (quella della metafisica), questo non significa allontanarla in qualche modo e lasciarla alle nostre spalle: una liberazione da qualcosa è autentica e pura, solamente se domina ciò di cui si libera, se se ne appropria. Qui c’è molto della cosiddetta “tecnica” psicoanalitica. Lo stesso Freud diceva che, finché una persona non accoglie le cose che vuole rigettare, che ha rimosse, finché non fa questo, non va da nessuna parte. È esattamente quello che sta dicendo Heidegger rispetto all’esser-ci: devo accogliere il problema che viene in luce quando voglio intendere che cos’è il mondo, che cos’è la totalità dell’ente. Ma per questo grande passo, che secondo la nostra convinzione, la metafisica ha da compiere per il tempo futuro, non sono sufficienti una qualche intelligenza e acutezza, o delle scoperte filosofiche che pensiamo di aver fatto, bensì, se in generale comprendiamo qualcosa di questo compito, il fatto che esso è possibile solamente in virtù di una trasformazione e la sua preparazione. Abbiamo percorso due vie verso questa trasformazione e la sua preparazione. Nella prima parte del corso abbiamo percorso la via del destare uno stato d’animo fondamentale, nella seconda parte quella della trattazione di un problema concreto senza fare riferimento allo stato d’animo fondamentale. Ora le due vie confluiscono, in modo tale però che neppure così conseguiremo a forza oppure otterremo in qualche modo la trasformazione dell’esser-ci, bensì, sempre, semplicemente la prepareremo – che è la sola cosa che la filosofia può fare. Preparare, aprirsi all’accadere; non solo la filosofia ma a questo punto, direi, il pensiero: aprirsi all’accadere, cioè, accogliere ciò che sta accadendo, tenendo conto che qualcosa può accadere perché c’è il linguaggio, che fa in modo che qualcosa accada. Ciò che accade, accade perché io sono così, in questo momento, preso da milioni di cose, con le mie fantasie, con la mia storia, con i miei ricordi; tutto ciò che mi accade, mi accade all’interno di tutto questo.