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8-7-2015

 

Ci occuperemo dell’ultima parte di “Oltre il linguaggio” di Severino, che è la parte che più ci interessa perché è quella più specificatamente riferita alla questione del linguaggio. La sua idea per potere salvare gli “immutabili” è che qualche cosa ci sia oltre il linguaggio, perché il linguaggio è qualcosa di mobile, di instabile, di cangiante, e questo con gli “immutabili” comporta un problema. Dice: Dopo Hegel il pensiero contemporaneo nega in modo sempre più perentorio l’esistenza di ogni immutabile, la svolta linguistica (quella che lui chiama “la svolta linguistica”) del pensiero contemporaneo perché nega il principio che la parola si riferisca a una cosa che non è parola e cioè perché afferma che non si può uscire dal linguaggio, che certamente non è inteso come semplice aggregato di lettere scritte o di suoni della voce ma come riferimento al significato e che tuttavia è un riferimento dove il significato, “la cosa” si presenta daccapo nella forma della parola e quindi non può sollevarsi al di sopra del cambiamento del divenire della storicità della parola. (ha illustrato quello che diceva prima dell’impossibile uscita dal linguaggio) Si può dire per la tradizione filosofica che la parola si riferisce a una cosa che non è parola (questo nella tradizione filosofica la parola dice la cosa) perché da ultimo esiste una cosa immutabile (appunto la cosa in sé). Con la svolta linguistica (possiamo farla risalire in pratica a Wittgenstein, al Circolo di Vienna, non che non ci fosse prima, ma lì prese corpo in modo più sostanzioso. La “svolta linguistica” indica un momento storico in cui dei pensatori, in particolare Wittgenstein e il Circolo di Vienna hanno incominciato ad accorgersi che non c’è uscita dal linguaggio) si può dire dunque che la tradizione filosofica si riferisce dunque a una cosa che non è parola perché da ultimo esiste una cosa che non è mutabile, con la svolta linguistica si giunge alla negazione di ogni cosa immutabile, perché nella cosa cui si riferisce la parola che è divenire, storicità (c’è la parola con il linguaggio che è inteso generalmente come linguaggio storico, cioè una cosa che cambia col tempo, ma anche mentre ne parlo, non “storico” nel senso di epoche storiche, storicamente determinata nel senso che viene determinata mentre si dice, nel momento in cui si dice) perché dunque nella cosa cui si riferisce la parola si vede daccapo una parola. Non è un caso che Heidegger, riflettendo sul passo aristotelico da cui abbiamo preso le mosse, richiami di Humboldt il concetto dell’influsso del linguaggio sullo svolgimento spirituale dell’umanità, è il principio che il linguaggio inteso nella sua vera essenza è realtà in continuo perenne divenire, non è “ἔργον” ma forza, “ἐνέργεια”, anche Gentile richiama questo passo di Humboldt, sebbene Gentile, in sintonia, a differenza di Heidegger, con l’idealismo di Humboldt, neghi ogni immutabile non perché si possa uscire dal linguaggio ma perché non si può uscire dal divenire dello spirito (e il linguaggio è appunto una forma della realtà spirituale, questo per Gentile) mentre Heidegger richiede che il linguaggio non sia visto in riferimento ad altro, nella fattispecie lo spirito, ma sia esperito dall’interno di ciò che gli è proprio cioè dal linguaggio stesso (questo “In cammino verso il linguaggio” l’avevamo visto qualche tempo fa. In questo capitolo Severino porta tutte le argomentazioni diciamo a favore del linguaggio, a favore della tesi che afferma che il linguaggio è prioritario, che non c’è uscita dal linguaggio, che qualunque cosa è linguaggio e che il linguaggio non può che parlare di se stesso, cioè non può che riferirsi a se stesso, cioè che parla di se stesso, come diceva Novalis, più avanti dice) Per stabilire se qualcosa è capace di apparire al di fuori di un linguaggio qualsiasi è necessario rivolgersi a ciò che effettivamente appare (lui si chiede “è possibile uscire dal linguaggio?” “c’è qualcosa fuori dal linguaggio?”) e tuttavia proprio in questo rivolgersi a ciò che sta dinnanzi manifesto i problemi e le difficoltà si moltiplicano, (quindi ci dice che non è una cosa così semplice affermare che qualcosa è fuori dal linguaggio) comunque se rimane problematico guardando ciò che appare che qualche cosa appaia al di fuori di ogni linguaggio tuttavia è fuori dubbio che la riflessione volta a stabilire il rapporto tra parola e cosa e quindi la possibilità che la cosa appaia al di fuori della parola, è fuori dubbio che tale riflessione si muove all’interno della parola e precisamente all’interno di quella parola che chiamiamo “lingua materna” “fuori dubbio” significa appare. (sta dicendo quali sono i problemi che si devono affrontare quando si pensa che qualcosa sia fuori dal linguaggio) Appare che tale riflessione si muove all’interno di un linguaggio determinato che si sviluppa e si differenzia, (qualunque riflessione noi potremmo dire) e l’interpretazione del cui significato ci costringe ma noi stessi che siamo così costretti, siamo a nostra volta qualcosa che appare all’interno della parola, dunque del cui significato ci costringe ad arretrare sempre più lungo ciò che chiamiamo “storia” e comunque ad allontanarci sempre di più dal centro dove il significato della parola sembra mantenersi più in luce (questo lo dirà dopo, ma è come dire che quando cerco il significato più autentico questo significato mi rinvia ad altri, e più cerco di avvicinarmi e più mi allontano da questa cosa che sarebbe “la luce”). E questo stesso “apparire” appare all’interno delle parole che lo esprimono e il cui significato, come il significato di ogni parola, rinvia ad altre parole all’infinito, la riflessione sul rapporto tra la parola e la cosa non esce mai dalla parola, dal carattere storico della parola il quale tuttavia appare all’interno dell’interpretazione che pone la parola a cui il pensiero appare unito come parola storica (cioè la parola e il significato non sono disgiunti e arriverà a dire in effetti che ciò che non cambia e che è immutabile è il fatto che la parola sia un significato, questo è l’eterno). Anche se l’affermazione “questa è una lampada” (va presa come il nome dell’enunciato) si riferisce non a questa espressione della lingua italiana ossia non è segno di questa espressione ma si riferisce a questa lampada che tuttavia e daccapo in quanto distinta da tale espressione è un significato che è determinato da un’espressione della lingua italiana o da un’altra lingua. ( “questa è una lampada”, questa frase non è la lampada, la lampada che appare è un’altra cosa tuttavia questa lampada che appare è comunque una determinazione linguistica) Queste considerazioni sono analoghe a quelle che l’idealismo rivolge alla teoria realistica della conoscenza, per il realismo le cose sono separate dal pensiero, si costituiscono nel loro significato, nella loro determinatezza indipendentemente dal pensiero (dice il realismo “qui c’è il mio pensiero e lì c’è la cosa, la lampada”), l’idealismo invece obietta che le cose così separate sono pur sempre qualcosa di pensato e quindi sono esse stesse rappresentazione del pensiero, il pensiero è già lì nelle cose dalle quali lo si vorrebbe tenere lontano così come la parola è già là nella cosa che vorrebbe presentare il proprio volto diverso da quello della parola (cioè “la parola è già lì”, quando io mi riferisco a questo accendino nel momento in cui mi riferisco a questo accendino la parola è già lì, questa cosa è già dentro alla parola) solo che ora è il pensiero a presentarsi rispetto alla parola nello stesso modo in cui per l’idealismo la cosa si presenta rispetto al pensiero, il pensiero essendo appunto la cosa che appare cioè la cosa pensata, nonostante il suo distinguersi dalla parola il pensiero si presenta nella forma della parola (cioè neanche il pensiero può essere fuori dalla parola). Se si afferma che il linguaggio è il puro differenziarsi dei segni e dei significati senza alcuna identità permanente, si nega quello che si afferma e cioè si afferma l’identità giacché affermando l’esistenza delle differenze, si afferma il loro essere identiche nel loro essere “appunto” differenze. Affermare che nel linguaggio è assente l’identità e sono presenti soltanto le differenze significa affermare che ciò che vi è di identico nel linguaggio è la differenza dei segni e di ciò di cui essi sono segno. (come diceva De Saussure, “nel linguaggio non vi sono se non differenze”, questa è l’identità, ciò che è identico, ciò che rimane, ciò che permane, quindi l’identico e immutabile è che sono differenze e non altro) D’altra parte dire che i differenti modi di essere segno di qualcosa indicano l’identità in cui qualcosa consiste, non vuole dire che le differenze segniche indicano soltanto qualcosa di identico, ma che il qualcosa da esse indicato non è soltanto una differenza ma è anche necessariamente un’identità semantica, le diverse espressioni che in lingue diverse hanno lo stesso significato hanno anche si sa significati differenti, la differenza non è solo nel segno ma anche nella cosa (cioè nel significato) ciò accade anche per la stessa espressione pronunciata in circostanze differenti comunque qualcosa permane di identico (se io dico che questo differisce da questo qualche cos’altro, questo e il qualche cos’altro permangono con una identità, necessariamente. La questione è complessa a questo punto perché allora c’è un’identità, ma questa identità è fatta di differenza, diventa difficile a questo punto mantenere l’idea che sia un’identità fatta di differenze, anche se lui dice che permane l’identità in quanto delle differenze costituiscono tra loro un’identità che sono differenze). Per altro l’identità che è identità delle differenze non è identità pura, separata dalle differenze ma è identità “avvolta” da una differenza (ricorre a questo stratagemma, che vale quello che vale, però rende conto del suo tentativo di dire come possano permanere l’identità e la differenza, perché ciò che a lui preme è che queste due cose non si escludono, che è esattamente ciò che dicevamo della la parola: ciò che dico è quello che è ma per essere quello che è occorre che sia fatto di infinite altre cose, ma il fatto che sia fatto di infinite altre cose non toglie nulla al fatto che sia quello che è, mentre lo dico, ed è quello che è al solo scopo di poterlo utilizzare, infatti dice che:) L’identità appaia all’interno di una differenza (per esempio fra questo e questo c’è una differenza, sono differenti dove sta l’identità qui? L’identità sta nel fatto che questo è quello che è e quest’altro è quello che è, ma la differenza è identica a sé, che se non lo fosse non sarebbero più differenti, sarebbe un’altra cosa, per cui dice:) Che l’identità appaia all’interno di una differenza non può implicare la negazione dell’esistenza dell’identità, ma è la situazione in cui l’identità non si presenta mai al di fuori della differenza ed è in questo suo essere così avvolta anche se non in quanto così avvolta che essa è l’identità della differenze, identità è poi ciò che vi è di identico in tutte le identità alle quali il linguaggio si rivolge eccetera (che è esattamente quello che vi dicevo prima, il fatto che sia avvolta dalla differenza sta a significare che questa identità sta all’interno di qualcosa che si costituisce in quella situazione come differenza fra questo e questo) Il destino della verità (è l’incontrovertibile) appare all’interno del linguaggio (e questo già è importante) appare nel suo essere espresso dalla parola, anche questa parola è una molteplicità di modi di essere segno del destino della verità (lui si accorge che qui c’è un problema perché è la parola a esprimere il “destino della verità” cioè l’immutabile, la parola che invece è mutabilissima) ma anche in questo caso il destino della verità è l’identità presente in quella molteplicità, l’identità a cui si riferisce un insieme infinito di differenze segniche (“nel linguaggio non vi sono se non differenze” De Saussure) ma ciascuna di queste differenze per essere differenza deve essere identica a sé, ma questa identità potrei negarla, solo essa che innanzi tutto è la struttura originaria del destino cioè dello stare della verità è l’innegabile, (è innegabile che perché ci sia differenza, questa differenza deve essere differenza e non appunto una scatola di fagioli borlotti, vedete che dopo tutto è abbastanza semplice quello che dice il nostro amico Severino nel momento in cui si incomincia a intendere bene, poi :) In quanto tale identità è l’innegabile, essa permane come innegabile nell’infinito differenziarsi del linguaggio che lo esprime (ogni differenza è identica a sé) e la connessione e il rinvio del suo significato all’infinità dei significati varianti e storicamente condizionati, non può determinare la sua negabilità anche se quella connessione, quel rinvio determinano quello specifico contraddirsi dell’innegabile che è stato analizzato nel capitolo 8 della “Struttura originaria” la contraddizione C. Anche l’identità in cui consiste il destino innegabile della verità appare, (cioè la verità appare come verità quindi come identica a sé) appare proprio in quanto distinta dalle differenze segniche che la esprimono (la verità si può esprimere in tanti modi ma la verità se è verità è quella che è, poi che cosa sia questo è un altro discorso, che lui intanto non prende mai in considerazione se non in un circolo vizioso “la verità è l’identità a sé dell’essente” ma detto questo occorrerebbe specificare “l’identità a sé dell’essente” cioè nega quell’affermazione che nega la sua contraria, ma riprenderemo tra un attimo questo, diceva) ossia all’interno di una certa lingua storica che a sua volta nel suo ridire all’infinito l’innegabile è una serie di differenze (la stessa cosa può dirsi in modo finito, Severino sa perfettamente che ridicendo una cosa non dico la stessa, dico un’altra cosa, che sarà quella che è comunque e sarà identica a sé e non un’altra) ma questo non ha nulla a che vedere con la tesi che l’innegabile, il destino, l’autonegazione della negazione dell’innegabile eccetera costituiscano il gioco di un certo linguaggio, circondato e smentito da altri giochi linguistici (In effetti ciò che noi abbiamo elaborato in tutti questi anni è ciò che per moltissimi versi, ciò che Severino chiama “la struttura originaria” e cioè il linguaggio. Il linguaggio è mutevolissimo, storicamente determinato, ogni volta che parlo cambia tutto però, Severino come salva l’immutabile all’interno di una struttura del genere? Lui dice che la struttura originaria è sì contenuta (avvolta) nella differenza, ma a sua volta tutte queste differenze avvolgono l’identità, perché tutte queste differenze sono identità, la differenza è una differenza. Pensate a De Saussure, vi ricordate che lui distingue fra Langue e Parole, ora ciò che fa qui Severino è qualcosa di molto simile a quella che aveva proposto De Saussure, in effetti la struttura originaria, cioè l’immutabile, l’eterno, quel ciò che non cambia mai, il Tutto, Tutto che è lì, perché è Tutto? Perché non può essere modificato dal tempo, non può essere modificato da qualcosa che entra ed esce a suo piacimento, in questo senso è il Tutto, il Tutto come la totalità degli enti quindi delle parole, poi leggevamo la volta scorsa mi sembra nell’“Essenza del nichilismo”, questi enti possono apparire o scomparire ma sempre e comunque in una sorta di comparizione e sparizione che rientra all’interno di questo Tutto, non scompare ma rimane, ma non è che non c’è più come vuole il nichilismo che fa apparire e scomparire nel nulla, né scompare né compare dal nulla, semplicemente appare o scompare quella determinazione, ma quella determinazione è nel Tutto, non può non esserci perché lui sosteneva che non può apparire qualcosa se non appare l’apparire, cioè se qualche cosa non si offre in qualche modo e consente alle cose di venire all’apparire, questo apparire dell’apparire, ciò che consente l’apparire dell’apparire è la struttura originaria cioè il Tutto. Ora pensate alla nozione di Langue di De Saussure che è l’infinita possibilità delle esecuzioni linguistiche, quella “nebulosa” in cui ci sta dentro tutto, è tutto compreso in un certo senso, la Parole è l’esecuzione determinata della parola, quando dico “rosso” questa è Parole perché determina un qualche cosa all’interno di una Langue che comprende anche questa parola “rosso” e tutte le altre. Vi dicevo che c’è una notevole prossimità, e forse serve a comprendere meglio il pensiero di Severino, tra la nozione di Langue e il Tutto, Tutto in cui è compreso ogni elemento, ma non perché questo tutto sia un insieme posto da chissà quale parte, è costretto ad affermare questo Tutto perché si è accorto che logicamente è incoerente affermare che una cosa viene dal nulla e torna nel nulla, non può venire dal nulla e tornare nel nulla perché se così facesse l’Essere sarebbe non essere, e quindi c’è una contraddizione insormontabile, allora se non può uscire dal nulla per tornare nel nulla allora è Eterno, è questo che gli fa parlare dell’ “eterno” non che sia qualche cosa messo da chissà quale parte, semplicemente è una concettualizzazione logica. Ma dicevo che la Langue di De Saussure è molto vicina e soprattutto può essere utile per intendere questa nozione di “Tutto” di “Incontrovertibile” di Severino e cioè di quella situazione che non è negabile perché per negarla devo auto negarmi. Il Tutto per Severino è un concetto logico inevitabile, ed è inevitabile per i motivi che vi ho detto, perché se non fosse Tutto, cioè se mancasse qualcosa, vorrebbe dire che qualcosa è scomparso nel nulla, se qualcosa scompare nel nulla allora l’Essere è ma anche non è, cosa che comporta una contraddizione insostenibile e quindi è necessario che ci sia il Tutto) È necessario che l’identità appaia se la parola è un riferirsi alla cosa (la parola si sa è un riferirsi a qualche cosa, per esempio adesso mi sto riferendo a Cesare, “se la parola è un riferirsi alla cosa”, cosa vuole dire questo? Che se la parola si riferisce a qualche cosa questo qualche cosa occorre che sia un qualche cosa, ma un qualche cosa di determinato perché la parola si rivolge a quella cosa non a un’altra, e allora dice: “la necessità autentica appartiene all’innegabile” e questa necessità è il fatto che è necessario che l’identità appaia, se la parola è un riferirsi alla cosa. Prendiamo il significato, il significato è un rinvio, ma un rinvio è un rinviare da una cosa a un’altra cosa, se la parola rinviasse a nulla la parola sarebbe nulla, questo lo dice anche Severino da qualche parte, e poi dice:) ma non è necessità che una certa parola sia segno di una certa cosa e nemmeno che una cosa sia segno di un’altra (questo lo diceva già De Saussure, che un significante abbia un certo significato è arbitrario, non è arbitrario che abbia un significato qualsivoglia, questo non è arbitrario ma è necessario che sia, perché altrimenti il significante è nulla a quel punto perché non ha significato, che è la stessa cosa che sta dicendo qui) ora che una cosa sia segno di un’altra è un “voluto”, non si tratta di una volontà arbitraria in un cui l’uomo si rapporta ogni linguaggio come egli si rapporta i linguaggi artificiali, l’uomo si trova ad essere quella volontà, il suo trovarsi già da sempre nel linguaggio è appunto il suo trovarsi ad essere quella volontà, (questo è molto importante, non si tratta di una volontà arbitraria l’uomo si trova a essere quella volontà che è una volontà di potenza, anche se non lo dice qui forse lo dice da qualche altra parte, perché si trova ad essere quella volontà? Perché è nel linguaggio, perché è fatto di linguaggio) il suo trovarsi già da sempre nel linguaggio è appunto il suo trovarsi ad essere quella volontà (cioè quella volontà procede dal linguaggio, la volontà di potenza procede dal linguaggio, dalla sua struttura metafisica, questo non lo dice espressamente, lo sto dicendo io, non voglio fargli dire cose che lui non dice, ma parla di volontà interpretante, che è la volontà di attribuire a un certo significato quel significato e non un altro, ma non può non fare questo, quale sia il significato è irrilevante ma non può non fare questo, non può non trovarsi all’interno di una volontà “interpretante” cioè una volontà di potenza, perché la volontà di potenza è una volontà interpretante, di interpretare, dare un senso, un significato alle cose, sapere come stanno finalmente le cose. Dunque:) L’originarietà dell’innegabile (l’innegabile è sempre l’incontrovertibile, l’essere sé) consiste dunque nell’impossibilità che ciò la cui negazione è autonegazione sia affermato sul fondamento di altro, (l’impossibilità che qualcosa sia affermato sul fondamento di altro”, questo secondo lui è l’originarietà dell’innegabile, cioè per lui l’innegabile è ciò che è quello che è unicamente perché stabilisce che l’affermazione che lo nega è autonegazione, si nega da sé. Per Severino l’originarietà dell’innegabile consiste nel fatto che questa innegabilità non viene da qualche cos’altro ma viene dalla cosa stessa, la cosa stessa che è quella che è perché se la nego allora questa stessa negazione che la nega, si auto nega) l’originario non ha quindi nulla a che vedere con ciò che si presenta per la prima volta (l’originario non è ciò che è lì per la prima volta dall’origine dei tempi eccetera, no, ma è lì adesso, ciascuna volta e in questo è esattamente la cosa che poneva per esempio Verdiglione, ma anche Derrida) o con l’istante quale sembra essere l’originario husserliano almeno nell’interpretazione datane da Derrida, (cioè non è nell’istante ma il fatto che questa autonegazione non è negata da un’altra cosa che quindi si porrebbe come la condizione dell’innegabile, perché c’è qualche altra cosa che lo stabilisce, e invece l’innegabile si stabilisce da sé escludendo ciò che non è, cioè escludendo l’altro da sé, non ha bisogno di altro in questo per lui consiste l’originarietà) Nella tradizione filosofica occidentale la verità è primariamente il senso stabile della totalità degli essenti (questa è la verità nell’accezione filosofica più comune, che gli essenti stanno lì, fermi, stabili, immobili e non hanno bisogno di niente e di nessuno) stabile perché non si lascia travolgere dal divenire del mondo ma lo domina, lo rende possibile (da qui la parola greca ἐπιστήμη, letteralmente lo stare sopra, quindi domina. La verità epistemica è la verità che domina su tutto, sul divenire in modo particolare) il dominio della verità non intende essere un evento che si produce nel tempo cioè all’interno del divenire, il dominio è già da sempre (questo aggiunge qualche cosa a ciò che dicevamo prima, ciascuno di questi due elementi è identico a sé perché non è altro da sé, e la differenza anche lei è identica a sé, in questo senso è già da sempre se stessa, ma un “sempre” che non è, non si produce nel tempo, è questo importante, cioè all’interno del divenire, il dominio cioè lo stare immobile, l’elemento che è quello che è, è già da sempre, ma è un sempre che non è temporale, non si dispiega nel tempo, ma è l’innegabile. Qui è facile confondersi perché “sempre” uno lo pensa come qualcosa che permane nel tempo, un perdurare nel tempo e invece non è esattamente così “è sempre” in quanto non può essere, mettiamola così “violato” dal tempo cioè dal divenire, solo in questa accezione) la verità è potenza, energia, atto, forza e la potenza agisce sul divenire delle cose cioè sulla vicenda in cui esse: eventi, pensieri, linguaggi, sgorgano dal niente e vi ritornano (questo per dire che la verità dell’essente è ciò che domina il divenire) Nella sua essenza il destino della verità (cioè la verità che nell’apparire totale dell’essente ossia di ciò che è identico a sé e altro dal proprio altro, cioè è questo il destino della verità, lo rileggo “l’apparire della totalità dell’essente ossia di ciò che – la determinazione del significato – è identico a sé e altro dal proprio altro” questo è il destino della verità.) L’Occidente non riesce a pensare l’esser sé dell’essente, non riesce a pensare che proprio perché l’essente è se stesso esso è altro dal proprio altro e quindi da quel proprio altro che è il niente, e proprio perché l’essente non è il niente è impossibile che l’essente non sia, ossia ogni essente è eterno (dice che ogni essente essendo se stesso è altro dal proprio altro, se è sé stesso non è un’altra cosa, e quindi da quel proprio altro che è il niente, diciamo che è l’altro più radicale, che proprio perché l’essente non è il niente, se in nessun modo può essere il niente, è impossibile che l’essente non sia, se impossibile che sia nulla necessariamente è, da cui conclude che ogni essente è eterno. Quando parla qui di essente indica ciò che è, è ciò che è che non è altro da sé) In quanto negazione della propria negazione la verità del destino non è annientamento della propria negazione (se io dico che ciò che è altro dall’essente non c’è, non c’è quindi la negazione dell’essente, dunque non è un qualche cosa ma è nulla, è assolutamente, niente quindi non annienta la propria negazione, semplicemente non c’è, perché annientandola la considererebbe come un ente, sarebbe qualche cosa: se l’anniento è qualcosa) quindi non nientifica la propria negazione essa vede (la verità del destino) ossia in essa appare che il contenuto della propria negazione è niente, vede il niente come niente ossia non pone come niente, non annienta qualcosa che essa riconosca come essente (come dicevo prima, per potere dire che è niente o per poterla negare in qualche modo devo comunque farla esistere e se la faccio esistere allora siamo daccapo nel divenire, cioè l’Essere è nulla) Il suo (destino della verità)essere negazione della propria negazione, è appunto il vedere la nientità del niente di cui consiste il contenuto della propria negazione, il destino nega in quanto è l’apparire della nientità del niente di tale contenuto, che invece nella negazione del destino è posto, creduto, voluto come un non “niente” (ha aggiunto che se nella negazione della verità del destino, cioè nel divenire, nella terra isolata, o nel falso è posto invece come un qualche cosa che viene negato, quindi è creduto come un non niente, comunque è un qualche cosa appunto) e questa posizione “l’errare” è negata dal destino appunto perché esso vede che tale posizione è fede, volontà, fede nella non nientità del niente (perché crede che il “niente” sia qualcosa) fede per altro che non è essa un niente e che in quanto essente appare a sua volta nel destino come ciò che è impossibile che non sia, come eterna (questa è un aggiunta che fa lui non del tutto essenziale. Più avanti mette in atto quel tentativo di cui dicevo prima di trovare una soluzione a un problema, e cioè al fatto che la verità dell’Essere cioè il destino della verità è qualche cosa che compare nel linguaggio, e il linguaggio è sfuggente, cangiante, mutevole, quindi se la verità del destino appare all’interno di questa cosa, c’è l’eventualità che anche la verità dell’Essere sia qualcosa di altrettanto mutevole, però abbiamo visto come risolve il problema, in realtà dice “è vero” cioè non può non ammettere che la verità dell’Essere non appaia se non nel linguaggio, però dice) L’identità è l’essere sé dell’essente, il suo essere sé e non altro ma l’identità in questo suo significato fondamentale non è qualcosa di diverso dalla permanenza dell’essente, la permanenza dell’essente è l’identità stessa ma non in quanto essa è tale bensì in quanto essa permanendo nell’apparire è in relazione a ciò che non permane che cioè sopraggiunge nell’apparire e ne esce, è la diversità dei modi di parlare della cosa è appunto un sopraggiungere e un andarsene di quelle cose che sono le parole della cosa giacché i diversi, infiniti modi di parlare della cosa non sono detti tutti insieme ma in una successione che è tale in relazione al permanere dell’identità (dunque la permanenza dell’essente è l’identità stessa, ma non in quanto essa è tale ma “in quanto essa permanendo nell’apparire è in relazione a ciò che non permane che cioè sopraggiunge nell’apparire e ne esce”. Questo è il modo in cui lui incomincia ad articolare una questione fondamentale e cioè che ogni elemento linguistico è tale in quanto connesso con tutti gli altri elementi linguistici, non può porre la questione in questi termini perché gli si creerebbero dei problemi rispetto agli immutabili, e allora dice non che l’elemento linguistico è tale in quanto connesso con tutti gli altri, che vanno e vengono, ma in quanto connesso con tutti gli immutabili, che è la questione di cui dicevamo prima di De Saussure, anche se De Saussure non lo dice in questi termini, però è come se ciascuna possibilità di esecuzione della Langue fosse simultaneamente connessa con tutte le altre, che poi per altro è la nozione di struttura, però per Severino non sono nella Langue ma sono in questo Tutto ed è lì che una cosa appare. Questa penna la metto di dietro al libro ma non è che è scomparsa, è sempre in questo Tutto perché soltanto se permane in questo Tutto questa penna è una cosa, soltanto a questa condizione se io la levo da quel Tutto allora questo elemento non è più in connessione con tutti gli altri elementi immutabili e questo aggeggio scompare nel nulla, quindi deve mantenere questa chiamiamola “idea di struttura” tra virgolette però dove tutti gli elementi di cui è fatta questa struttura sono elementi immutabili, immutabili significa identici a sé, ciascuna cosa è quella che è e non è altro da sé. Ciò che permane è la relazione con gli altri, esattamente come diceva De Saussure rispetto al significante e al significato, il significante ha un significato, ma quale non ci interessa, ma questa relazione è necessario che sia, tra la parola e un’altra parola. La parola non può non avere un significato, quale che sia non ci interessa, ma se non ha un significato, se non è in relazione con un’altra parola non è una parola, ed è questa relazione che è necessario che sia quella che è. Ciò che è eterno è che una parola è in relazione con un’altra, quale parola e quale altra non ci interessa, ciò che non può non essere è che una parola sia un significato, cioè sia in relazione con un’altra, questo è eterno, ciò che non muta è che una parola, un significato sia connesso con un altro significato. Sta dicendo che ciò che è necessario è che ciascuno di questi elementi che appaiono in quanto eterno è da sempre, cioè innegabilmente connesso con altri elementi eterni e il Tutto di questi elementi eterni lui la chiama “la struttura originaria”. Se un elemento viene isolato, cioè non ha più un significato è niente. Se tolgo una parola dal linguaggio, per ipotesi, un’ipotesi assurda ovviamente, questa parola non è più parola perché per essere parola deve essere connessa con altre parole quindi è niente, una volta isolata, tolta da questo tutto, tolto l’elemento che appare, tolto dal tutto resta il niente, resta niente, per questo Severino parla del Tutto come la totalità degli enti immutabili. È necessario che ci sia questo Tutto per mantenere in piedi la sua posizione intorno all’incontrovertibile, perché è come dire che anziché come De Saussure che ogni elemento è connesso con ciascun altro per essere quello che è, lui dice “non proprio ciascun elemento che appare, appare in quanto immutabile, ma è già presente in questa, adesso uso parole che lui non apprezzerebbe, in questa relazione totale con gli altri elementi. La semiotica parla di una relazione con tutti gli altri elementi, lui parla di Immutabili che sono presenti all’interno del Tutto, non c’è una grandissima differenza solo che ponendola sotto il verso della semiotica c’è l’eventualità che questi Immutabili non siano proprio immutabili e questo gli creerebbe qualche problema.