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8 luglio 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel.

 

A pag. 81, La certezza sensibile o il questo e l’opinione. Il sapere che da prima o immediatamente è nostro oggetto, non può essere niente altro da quello che esso stesso sapere immediato, sapere dell’immediato o dell’essente. Il nostro comportamento dovrà essere non meno immediato; dovremo quindi apprendere questo sapere come si offre, senza alterare niente in esso; e dal nostro assumere dovremo tener lungi il concepire. Questa non è niente altro che la definizione di fenomenologia: guardare le cose così come appaiono, così come sono. Il contenuto concreto della certezza sensibile fa sì che essa appaia immediatamente come la conoscenza più ricca, come una conoscenza d’infinita ricchezza per la quale non è dato trovare un limite, sia che noi trascorriamo fuori nello spazio e nel tempo, dov’essa si espande;… Questa conoscenza appare inoltre come la più verace; infatti niente ancora dell’oggetto essa ha tralasciato, anzi lo ha in tutta la sua pienezza dinanzi a sé. È così come appare. In effetto però tale certezza si dà a divedere essa stessa come la verità più astratta e più povera. Divedere è un verbo poco usato. Riguarda ovviamente il vedere e il “di” anteposto è un intensivo: un vedere con esattezza. Dice, dunque, che questa certezza si mostra come la verità più astratta e più povera. Di ciò che essa sa, non enuncia che questo: esso è; e la sua verità non contiene che l‘essere della cosa. Quindi, qualcosa è. È in questo senso che dice che è la più povera: dice soltanto che è. Da parte sua in questa certezza la coscienza è soltanto come puro Io; o Io vi sono soltanto come puro questi, e l’oggetto similmente soltanto come puro questo. Chiama l’Io il questi, per distinguerlo dall’oggetto, che chiama il questo. Io, questi, son certo di questa cosa non già perché Io mi sia sviluppato come coscienza o abbia mosso variamente il pensiero. E neppure perché, secondo una moltitudine di caratteri distinti, la cosa di cui son certo sia un ricco rapporto in lei stessa, o una molteplice relazione verso altre. Tutto ciò non riguarda la verità della certezza sensibile. Né Io né la cosa ha qui il significato di una varia e molteplice mediazione; Io non ha il significato di un rappresentare o di un pensare molteplice e vario; né la cosa ha il significato di molteplicità di caratteri; … Altrettanto, in quanto rapporto, la certezza è immediato, puro rapporto: la coscienza è Io e niente altro, un puro questi; il singolo sa il puro questo, ossia sa il singolo. Io so che cosa? So il singolo, cioè, l’oggetto, ciò che mi appare. Ma nel puro essere… Il puro essere non è niente altro che il primo approccio a ciò che appare. In quel momento so solo questo: che è. …che, costituendo l’essenza di questa certezza, è da lei profferito come verità di lei stessa, vi è in gioco, se noi ben guardiamo, molto altro ancora. Una reale certezza sensibile non è solamente una siffatta pura immediatezza, ma è anche un esempio di essa e di quanto vi ha in gioco. Sta dicendo che ciò che appare, che ciò che si mostra, come comunemente si pensa, così come è, e di cui abbiamo la certezza perché l’oggetto è quello, lo vediamo, ecc., beh, ci sta dicendo che dobbiamo andarci più cauti perché, in effetti, ci sono in gioco molte più cose. Sembra di sentire parlare Freud quando evocava questioni del genere. Tra le innumerevoli differenze che ivi vengono in evidenza, noi troviamo ovunque la differenza principale: che cioè in tale certezza escono tosto fuori dal puro essere i due già ricordati questi: un questi come Io, e un questo come oggetto. Se noi riflettiamo su tale differenza, resulterà che né l’uno né l’altro sono nella certezza sensibile soltanto immediati, ma vi sono in pari tempo come mediati; io ho la certezza mediante qualche cos’altro, ossia mediante la cosa, e anche questa è nella certezza mediante qualche cos’altro, ossia mediante Io. L’Io ha la certezza attraverso l’oggetto della conoscenza, ma questo oggetto della conoscenza trae la sua certezza dal fatto che Io gliela attribuisco. A pag. 83. Questa differenza dell’essenza e dell’esempio, della immediatezza e della mediazione, non la facciamo soltanto noi, ma la troviamo nella stessa certezza sensibile; tale differenza è da intendersi in quella fora in cui essa è nella certezza sensibile, e non già in quella in cui testé la determinammo noi. Nella certezza sensibile, cioè, l’un momento è posto come ciò che, semplicemente e immediatamente, è, o come essenza: l’oggetto;… Nella certezza sensibile, ci dice, un momento è posto come l‘essenza. L’idea è che, vedendo l’oggetto, questi mostri l’essenza, mostri quello che realmente è. … l’altro momento è posto come l’inessenziale, il mediato che qui non è in sé, ma mediante qualcos’altro: l’Io, un sapere che sa l’oggetto soltanto perché l’oggetto è;… In questo caso l’Io diventa irrilevante, non è determinante, ciò che importa è l’oggetto: l’oggetto è quello che è, io lo conosco, sì, ma è l’oggetto che conduce il gioco. Ma l’oggetto è; è il vero e l’essenza, esso è, indifferentemente dal suo venir saputo o no; esso rimane anche e non vien saputo; mentre il sapere non è, se non è l’oggetto. Questa è la tesi che lui vuole confutare: l’oggetto è quello che è. Quante volte lo abbiamo sentito: le cose sono così come le vedo; anche se io non ci sono, le cose sono quelle. Quindi, l’oggetto è essenziale, l’Io è inessenziale. L’Io in questo caso non è altro che un rilevatore di oggetti. Si dovrà dunque considerare l’oggetto per vedere se nella certezza sensibile stessa esso sia, in effetto, come un’essenza tale quale dalla certezza sensibile vien fatto passare;… Dice: ma è proprio così? …si dovrà considerare se questo concetto dell’oggetto, di essere cioè essenza, corrisponda al modo secondo il quale l’oggetto medesimo si trova nella certezza sensibile. A questo scopo noi non abbiamo da riflettere sull’oggetto, né da indagare che cosa esso in verità possa essere; ma solo da considerarlo come la certezza sensibile lo ha in lei. È l’unica cosa che possiamo fare. Tra poco lo dirà ma non possiamo isolare la cosa in sé, avrebbe detto Kant, possiamo soltanto indagare così come l’oggetto si mostra alla coscienza. Proprio a lei devesi chiedere: che cosa è il questo? Se noi lo prendiamo nel doppio aspetto del suo essere come l’ora e il qui… Come ciò che mi appare, qui e ora, hic et nunc. La dialettica che esso ha in lui avrà una forma tanto intelligibile, quanto esso stesso lo è. Quindi, considera rispetto al questo, all’oggetto, il suo qui e il suo ora, perché l’oggetto mi appare qui e ora. Anzi, è proprio il fatto di essere qui e ora a determinarlo, in un certo qual modo, come oggetto. Alla domanda che cos’è l’ora? rispondiamo dunque, per es., l’ora è la notte. Per esaminare la verità di questa certezza sensibile è sufficiente un esperimento semplice. Noi appuntiamo per iscritto questa verità; una verità non perde niente per essere scritta, e altrettanto poco per essere conservata. Se ora, a mezzogiorno, noi ritorniamo a quella verità scritta, dovremo dire che essa sa ormai di stantio. Quell’ora che è la notte vien conservato; ossia vien trattato come ciò per cui è stato spacciato: come un essente;… Questo “ora” viene spacciato come un essente, come qualcosa che è quello che è e basta. …ma esso si dimostra piuttosto come un non essente. Senza dubbio l’ora si conserva, ma come tale ora che non è notte; similmente, rispetto al giorno che adesso è, l’ora si conserva come tale ora che neppure è giorno, o si conserva come un negativo in generale. Tale ora che si conserva, non è quindi immediato, bensì mediato; infatti l’ora, come ora che resta e si conserva, è determinato per via che altro, ossia il giorno e la notte, non è. Se dico che è giorno, vuol dire che non è notte. Il giorno è determinato dal fatto che non è notte, e viceversa. Ma con ciò l’ora non è meno semplice di prima, è ora; e in questa semplicità è indifferente verso tutto ciò che gli gioca da presso; quanto poco la notte e il giorno sono il suo essere,… Questo “ora” non è fatto dal giorno o dalla notte, questi sono indifferenti. L’“ora” è l’ora, è adesso… ma adesso quando? …altrettanto poco esso è anche giorno e notte; esso non è per niente affetto da questo suo esser-altro. Sta dicendo che questo “ora” è ora ma anche non-ora, è se stesso ma anche altro. Un alcunché di così semplice che è per via di negazione, e che è né questo né quello, un non-questo, e che è altrettanto indifferente ad essere sia questo che quello, noi lo chiamiamo un universale; l’universale è dunque in effetto il vero della certezza sensibile. Questa frase, che sta dicendo, è impegnativa: Dice l’universale è dunque in effetto il vero della certezza sensibile, ma l’universale è un concetto, un’astrazione, un concetto astratto.ma se noi diciamo che l’universale è il vero della certezza sensibile vuol dire che ciò che noi vediamo sensibilmente, cioè l’oggetto che vediamo, tocchiamo, ecc., questo è un universale, cioè un concetto. Noi vediamo, tocchiamo, utilizziamo, concetti, cioè, significati. Ci sta dicendo questo, che la certezza sensibile, quella che all’inizio indicava come il sapere dell’immediato, di ciò che appare immediatamente, questo non è altro che un significato. Ciò che ci appare, ciò che tocchiamo, ciò che mangiamo, che respiriamo, tutto questo è un significato. Sta dicendo questo, e non è poco. Anche il sensibile noi lo enunciamo come un universale. Non possiamo enunciare la cosa stessa, enunciamo sempre un universale. Ciò che noi diciamo, è: questo, ossia l’universale questo; oppure: è, ossia l’essere in generale. Certo con ciò non ci rappresentiamo di questo universale o l’essere in generale ma enunciamo l’universale; ossia non lo enunciamo senz’altro a quel modo che in quella certezza sensibile noi lo opiniamo. Cioè: lo vediamo, lo pensiamo. Noi ci troviamo sempre a dovere avere a che fare con un universale: ciascuna affermazione è un’affermazione universale. Questa è una questione straordinaria. Se è un concetto, se è un significato, è un’affermazione universale, cioè, questo significato è sempre quel significato, perché sia quel significato occorre che quel significato non muti, sia sempre lo stesso, indifferentemente da cosa significa. Questo, in effetti, porta a dire che ciò con cui abbiamo a che fare, la nostra certezza sensibile, è riferita a significati, a nient’altro che significati. Ma, come si vede, il più verace è il linguaggio: in esso noi confutiamo immediatamente perfino la nostra opinione; e poiché l’universale è il vero della certezza sensibile, e il linguaggio esprime solo questo vero, così è escluso che si possa dire quell’essere sensibile che noi opiniamo. Siccome l’universale è l’unico vero della certezza sensibile, il linguaggio non può esprimere le cose che in quel modo, cioè, come universali, come significati. Cogliere la cosa in sé, per usare un termine kantiano, equivarrebbe a porsi fuori dal linguaggio. Se siamo nel linguaggio, il linguaggio può soltanto parlare di significati, cioè, di universali. L’idea è che se soltanto si uscisse dal linguaggio allora si potrebbe dire la cosa. Questo lo avevamo già inteso tempo fa, ma qui è espresso in modo molto preciso. A pag. 85. Fino ad adesso ha posto la questione dell’“ora”, “ora” che è ma anche non lo è perché l’“ora” è un universale, un significato, un concetto. Lo stesso sarà anche dell’altra forma del questo, cioè del qui. Ricordiamo che sta considerando ciò che determina l’oggetto della certezza sensibile, il qui e ora. L’“ora” l’abbiamo visto, adesso tratta il “qui”. Per es. il qui è l’albero. Io mi volto, e questa verità è dileguata convertendosi nell’opposta: il qui non è un albero, ma piuttosto una casa. Sta facendo un discorso che porterà ovviamente alla stessa conclusione dell’“ora”, cioè che il “qui” è un universale, un concetto, un significato. Punto 11. Se noi raffrontiamo la relazione nella quale il sapere e l’oggetto da prima sorgevano, con la relazione loro com’essi si vengono a trovare nel presente resultato, si vede che la relazione stessa si è rovesciata. A questo punto non è più l’oggetto, così come appariva prima, per cui c’è l’oggetto, ci sono Io, ma Io sono inessenziale, è l’oggetto che importa, l’oggetto che è quello che è; adesso sembra il contrario, perché l’oggetto sembra dileguarsi, per cui come faccio a stabilire il “qui” se diventa un’altra cosa? Questo “qui” cambia continuamente, appunto, si dilegua, e quindi a questo punto la cosa essenziale diventa l’Io; è per questo motivo che parla di rovesciamento. L’oggetto che doveva essere l’essenziale è ora l’inessenziale della certezza sensibile; esso infatti è divenuto un universale; ma tale universale non è più ciò che l’oggetto avrebbe dovuto essenzialmente essere per la certezza sensibile; anzi questa adesso consiste nell’opposto, vale a dire nel sapere; e il sapere prima era l’inessenziale. Il sapere dell’Io, della coscienza. La verità di questa certezza è nell’oggetto come oggetto mio, o è nell’opinare: l’oggetto è perché io so di esso. Queste affermazioni sono interessanti. L’oggetto è perché io so di esso, se non so non è. La certezza sensibile, dunque, è invero espulsa dall’oggetto; ma con ciò non è ancora tolta, anzi soltanto ricacciata indietro nell’Io; ora è da vedersi che cosa ci mostri l’esperienza di tale realtà della certezza sensibile. Qui il “tolta” richiama Severino. In effetti, Hegel lo usa in un modo che poi Severino riprende, non dico pari pari ma quasi. A pag. 86, punto 12. La forza della sua verità, ormai, sta dunque nell’Io,… Sta sempre indagando sulla verità della certezza sensibile. La mia certezza da dove viene? Dall’Io? Dall’oggetto? A questo punto, dice, la forza della verità sta nell’Io …nella immediatezza del mio vedere, udire, ecc.; il dileguare del singolo ora e del singolo qui da noi opinati, viene evitato, perché ci sono io che li trattengo. Sono io che trattengo questo “qui”, lo trattengo nella memoria, lo trattengo perché mi fa comodo, ma di fatto non è più qui, non è più ora. adesso lo dirà in modo più preciso. Ma in questa relazione, proprio come nella precedente, la certezza sensibile fa esperienza in lei della medesima dialettica. Io, questi, vedo l’albero e lo affermo come il qui; ma un altro Io vede la casa e afferma che il qui non è un albero, ma piuttosto una casa. Entrambe le verità hanno una medesima autenticazione, ossia l’immediatezza del vedere e la sicurezza e l’affermazione di entrambi gli Io circa il loro sapere; ma nell’altra l’una dilegua. Comincia a mettere in gioco anche il fatto che l’Io sia garante della verità, perché dovrebbe, sì, garantire che nell’immediatezza del vedere, che questo, il qui, indichi effettivamente questo, ma è soltanto l’immediatezza, è ciò che vedo in questo momento ciò che mi garantisce che il “qui” è l’albero. Ciò che ivi non dilegua è l’Io come universale, il cui vedere non è un vedere né dell’albero né di questa casa, ma è un vedere semplice che, mediato dalla negazione di questa casa ecc., è altrettanto semplice e indifferente verso ciò che vi è in gioco: verso la casa, verso l‘albero, ecc. Un vedere semplice che è mediato dalla negazione della casa, cioè: io vedo l’albero e, quindi, nego la casa; vedo la casa e, quindi, nego l’albero. Io non è che universale, come lo sono ora, qui, questo in generale. Un altro universale, un altro concetto, un significato. Porre l’Io come un significato pone moltissime obiezioni, anche alla psicoanalisi, per es. alla psicoanalisi dell’Io. Certo io intendo dire un Io singolo, ma quanto poco io posso dire ciò che intendo per ora e per qui… Come diceva prima, svaniscono, si dileguano. …altrettanto poco posso dire ciò che intendo per Io. Cosa intendo per Io? Quando incomincio a parlarne, si dilegua pure lui. È un universale, non è determinabile da qualche cosa. Dicendo questo qui, questo ora o un singolo, io dico ogni questo, ogni qui, ogni ora, ogni singolo; similmente dicendo: Io, questo singolo Io, dico ogni Io in generale: ciascuno è quello che io dico: Io, questo singolo, Io. Badate bene, sembra di sentire parlare me. Ciascuno è quello che io dico che è, non quello che è: è questo l’Io, ciascuna volta. Così come l’universale, è un concetto, un significato. Che cosa dice? Dice ciò che io dico che dica; non ha esistenza in sé. Poco più avanti. …una così detta questa cosa, o un questo essere umano, allora è anche giusto che tale esigenza dica qual questa cosa, qual questo Io essa opini; ma ciò dire è impossibile. Perché è impossibile? Perché dilegua, continuamente. A pag. 87, punto 14. La certezza sensibile fa dunque esperienza che la sua essenza non sta né nell’oggetto né nell’Io, e che l’immediatezza non è un’immediatezza né dell’uno né dell’altro;… La certezza immediata, prima sembrava che venisse dall’oggetto, che è quello che è; poi, dall’Io che lo percepisce. …in quei due ciò che io opino è infatti un inessenziale, e l’oggetto e l’Io sono universali nei quali l’ora e il qui e l’Io che io opino non sussistono o non sono. Ciò che io penso che una certa cosa sia non è così. Certo, io posso dire che è così, difatti è quello che accade, ma questo Io, questa cosa, ecc., sono universali, sono concetti, sono significati. Con ciò noi arriviamo a porre l’intiero della certezza sensibile stessa come sua essenza… L’essenza sta nell’intero. Cosa direbbe Severino? Sta nel concreto. …e non più soltanto come un momento di essa; il che succedeva nei due casi dove prima l’oggetto opposto all’Io, e poi Io dovevano essere la sua realtà. È dunque soltanto la stessa intera certezza sensibile che, persistendo in lei come immediatezza, esclude da sé ogni opposizione che aveva luogo precedentemente. L’opposizione tra Io e l’oggetto non c’è più. Ovviamente, questo avviene nel processo dialettico attraverso la sintesi tra l’Io e l’oggetto. Vale a dire, la certezza sensibile riguarda la sintesi di questi due. Così a questa pura immediatezza non interessa più l’esser-altro del qui come albero, il quale passa in un qui che è non-albero; non più interessa l’esser-altro dell’ora come giorno che passa in un’ora che è notte, né interessa un altro Io a cui è oggetto qualche cos’altro. La verità di tale immediatezza si mantiene come rapporto che resta uguale a se stesso… Badate bene: verità come rapporto. Un rapporto è un atto linguistico. …rapporto che tra l’Io e l’oggetto non fa nessuna distinzione di essenzialità e di inessenzialità… Non c’è più l’idea che l’Io sia essenziale e che l’oggetto sia inessenziale, e viceversa, tutto questo scompare. Io, questi, affermo dunque il qui come albero, e non mi volto, per modo che il qui mi divenga un non-albero. Io non voglio saperne niente che un altro Io veda il qui come non-albero, o che io stesso altra volta abbia potuto prendere il qui come non-albero e l’ora come non-giorno; ma io sono puro intuire; io, quanto a me, resto a questo; l’ora è giorno, o il qui è l’albero; nemmeno raffronto tra loro il qui e l’ora, ma mi attengo a una relazione immediata: l’ora è giorno. Questo è il modo di pensare comune, cioè, ci si attiene a una relazione immediata: ora è notte, questa è una certezza immediata, questo è il vero. Ma Hegel pone un’obiezione. Poiché così questa certezza più non vuol venir fuori quando noi la rendiamo attenta a un’ora che è notte o a un Io a cui è notte, rechiamoci allora noi da lei e facciamoci indicare quell’ora che viene affermato. Rivolgiamoci direttamente a questa certezza, interroghiamola e vediamo cosa succede. Noi dobbiamo bene farcelo indicare; giacché la verità di quel rapporto immediato è la verità di questo Io che si limita a un’ora e a un qui. Per lui si tratta di un “ora” che è tutti gli “ora”, di un “qui” che sono tutti i “qui”, perché è un universale. Se noi questa verità prendessimo in esame dopo o ne stessimo lontani, essa non avrebbe nessunissimo significato; perché toglieremmo l’immediatezza che le è essenziale. Se a questa verità noi togliamo l’immediatezza dell’essere indicata adesso, in questo momento, cioè la sua determinazione… Tenete sempre conto che una determinazione in questo modo esclude la dialettica, perché immagina la certezza sensibile come l’immediato che io vedo, senza che questo immediato che io vedo ritorni in un percorso dialettico, come adesso Hegel ci sta indicando. Punto 17. Vien mostrato l’ora, questo ora. Ora; mentre esso vien mostrato, ha già cessato di essere. Se noi chiedessimo a chi sostiene questa verità, a questa certezza sensibile, dell’ora per cui dice “adesso”; sì, ma quale ora? Cosa intendi con ora? Ce lo dice qui: mentre esso vien mostrato, ha già cessato di essere. L’ora che è, è diverso da quello mostrato, e noi vediamo che l’ora consiste proprio in questo: nel non essere più mentre esso è;… Mentre lo dico non è più. …l’ora, come ci vien mostrato, è un già stato; e questa è la sua verità; esso non ha la verità dell’essere. Non c’è più e, quindi, non ha la verità dell’essere. Che tipo di verità ha? È dunque vero che esso è già stato. Ma in effetto ciò che è già stato non è un’essenza; esso non è, e invece si trattava dell’essere. Si immaginava che indicando il qui e l’ora si mostrasse l’essere dell’oggetto, come è realmente. Però, di fatto, Hegel ci sta dicendo che ciò che mostriamo, nel momento in cui lo mostriamo, non mostriamo ciò che è, mostriamo un’altra cosa. Cosa che avviene parlando, ininterrottamente: quando io voglio fermare una parola, è chiaro che già solo l’idea di fermarla comporta altre parole. In questo indicare noi scorgiamo dunque soltanto un movimento con il seguente decorso: 1) Io indico l’ora, ed esso è affermato come il vero; ma io lo indico come il già stato o come un tolto; io tolgo la prima verità,… La prima verità è che l’ora sia questa, però, mentre io lo dico non è già più quello che io indicavo; quindi, io tolgo la prima verità perché non è più vero. …2) adesso, come seconda verità, affermo che è già stato, è tolto… La prima verità l’abbiamo tolta; la seconda dice che è già stato, cioè è tolto. 3)Ma il già stato non è: io tolgo l’esser-già-stato o l’esser-tolto, tolgo la seconda verità, nego quindi la negazione dell’ora, e torno così alla prima affermazione che l’ora è. Abbiamo compiuto il percorso dialettico: tesi, antitesi e sintesi. Indico l’ora, ma indicando l’ora non dico la verità. Quale sarebbe la seconda verità? Affermo che è stato, quell’“ora” lì è stato, cioè è tolto, non c’è più, e questa è l’antitesi, la negazione della prima verità. Sintesi: ma il già stato non è; indubbiamente, se è già stato vuol dire che non è. Io tolgo l’essere già stato, cioè tolgo la prima verità; tolgo la seconda verità e nego, quindi, la negazione dell’“ora”. La prima e la seconda verità sono il positivo e il negativo - il negativo nega che l’“ora” sia proprio questa. La prima verità, il positivo, ci dice che pongo l’“ora”, che però non è, non è più questa; la seconda verità, il negativo, nega che la prima sia una verità, e questa appare come un’altra verità; quindi, se tolgo la prima verità, tolgo la seconda verità, cosa succede? Che nego la negazione dell’“ora”, nel senso che la prima e la seconda verità, di fatto, negano l’“ora”, mostrano che non è. Ma a questo punto, di questi due momenti, la prima e la seconda verità, ci troviamo di fronte al fatto che se io nego la negazione affermo, perché è questo che sta accadendo, ci dice Hegel, negare una negazione comporta un’affermazione, e, infatti, dice torno così alla prima affermazione che l’ora è. L’ora e l’indicare l’ora son dunque così costituiti che né l’uno né l’altro è un semplice immediato, ma un movimento che ha in lui diversi momenti. Vien posto questo; ma piuttosto posto un altro, o il questo vien tolto; e tale esser-altro o togliere del primo viene anch’esso di nuovo tolto, e così ricondotto al primo. Pensate a Severino: l’essere è, questa la posizione; però, diceva, se non gli metto a fianco che il non essere non è, questa prima affermazione rimane insostenibile, perché continua a prevedere l’eventualità che il non essere sia; e, allora, il non non-essere deve essere tolto; togliendo il non non-essere, mi ritrovo nuovamente all’essere. È questo il movimento di ritorno: a questo punto ritorno all’essere. Ma questo primo, riflesso in se stesso, non è precisamente ciò che era per lo innanzi, ossia, un immediato… Quando io torno indietro, questo “ora” non è l’“ora” di prima, è un altro. Così l’essere di Severino: l’essere non è più quello di prima, è un altro che è diventato positivo, è diventato incontrovertibile, per usare i suoi termini. …ma è appunto un qualcosa di riflesso in se stesso o di semplice che nell’esser-altro resta ciò che esso è:… È nell’essere altro che lui rimane quello che è. Tornando a Severino, soltanto in questo altro, in questo non non-essere, l’essere è effettivamente essere. L’indicare è dunque esso stesso il movimento esprimente ciò che l’ora è in verità, ossia un resultato o una molteplicità di ora nel suo insieme raccolta; e l’indicare è l’imparare per esperienza che ora è un universale. Siamo passati dalla certezza sensibile, come la certezza di ciò che appare, qualcosa di immediato, a qualcosa che invece ci appare come un risultato. Cambia tutto. Ciò che mi appare è il risultato, diciamola così, di un movimento che dal significante va al significato e torna al significante per renderlo significante, nel senso che ciò che io vedo è un significato. È soltanto perché è un significato che io lo vedo, mi ritorna come significante, cioè, significa qualcosa, è qualcosa, sennò è niente. Punto 20. È chiaro che la dialettica della certezza sensibile altro non è se non la semplice storia del movimento di questa certezza medesima o della sua esperienza;… La questione storica è qualcosa di cui Hegel parlerà a lungo. Si tratta sempre di una storia; come dire che le cose, che sono significati, sono significati perché hanno una storia, sono significati per via della loro storia. …ed è pur chiaro che anche la certezza sensibile altro non è se non quella storia. La certezza sensibile è una storia, un racconto, se volete dirla così. Ciò che mi appare come certezza sensibile è un significato, quindi, è storia, un racconto. Le cose che io tocco, mangio, ecc., sono racconti. Prosegue poi facendo una critica ai suoi oppositori, però… A pag. 91, punto 21. Se realmente volessero dire questo pezzo di carta cui essi opinano, e se proprio lo volessero dire, ciò riuscirebbe impossibile, perché il questo sensibile, che viene opinato, è inattingibile al linguaggio che appartiene alla coscienza, a ciò che è in sé universale. Se è universale appartiene al linguaggio, è un concetto, un significato. Non sarebbe possibile dirlo perché sarebbe fuori dal linguaggio. Nel reale tentativo di pronunziare la cosa, essa si disintegrerebbe; coloro che ne iniziassero una descrizione, non la potrebbero condurre a termine, ma dovrebbero lasciarla ad altri i quali poi, alla loro volta, finirebbero col confessare di discorrere di una cosa che non è. Questo accade quando si prende rigorosamente la questione, la si elabora, si comincia a pensare e ci si accorge che ciò di cui si sta parlando propriamente non è. Essi dunque opinano questo pezzo di carta, questo qui che è tutt’altro da quello là, ma discorrono di “cose effettuali, di oggetti esterni o sensibili, di essenze assolutamente singole”, ecc.; ossia essi dicon di tutto ciò soltanto l’universale; quindi ciò che vien chiamato l’ineffabile non è altro che il non-vero, il non-razionale, ciò che vien meramente opinato. Se di una cosa niente altro vien detto, tranne che essa è una cosa effettuale, un oggetto esteriore, allora essa è soltanto un alcunché di molto comune; e si enuncia piuttosto la sua eguaglianza con tutto, che non la sua differenza. Se io lo pongo come qualcosa di effettuale, cioè qualcosa che vedo, che tocco, ecc., qualcosa di reale, come si suole dire, allora questo oggetto esteriore, dice Hegel, è qualcosa di molto comune, e, quindi, si enuncia la sua eguaglianza con il tutto, cioè è una cosa fra le cose. Quando io dico: una singola cosa, io la esprimo piuttosto come un del tutto universale; giacché ogni cosa è una singola cosa; e, ugualmente, questa è tutto ciò che si vuole. Se la cosa noi la determiniamo più esattamente come questo pezzo di carta, ecco che ogni e qualsivoglia carta è un questo pezzo di carta, e io ho pur sempre detto l’universale. Come dire che ciascuna volta che io parlo dico un universale, cioè, dico altre parole, concetti, significati, perché non ho accesso alla cosa in sé, kantianamente. Questa mi si dilegua continuamente, ma si dilegua in quanto non è altro che un pensiero. Questa cosa, che io immagino esistere fuori dal linguaggio, è qualche cosa che io ho costruito con il linguaggio; e, quindi, è un altro universale. Anche se voglio pensarla come qualcosa che è quella che è, quindi come un particolare assoluto, singolare, ecc., rimane un universale, perché rimane un significato, e se è un significato rimane un universale, un concetto, in definitiva, un atto linguistico. …così indico quel pezzo di carta come un qui che è un qui di altri qui, o che è, in lui stesso, un insieme semplice di molti qui, ossia un universale; io lo prendo come esso in verità è, e anziché sapere un qualche cosa di immediato, io lo prendo per vero: io percepisco. E il Secondo Capitolo si chiama appunto La percezione, in cui ci dirà che cosa intende lui con percezione.