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8 luglio 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Siamo a pag. 684. Il vero universale, l’universale infinito, che è immediatamente in se stesso tanto particolarità quanto individualità, è ora anzitutto da considerare più dappresso come particolarità. Esso si determina liberamente; il suo rendersi finito non è un passare, che ha luogo soltanto nella sfera dell’essere; è una potenza creativa come negatività assoluta, che si riferisce a se stessa. La creatività passa attraverso la negazione: un elemento, ponendosi, si nega e negandosi diventa quello che è. È come tale il distinguere in se stesso, e questo è un determinare perciò che il distinguere è uno coll’universalità. È così un porre le differenze stesse come universali, riferentesi a sé. Con ciò esse diventano differenze fissate, isolate. L’isolato sussistere del finito, che si determinò per l’addietro come il suo esser per sé, e anche come un esser cosa, come sostanza, è nella sua verità l’universalità, colla qual fora il concetto infinito riveste le sue differenze, - forma che è appunto una delle sue differenze stesse. In ciò consiste il creare del concetto, che non può comprendersi altro che in questa sua stessa intimità. Cioè: l’elemento, non più universale, che si determina in contrapposizione con il finito. Il finito lo determina, però, e qui c’è una questione cui accennavo forse la volta scorsa, quando dicevo che ciascun elemento che si pone di per sé è nulla, perché non significa niente. Era per questo che facevo l’esempio del significante e del significato: il significante di per sé, se non ha un significato, non significa niente, è nulla, è come se imponesse il significato per essere significante. In questo modo il significante pone l’altro da sé per essere se stesso, ma deve porre l’altro da sé. È questo “porre” che Hegel intende come il creare, perché deve porre questo altro da sé per essere sé.

Intervento: …

Un significante che non ha significato non è significante. Prenda alla lettera il termine significante come il participio presente del verbo significare: è significante, cioè, sta significando qualcosa. Ma se non ha significato, che cos’è? È un significante che non significa, cioè, non è significante. Uno potrebbe pensare anche a un rumore. Questo rumore non significa niente? Non è vero propriamente, perché comunque lo determino come rumore e, quindi, lo inserisco in un contesto, in una storia dove quel rumore ha un suo significato. Posso immaginare quello che mi pare, ma questo rumore comunque è un qualche cosa. Parlare di significante senza significato logicamente sarebbe una contraddizione in termini. Nota del Moni. Il punto di origine della distinzione non cade dopo l’universale o fuori dell’universale, ma è nell’universale stesso. Questo è importante. Il punto di origine non cade fuori dell’universale, non è che qui c’è l’universale e lì c’è il suo punto di origine; no, è tutto nell’universale. Tolgo le seguenti interessanti determinazioni dalla Logica e Metafisica di Kuno Fischer: “Il concetto è l’unità di diversi. Quindi non si concepisce se non là dove si uniscono dei diversi. Senza differenza non si dà concetto. Quindi l‘essere indistinto non è un concetto, epperò l’essere in quanto è concepito è immediatamente non essere. Quando penso all’essere lo penso in quanto privo di ogni determinazione e, quindi, non posso dire che cos’è; occorre che intervenga qualche cosa che lo determini, ciò che gli si oppone, appunto ciò che l’essere non è, il non essere. Perciò il divenire, l’unità di essere e non essere è il primo effettivo concetto. Il concetto quale unità di diversi è l’universale. Concepire significa quindi universalizzare, e l’universalizzare che prescinde dai diversi è l’astrarre, il cui prodotto è l’universale astratto. Il vero universale è l’universalità concreta o creativa. Veramente concepire significa quindi produrre o creare (Schelling)”. Kuno Fischer è un personaggio della filosofia minore, lo trovate nei manuali di storia della filosofia citato come uno degli esponenti della destra hegeliana. Ma Kuno Fischer ha fatto indirettamente qualcosa di importante, perché un giorno un amico di Nietzsche gli portò un libro di Kuno Fischer su Spinoza. Nietzsche non aveva propriamente una formazione filosofica, lui si era formato come filologo e, quindi, conosceva perfettamente il greco e il pensiero greco. Non conosceva Spinoza ma lesse questo libro di Kuno Fischer e ne trasse delle considerazioni straordinarie; addirittura disse che Spinoza aveva anticipato una buona parte di ciò che lui aveva elaborate. In effetti, potremmo considerare che qui risiede il genio, cioè, riuscire a leggere, come nel caso di Nietzsche, un testo su Spinoza riuscendo a trarre da questo testo ciò che nessun altro era riuscito a trarre, cioè, a vedere cose che altri non vedevano. Questo è ciò che fece Nietzsche nei confronti del libro che gli portarono. A pag. 686. Il particolare è l’universale stesso, ma è la sua differenza o reazione a un latro, il suo rispecchiarsi al di fuori. Rispecchiarsi al di fuori significa guardare ciò che gli si oppone, così come l’essere guarda il non essere. L’universale si determina, e così è esso stesso il particolare. Chiaramente, se l’universale si determina vuol dire che si pone di fronte al suo opponente; è il suo opponente che lo determina, letteralmente lo de-termina. Naturalmente, ciò che si oppone all’universale è il particolare. La determinatezza è la sua differenza. Nel senso che ciò che lo determina è la differenza che ha tra sé e sé. Le sue specie son quindi soltanto a) l’universale stesso e b) il particolare. L’universale e il particolare: ciò che pongo e ciò che gli si contrappone. Antitesi, letteralmente, è contrapposizione. L’universale come il concetto è se stesso e il suo opposto, che è a sua volta lui stesso come la sua determinatezza posta; lo invade, e in esso è presso di sé. Così esso è la totalità e il principio della sua diversità, la quale è determinata solo da lui stesso. Quando Hegel ci dice che nel concetto l’universale e il particolare sono lo stesso, sta dicendo una cosa sulla quale merita di riflettere un momento. Ogni volta che io costruisco o penso un concetto, generalmente lo penso come universale. Pensarlo come universale significa che lo affermo come se fosse necessariamente vero, come se dicendo “questi sono occhiali” dicessi un universale, nel senso che posso inserirlo in un quantificatore universale (per tutte le x, se x è questa cosa qui, allora sono occhiali). Però, che l’universale e il particolare siano le due facce dello stesso, e cioè il particolare scompare nell’universale, ci dice che ogni pensiero che facciamo è tato universale quanto particolare, cioè, si pone tanto come qualcosa di necessario quanto come qualcosa di contingente, nello stesso tempo, simultaneamente. Questo ci porta a considerare che non posso affermare qualcosa in modo universale senza che questa mia affermazione non sia anche particolare. Se è anche particolare, questo comporta un effetto immediato, e cioè che per potere affermare questa cosa come necessaria devo dire che non è necessaria; per poterla affermare come universale è come se dovessi dire che non è soltanto universale, ma è anche particolare. Infatti, qui Hegel, anche se non lo cita, allude al quadrato logico. Il quadrato logico è una figura, che sembra sia stata per la prima volta avanzata da un tal Pietro Ispano, che tra l’altro fu anche papa, Giovanni XXI. Visse nel XIII secolo e scrisse tra il 1260 e il 1280 un testo che si chiama Summulae logicales. In questo testo fa questa raffigurazione: un quadrato in cui illustra le possibili relazioni tra le proposizioni universali e particolari. Immaginatevi un quadrato: pone in alto a sinistra l’universale affermativa (tutte le A sono B); a fronte, in alto a destra, l’universale negativa (nessuna A è B); in senso orario, in basso a destra, troviamo la particolare negativa (qualche A non è B); nell’ultimo angolo, in basso a sinistra, la particolare affermativa (qualche A è B). che utilità ha una cosa del genere? Abbastanza scarsa, però è servita nel Medioevo come riferimento per intere che, p. es., se io dico che tutte le A sono B, se affermo che qualche A è B, questa è subalterna: tra l’universale affermativa e la particolare affermativa c’è una relazione di subalternità. Se, invece, tracciamo una diagonale tra l’universale affermativa e la particolare negativa abbiamo una contraddizione, perché da una parte affermo che tutte le A sono B ma affermo anche che qualche A non è B, e quindi mi contraddico. La contraria, invece, è quella tra l’universale affermativa (tutte le A sono B) e l’universale negativa (nessuna A è B).

Intervento: …

Nel Medioevo si utilizzavano dei termini latini inventati per ricordare i tipi di sillogismi, come il sillogismo Barbara. Pietro Ispano aveva attribuito al primo angolo la A (universale affermativa), poi la E (universale negativa), la O (particolare negativa), la I (particolare affermativa). Per esempio, se ho un sillogismo fatto di tre affermazioni universali affermative allora ho tre A, che è il sillogismo BARBARA, il quale potrebbe essere detto in questo modo: tutte le A sono B, tutte le B sono C; tutte le A sono C. A pag. 687. Non vi è quindi alcun’altra vera partizione o divisione se non questa, che il concetto cioè si apparta come universalità immediata, indeterminata; appunto questo indeterminato fa la sua determinatezza, ossia fa che il concetto è un particolare. Il fatto che sia determinato nella indeterminatezza; è indeterminato ma ha qualcosa che gli si oppone, non è infinito. Ambedue sono il particolare e son quindi coordinati. Ambedue sono anche, in quanto particolari, il determinato di fronte all’universale; vale a dire, subordinati perciò a quello. Ma appunto questo universale, di fronte al quale è determinato il particolare, è con ciò anzi esso stesso soltanto uno dei contrapposti. Quando parliamo di due contrapposti dobbiamo dunque anche dire che tutti e due costituiscono il particolare, non già soltanto insieme, quasi che solo per la riflessione esterna fossero eguali nell’esser dei particolari, ma nel senso che la determinatezza che hanno uno di fronte all’altro è in pari tempo essenzialmente soltanto una sola determinatezza, negatività, che nell‘universale è semplice. Entrambi si oppongono l’uno all’altro. In questo essere opposti l’uno all’altro hanno questo in comune. Nel modo come la differenza si mostra qui, essa è nel suo concetto, epperò nella sua verità. Questa differenza fra i due si mostra, sì, nel concetto e, quindi, è la sua verità. È questa la sua verità: il fatto di essere tanto una cosa quanto l’altra, simultaneamente. Ogni precedente differenza ha questa unità nel concetto. In quanto è differenza immediata nell’essere, è come il limite di un altro; in quanto è nella riflessione, è differenza relativa, posta come riferentesi essenzialmente al suo altro;... È sempre questo che lavora: ciascun elemento si riferisce al suo altro e in questo riferirsi al suo altro trae la sua determinatezza; e così l’altro, naturalmente. Il tutto e le parti, la causa e l’effetto p. es. e così via, non sono ancora dei diversi che siano determinati fra loro come dei particolari, poiché costituiscono bensì in sé u unico concetto, ma l’unità loro non ha peranco raggiunta la forma dell’universalità. Così nemmeno la differenza, che è in questi rapporti, ha ancora questa forma, di essere un’unica determinatezza. Causa ed effetto p. es. non sono due concetti diversi, ma soltanto un unico concetto determinato, e la causalità è, come ogni concetto, un concetto semplice. Si ripete questa modalità in cui mostra come dapprima i due elementi vengono tenuti separati per dire, poco dopo, come questa separazione è fittizia, è artificiale, non esiste in realtà, perché questi due elementi sono uno. I molteplici generi o specie naturali non si debbono stimare per nulla di superiore alle capricciose trovate dello spirito nelle sue rappresentazioni. Queste e quelli mostrano bensì dappertutto delle tracce e dei presentimenti del concetto, ma non ne offrono il ritratto fedele, essendo il lato del suo libero esser fuori di sé. Nel senso che nelle cose che vedo, che incontro, immagino che non siano dei concetti, ci sta dicendo, perché, come dice lui esattamente, immagino il lato dell’esser libero di questa cosa, cioè di non esser ancora determinato, di non essere ancora nel concetto, lo immagino di essere fuori. Il concetto è la potenza assoluta appunto perché può rilasciar libera la sua differenza nella forma di una per sé stante diversità, della necessità estrinseca, dell’accidentalità, dell’arbitrio, dell’opinione, lato però che non dev’esser preso altro che per il lato astratto della nullità. Questo lato, dice, è nullo in quanto si pone unicamente come negazione. La questione della nullità è importante in Hegel. Portando le cose alle estreme conseguenze, tutto ciò che dico è nulla in quanto ciò che dico, per potere essere ciò che dico, deve avere qualche cosa che non è lì – i logici direbbero il complemento booleano, cioè tutto ciò che questa cosa non è, che deve esserci. Perché questa cosa che sto dicendo è se stessa a condizione di non essere tutto ci che non è. E, quindi, mentre pongo questa cosa si annulla; esattamente come l‘essere e il non essere: l’essere è nulla finché non c’è il non essere che lo determina; ma il non essere è nulla e, quindi, l’essere in quanto nulla viene determinato come nulla; ma a questo punto è l’essere che sa di essere nulla, perché finché è soltanto essere non può sapere niente di sé, non può neanche chiedersi che cos’è. Per poterselo domandare, ha bisogno di determinare l’essere, attraverso la sua essenza, e la sua essenza non è nient’altro che il non essere. Ecco perché dicevo che dicendo dico nulla. A pag. 689. L’astratto universale pertanto è bensì il concetto, ma come un che vuoto di concetto, come concetto che non è posto come tale. Quando si parla del concetto determinato, ciò che si ha in mente non è di solito altro che cotesto astratto universale. Anche per concetto in generale s’intende per lo più questo concetto vuoto di concetto, mentre l’intelletto designa la facoltà di tali concetti. La dimostrazione appartiene a questo intelletto, in quanto essa avanzi in concetti, cioè solo in determinazioni. Cotesto avanzare in concetti non oltrepassa quindi la finità e la necessità. Il culmine qui è l’infinito negativo, l’astrazione della suprema essenza, che è appunto la determinatezza dell’indeterminatezza. Sta parlando della dimostrazione: Cotesto avanzare in concetti non oltrepassa quindi la finità e la necessità. Cosa vuol dire che non oltrepassa la finità e la necessità? Vuol dire che li tiene separati, che è esattamente ciò che dice nella riga dopo: Il culmine qui è l’infinito negativo. Ricordate cosa dice dell’infinto negativo, del cattivo infinito? È quell’infinito che è posto come un qualche cosa di separato dal finito. E, allora, se li pongo separati c’è la contraddizione, oppure, un ribaltarsi continuamente da finito a infinito, come quando si dice “e così via all’infinito”, che in realtà non dice niente. Dice dell’astrazione della suprema essenza, che è appunto della determinatezza dell’indeterminatezza. Qui chiaramente allude alla necessità di porre questi due elementi come unità, ché se li tengo separati non mi accorgo che ciascuno ha l’altro come condizione della sua esistenza e lo pongo invece come se potesse esistere di per sé. Per tornare a ciò che dicevamo prima, lo pongo come se potessi porre un significante senza significato, per cui non pongo niente. Del resto l’astrazione non è vuota, come comunemente si chiama. È il concetto determinato;… Questa è l’astrazione: è un concetto che viene determinato. …ha per contenuto una certa determinatezza. Quando io astraggo qualcosa io lo determino, lo finisco in un certo senso. È come la famosa lampada: quando devo determinarla io la finisco, la devo considerare singolarmente e non nel concreto. Anche la suprema essenza, la pura astrazione, ha, come si è accennato, la determinatezza dell’indeterminatezza; e una determinatezza è poi l’indeterminatezza, perché deve star di contro al determinato. Due elementi, l’uno si contrappone all’altro: entrambi si determinano vicendevolmente, per cui non può darsi l’uno senza l’altro. Se si desse l’uno senza l’altro ci sarebbe l’indeterminatezza non più determinabile, non sarebbe nemmeno concepibile. Ma in quanto si enuncia ciò ch’essa è, si toglie quello appunto ch’essa dev’essere; viene enunciata come uno stesso colla determinatezza, ristabilendosi in questo modo dall’astrazione il concetto e la verità di essa. Sta dicendo semplicemente che in quanto si enuncia ciò che essa è, per esempio la determinatezza, si toglie ciò che essa deve essere; ma deve essere la determinatezza in quanto tolgo l’indeterminatezza. In quanto si enuncia ciò che essa è si toglie appunto ciò che essa deve essere: per essere determinatezza devo togliere l’indeterminatezza; ma l’indeterminatezza è ciò che la determinatezza è di fatto, perché è l’indeterminatezza che fa di quella cosa quella che è. Ogni concetto determinato è però ad ogni modo vuoto in quanto non contiene la totalità, ma solo una determinatezza unilaterale. Anche quando abbia d’altronde un contenuto concreto, p. es. uomo, stato, animale, etc., rimane un concetto vuoto, in quanto la sua determinatezza non è il principio delle sue differenze; il principio contiene il cominciamento e l’essenza del suo sviluppo e realizzazione; ogni altra determinatezza del concetto invece è sterile. Quando il concetto pertanto viene in generale spregiato come vuoto, si disconosce quella sua assoluta determinatezza che è la differenza del concetto e l’unico vero contenuto nel suo elemento. Sta dicendo che il concetto astratto propriamente non è vuoto. Quando io dico uomo, stato, animale, ecc., certo, rimane un concetto vuoto, ma perché, dice lui, rimane un concetto vuoto? Perché la sua determinatezza non è il principio delle sue differenze, la sua determinatezza non è posta di contro alla sua indeterminatezza, la sua determinatezza rimane separata. È questo che dà l’idea di concetto vuoto, è per questo che si crede che sia vuoto. In realtà, non lo è ma lo si può pensare: se io tengo separate le cose, per esempio il concetto di stato, lo tengo separato in quanto determinatezza dalla sua indeterminatezza, allora rimane un concetto vuoto; e, infatti, ciascuno parla di stato e pensa tutto quello che gli pare, come succede spesso. Quando il concetto non è vuoto? Seguendo la Fenomenologia dello spirito, quando tengo conto, e non posso più non tenerne conto, che questa determinatezza, che io penso di avere fissata, è tale per via della indeterminatezza. È l’indeterminatezza di questo concetto di stato la condizione perché io possa pensare a una determinatezza di questo concetto. Il che significa che quando penso allo stato penso niente, nel senso che devo pensare anche ciò che rappresenta il contrario di quello che sto pensando, perché c’è anche quello. Non posso non pensarlo; se non lo penso mi creo una determinazione mia personale ma che rimane vuota e posso riempirla con tutto quello che voglio. Che cosa, invece, mi impedisce di riempirla con tutto quello che voglio? Il tenere sempre presente che questa determinatezza è tale a condizione della sua indeterminatezza, cioè, per esempio lo stato significa tutto quello che voglio che significhi, tutto e il suo contrario. Dunque, e qui c’è un risvolto analitico, ciò che sto pensando dello stato non è qualcosa di necessario, è contingente, cioè, è una mia decisione e, quindi, una mia responsabilità. Lo stato non è quella cosa che io voglio o credo che sia, ma è qualche cosa in quanto io voglio, decido che sia quella cosa lì. Ma decidendo che è quella cosa lì rimane indeterminato, in quanto posso cambiare idea mille volte finché non tengo conto che ciò che io ho determinato è quello che è perché ha come condizione la sua indeterminatezza. Quindi, tutto ciò che io penso dello stato lo sto pensando io in questo momento; fra cinque minuti potrebbe essere totalmente differente, perché lo stato non è quella cosa lì che io penso, non è quella determinazione lì; quella determinatezza è tale per via della indeterminatezza, che è presente sempre e comunque. È questo che sta dicendo Hegel; lo diceva già nella Fenomenologia dello spirito ma qui è insistente. È come se dicesse in un certo modo: ogni volta che determinate qualche cosa, o pensate che questo determinato sia separato dalla sua indeterminatezza, e allora vi trovate in una struttura religiosa; oppure non potete tenere conto che questa determinazione ha come condizione della sua esistenza l’indeterminatezza.

Intervento: È un aspetto dell’ascolto…

Sì. È chiaro che ci sono tante cose che possono trarsi anche rispetto alla psicoanalisi. La volta scorsa lei stesso diceva dell’altra scena, quel termine che usava Freud per indicare l’altro, che poi Lacan scrisse con la maiuscola (Altro) rifacendosi anche lui a Hegel, l’altro in quanto radicalmente altro, non l’altrui. Per Lacan l’Altro non era né il significante né il significato, ma l’altro da entrambi. L’altro da entrambi è la relazione, che de Saussure indicava con il tratto tra i due, ma è la relazione che fa dei due quei due lì. L’altra scena si potrebbe anche intendere in questo modo, e cioè parlando ogni volta la mia parola si pone di fronte a una sorta di complemento booleano, cioè, tutto ciò che quella parola non è ma che fa essere la mia parola quella che è in quel momento. È come se quella parola che dico esplodesse, mentre la dico, in una miriade di frammenti, ciascuno dei quali è un concetto, e che quindi ciascuno dei quali ha un’essenza e un essere, e ciascuno dei quali ovviamente rinvia ad un altro, e così via. È di questo che occorrerebbe incominciare a tenere conto, anche se non è semplice, di che cosa succede mentre si parla, perché succedono cose inverosimili, inaudite. Le parole che dico esplodono, si frammentano in miliardi di altre, delle quali sono fatte e senza le quali altre le mie parole non esisterebbero.

Intervento: …

Questa frammentazione, di cui sto parlando, è una frammentazione strutturale, mentre la schizofrenia la rappresenta, la mette in scena come una pièce teatrale. A pag. 693, Nota. Universalità, particolarità e individualità sono secondo quanto si è detto i tre concetti determinati, quando cioè si vogliano contare. La particolarità è ciò che si oppone all’universale; l’individuale potremmo intenderlo come qualche cosa che attiene alla relazione fra i due, è ciò che rende il concetto un individuo, un qualcosa. Si è già mostrato per l’addietro che il numero è una forma disadatta per comprendervi delle determinazioni di concetto, ma disadatta è poi in sommo grado per le determinazioni del concetto stesso. Il numero, avendo per principio l’uno… Per Peano era lo zero: zero es numero, diceva nella sua lingua, latino sine flexione; poi, diceva che ogni numero ha un successore, il successore di zero è uno. Queste idee Peano le chiamava idee primitive, e cioè non ulteriormente scomponibili; sarebbero le idee immediate, nel linguaggio di Hegel, e sappiamo che per lui non esistono: ciascuna cosa, se è una cosa, è mediata sempre e necessariamente. …rende i numerati intieramente disgiunti e intieramente indifferenti fra loro. La relazione numerica immagina che questi numeri siano ciascuno a sé stanti e non presi in un tutto. Da ciò che è stato detto fin qui risulta che i diversi concetti determinati sono anzi assolutamente un unico e medesimo concetto, nonché cadano uno fuori dell’altro. Nell’ordinaria trattazione della logica si presentano diverse divisioni e specie di concetti. Dà subito nell’occhio l’inconseguenza di recar le specie in questo modo: Secondo la quantità, qualità, ecc., si danno i seguenti concetti. Trarre, cioè, i concetti dalla loro calcolabilità. Si ottiene in questo modo una logica empirica, - una scienza singolare, una conoscenza irrazionale del razionale. La logica dà con ciò un esempio molto cattivo della maniera di mettere in atto le sue proprie dottrine; si permette di far per proprio conto il contrario di quel che prescrive come regola, cioè che i concetti debbono essere dedotti e che le proposizioni scientifiche … si hanno a dimostrare. I concetti vengono dedotti da altri concetti. Il che ci conduce a una domanda: da dove vengono i concetti? Certo, la definizione che dà Hegel offre un’indicazione: sono essere e essenza, cioè, l’essere che pensa se stesso… ma, di fatto, un concetto non può venire che da altri concetti. Quel concetto che potrebbe mostrarsi come primo è primo soltanto alla fine. Soltanto dopo so che è il primo, al momento non lo posso sapere; così come non posso sapere che l’essere è essere finché non compio un percorso, in cui aggiungo ciò che l’essere non è, il non essere, e allora ecco che l’essere diventa l’essere. A pag. 696. …accade che nelle logiche, nell’una più, secondo il capriccio, e nell’altra meno, si narra che si danno concetti affermativi, negativi, identici, condizionati, necessari, ecc. Siccome tali determinazioni la natura del concetto stesso se le è già lasciate addietro, e siccome quindi quando vengon messe fuori a proposito del concetto non si presentano nel lor proprio luogo, così esse non permettono che dei superficiali chiarimenti verbali ed appaiono qui senza nessun interesse. Ai concetti contrari e contraddittori (differenza di cui qui soprattutto si tien conto) sta in fondo la determinazione riflessiva della diversità e dell’opposizione. Essi vengono riguardati come due specie particolari, ciascuno cioè come fermo per sé e indifferente di fronte all’altro, senz’alcun pensiero della dialettica e dell’interna nullità di queste differenze; come se ciò che è contrario non dovesse essere anche determinato come contraddittorio. Se voi tornate con la memoria al quadrato logico, di cui dicevamo prima, queste quattro figure – che Pietro Ispano considerava separate e indipendenti ciascuna per sé, anche se erano in relazione con le altre, ma si trattava di relazioni estrinseche – sono dei momenti, ma non c’è l’una senza l’altra, se c’è una ci sono già le altre. Questo lo si vede molto bene nella relazione contraria: non c’è l’essere senza il non essere, non c’è la proposizione che afferma che Tutte le A sono B se non c’è quella che dice che Nessuna A è B, sennò la prima non ha nessun senso, e non è utilizzabile. La natura e il passaggio essenziale delle forme riflessive che quei concetti esprimono sono stati trattati a loro luogo. Nel concetto l’identità è sviluppata ad universalità, la differenza a particolarità, l’opposizione, che torna nel fondamento, a individualità. Sono queste le forme in cui Hegel vede le figure del quadrato logico, e cioè l’universale affermativa come l’universale. È chiaro che l’universale ha il particolare come suo opposto. L’universale si mostrò non solo come l’identico, ma in pari tempo come il diverso o il contrario di fronte al particolare e all’individuale, e poi anche come contrapposto a quelli, ossia come contraddittorio;… Perché in questa opposizione tanto un elemento quanto il suo contrario. P. es. nel caso del quadrato logico, è questo che pare il ragionamento di Hegel: l’universale affermativa si oppone all’universale negativa (Tutte le A sono B – Nessuna A è B) ma in Nessuna A è B è implicito il Qualche A non è B, perché la relazione tra l’universale negativa e la particolare negativa è una relazione di subalternità, cioè se c’è una c’è altra. Ecco perché, dice Hegel, se c’è l’universale ci sono già tutte queste cose. Il che è sfuggito a Pietro Ispano; essendo papa aveva altre cose di cui occuparsi. Vengon poi divisi i concetti in subordinati e coordinati… I subordinati sono le subalterne; i coordinati sono quelli che Pietro Ispano chiamava le subcontrarie, cioè la relazione tra la particolare negativa e quella affermativa. …differenza che riguarda più da vicino la determinazione del concetto, cioè il rapporto di universalità e particolarità, dove queste espressioni furono quindi anche incidentalmente menzionate. Senonché la subordinazione e la coordinazione sogliono ordinariamente considerarsi anch’esse come rapporti del tutto fissi,… Come ha fatto Pietro Ispano, che le ha inchiodate nel suo quadrato. …collo stabilir poi intorno ad esse varie proposizioni sterili. Se si considerano a quel modo si costruiscono dei sillogismi sterili, che non significano niente. Poi vedremo, perché tutta la parte che segue parla dei sillogismi; quindi, evidentemente, ne parlerà in modo differente. La più ampia discussione in proposito concerne daccapo la relazione della contrarietà e contraddittorietà alla subordinazione e coordinazione. Essendo il giudizio la relazione dei concetti determinati, soltanto in esso deve venir fuori il vero rapporto. Quella maniera consistente nel confrontare queste determinazioni senza alcun pensiero della loro dialettica e del progressivo mutarsi della lor determinazione, o meglio del collegamento che in esse si trova di determinazioni opposte, rende l’intiera considerazione, che cosa vi sia in esse di consono oppure no … semplicemente sterile e vana. Sta dicendo che il quadrato logico di Pietro Ispano non serve a nulla. il grande Eulero, infinitamente fecondo ed acuto nell’intendere e combinare i più profondi rapporti delle grandezze algebriche, soprattutto poi l’aridamente intellettuale Lambert ed altri, hanno, per questa sorta di rapporti delle determinazioni intellettuali, tentato una notazione per mezzo di linee, figure e simili. Anche i sillogismi sono stati sistemati in una teoria degli insiemi. Per esempio nel sillogismo Barbara, le tre universali affermative sono raffigurate come tre cerchi concentrici, uno dentro l’altro. Si aveva in generale per mira di elevare (o piuttosto, nel fatto, di rabbassare) le guise di relazione logica ad un calcolo. Già il tentativo della notazione si mostra subito come in sé e per sé nullo, quando si confrontino fra loro la natura del segno con quella di ciò che dev’esser designato. Le determinazioni del concetto, l’universalità, la particolarità e l’individualità sono certamente diverse, come le linee o le lettere dell’algebra; son poi anche opposte e ammetterebbero quindi anche i segni di più e meno. Ma esse stesse, eppoi anche le loro relazioni … sono di una natura essenziale affatto diversa da quella delle lettere e linee e delle loro relazioni, dell’eguaglianza o diversità di grandezza, del più e del meno, ovvero del collocamento delle linee l’una sull’altra, oppure dell’unione loro in angoli e delle posizioni degli spazi quivi racchiusi. Cotesti oggetti hanno in proprio di fronte a quelle di esser fra loro estrinseci, di avere una determinazione fissa. Quando ora si prendano dei concetti in modo che corrispondano a tali segni, cesano di esser concetti. Questa è la conclusione finale. Quando io penso di astrarre qualcosa dal concreto, questa cosa che io astraggo cessa di essere quella cosa che era nel concreto. Se io voglio trasformare un concetto in linee, curve, punti, ecc., questo non è più il concetto, è un’altra cosa. Di questo occorrerà pur tenere conto. A pag. 700. È inutile di volerlo fissare con figure spaziali e segni algebrici per uso dell’occhio esteriore e di una trattazione inconcettuale e meccanica, cioè di un calcolo. Anche ogni altra cosa che dovesse servir come simbolo potrebbe tutt’al più, come i simboli per la natura di Dio, suscitar dei presentimenti e degli echi del concetto; ma quando si dovesse sul serio esprimere e conoscere con ciò il concetto, la natura esteriore di ogni simbolo sarebbe inadeguata allo scopo. Il rapporto è anzi che ciò che nei simboli è eco di una determinazione superiore può viceversa esser conosciuto solo per mezzo del concetto, ed essere avvicinato a questo unicamente col rimuovere quell’accessorio sensibile che era destinato ad esprimerlo. Anche la linea, la curva, ecc., sono concetti, che io penso di utilizzare per definire il concetto, trovandomi così in una serie di difficoltà.