8 giugno 2022
Moira (in Saggi e discorsi) di M. Heidegger
Questa sera leggeremo un breve saggio di Heidegger del 1950, Moira, inserito in Saggi e discorsi, Mursia, 1976. A pag. 158. Il rapporto di pensiero ed essere muove tutta la riflessione dell’Occidente. Esso rimane l’invisibile pietra di paragone in riferimento alla quale si può vedere fino a che punto e in che modo sono accordati il favore e la facoltà di pervenire nella vicinanza di ciò che si annuncia all’uomo storico come il da-pensare. Parmenide parla di questo rapporto nella sua sentenza (frammento III): τό γάρ αύτό νοείν έστίν τε καί εἶναι, “Poiché lo stesso è pensiero e essere”. Parmenide spiega la sentenza in un altro punto nel frammento VIII, 34-41. Il passo suona: “Lo stesso sono il pensare e il pensiero che è; poiché non senza l’essente in cui esso è come l’espresso puoi tu trovare il pensiero. Certo nulla è e nulla altro sarà al di fuori dell’essente, poiché la Moira gli ha imposto di essere un tutto e immobile. Perciò sarà un puro nome tutto ciò che i mortali, convinti che sia vero, hanno fissato: “divenire” coì come “perire”, “essere” così come “non-essere” e “mutare di luogo” così come “cambiare dei colori che risplendono” (trad. di W. Kranz). Parmenide dice che pensare e essere sono la stessa cosa. … poiché non senza l’essente in cui esso è come l’espresso…, il detto, … puoi tu trovare il pensiero, cioè, il pensiero lo trovi nel detto, nel dire, il pensiero si dice, si esprime: se non si dice non è pensiero. Heidegger inizia qui con tre interpretazioni rispetto a questa sentenza di Parmenide, ne leggiamo solo il riepilogo. A pag. 162. La prima delle tre prospettive che determinano tutta l’interpretazione della sentenza di Parmenide vede il pensiero come qualcosa di fattualmente esistente e lo annovera tra il resto degli essenti. Essere è pensare, quindi, anche il pensiero è qualche cosa, quindi, anche il pensiero è. Questa sarebbe la prima banalissima interpretazione. La seconda prospettiva concepisce l’essere, conformemente alla mentalità moderna, nel senso della rappresentatezza di oggetti come oggettità per l’io della soggettività. Per questa seconda interpretazione l’essere è pensare, nel senso che l’essere non può darsi che per il soggetto che pensa l’essere. La terza prospettiva segue un tratto fondamentale della filosofia antica quale fu determinata da Platone. Secondo la dottrina socratico-platonica le idee costituiscono, in ogni essente, ciò che è essente. Le idee però non appartengono all’ambito degli αίσθετά (percepiti), cioè di quello che può essere percepito sensibilmente. Le idee sono visibili in modo puro solo nel νοεῖν (pensiero), nella percezione non sensibile. Questo ci interessa poco perché la cosa importante è nel capitolo primo, a pag. 163, dove dice: In discussione è il rapporto tra pensiero ed essere. È di questo che si tratta. In fondo, tutta il pensiero ha giocato intorno a questi due termini: l’essere e il pensiero, l’immanente e il trascendente e tutte le varie dicotomie. Prima di tutto dobbiamo fare attenzione che il testo (VIII, 34 ss.) che considera più a fondo il rapporto parla di έόν (essente) e non, come il frammento III, di εἶναι (essere). Subito, e con una certa ragione, viene da pensare che nel frammento VIII ciò di cui si parla non sia l’essere, ma l’essente. Tuttavia, Parmenide, sotto il nome di έόν, non pensa affatto l’essente in sé, al quale, in quanto tutto, anche il pensiero appartiene perché è qualcosa di essente. Parimenti, έόν non significa l’εἶναι nel senso dell’essere per sé, come se al pensatore stesse a cuore di mettere in rilievo il carattere non sensibile dell’essere di contro all’essente inteso come ciò che è sensibile. L’έόν, l’essente, è invece pensato nel di-spiego (Zwiefalt)… Questa traduzione è stata fatta da Vattimo, non da Volpi. Lui traduce Zwiefalt con di-spiego. Di-spiego non è altro che la relazione, come dice subito dopo, di essere ed essente. Se noi intendiamo il di-spiego come relazione, allora diventa più chiaro ciò che sta per dire. L’essente è ciò che è, l’essere è ciò che gli dà la sua enticità: significante e significato. L’essente è ciò che è, è l’immanente; l’essere è il trascendente, che non si vede, mentre l’essente posso vederlo, toccarlo, ecc. A pag. 164. L’“essere stesso”, di cui tanto si parla, resta in verità, fino a che è esperito come essere, sempre (solo) essere nel senso di essere dell’essente. È l’essere di qualche cosa. Pensate a cosa dicevamo l’altra volta: il mio dire e ciò che il mio dire dice; il mio dire è l’essente, è ciò che è, l’immanente, ma ciò che fa del mio dire un dire è ciò che il mio dire dice, cioè, l’essere. Tuttavia il compito che il pensiero occidentale si trova ad adempiere ai suoi inizi è quello di cogliere ciò che è detto nella parola εἶναι, essere, con uno sguardo adeguato, intendendolo come Φύσις (Natura), Λόγος (Linguaggio), Εν (Uno). Poiché il riunire che vige nell’essere unifica ogni essente, il pesare a questo riunire produce l’apparenza inevitabile e sempre più ostinata che l’essere (dell’essente) non solo sia identico con l’essente nella sua totalità, ma anche che, in quanto identico e insieme però unificante, esso sia anche il più essente. Tutto per il rappresentare diventa essente. Noi abbiamo a che fare con gli essenti, gli enti. Non abbiamo a che fare con l’essere, ma con l’ente; l’ente è ciò che è, qualunque cosa sia, mentre l’essere è ciò che fornisce all’ente la sua enticità. Il mio dire lo ascoltate, sono articolazioni di suoni che si compongono in frasi, in proposizioni, ecc., ma il significato, ciò che il mio dire dice, non lo sentite, non lo vedete, ma senza questo non ci sarebbe neppure il mio dire. Qui lo spiega bene: l’essente e l’essere non sono separabili e il di-spiego è questa relazione fra i due inseparabili. Il di-spiego di essere ed essente sembra come tale dileguare nel niente, benché il pensiero, a partire dai suoi inizi in Grecia, si muova sempre all’interno del suo dispiegare, senza tuttavia riflettere su questa collocazione, e ancor meno ricordandosi del dispiegarsi del di-spiego. Nell’inizio del pensiero occidentale accade l’inosservata sparizione del di-spiego. Ma essa non è un nulla. La sparizione garantisce anzi al pensiero greco il modo di essere dell’inizio: cioè il fatto che l’illuminazione-apertura (Lichtung) dell’essere dell’essente si nasconde in quanto tale. Abbiamo a che fare con l’essente, l’essere si nasconde: nel momento in cui c’è l’essente non c’è l’essere. Questa è una delle tesi più importanti, presente anche in Essere e tempo, e cioè che l’essere si manifesta come ente o, per dirla con Severino, il concreto si manifesta negli astratti, il concreto non si vede. Se prendete l’esempio che fa Severino, “Questa lampada che è sul tavolo” è il concreto, è il tutto, ma ciò che vedete è questa lampada, ma potete vederla solo perché c’è il concreto, perché c’è un mondo in cui questa lampada esiste e in cui ciascuno di noi esiste, sennò la lampada non sarebbe mai esistita. Di fatto, però, ciò con cui abbiamo a che fare è questa lampada, cioè con l’astratto. Capitolo II, pag. 164. In tutta brevità, il frammento III dice che il pensiero appartiene all’essere. Come dobbiamo caratterizzare questa appartenenza? La domanda giunge troppo tardi. Nella sua concisione, la sentenza ha già dato la risposta con le sue prime parole: τό γάρ άυτό, invero il Medesimo. Γάρ si traduce con “poiché”, quindi “poiché lo stesso. Con la stessa parola comincia la redazione della sentenza nel frammento VIII, 34: ταὐτον. Questa parola fornisce una risposta alla domanda circa il modo in cui il pensiero appartiene all’essere, per il fatto di dire che essi sono la medesima cosa? La parola non dà alcuna risposta. Anzitutto, perché la definizione “il Medesimo” fa tacere ogni domanda su una possibile connessione, in quanto questa può sussistere solo fra cose distinte. In secondo luogo, perché la parola “il Medesimo” non dice assolutamente nulla circa l’aspetto e il fondamento rispetto a cui le due cose diverse coincidono nel Medesimo. Perciò in entrambi i frammenti, se non addirittura in tutto il pensiero di Parmenide, τό άυτό, “il Medesimo”, rimane la parola-enigma. È anche la parola chiave, perché questo τό άυτό, lo stesso, indica la simultaneità di essere e pensare, anzi, nell’ordine parmenideo, di pensare e essere. A pag. 165. Parmenide ci offre un aiuto. Nel frammento VIII egli dice più chiaramente come debba essere pensato quell’”essere” a cui il νοεῖν appartiene. Invece di εἶναι, Parmenide dice ora έόν, l’“essente”, che nel suo duplice senso designa il di-spiego. Ma il νοεῖν si chiama qui νόημα: ciò a cui è prestata attenzione da parte di un percepire attento. Sarebbe il pensato. L’έόν viene propriamente designato come quello οὕνεκεν ἒστι νόημα, ciò per cui è presente pensiero. Il pensiero è presente a motivo del di-spiego (relazione) che rimane non detto. La relazione non viene detta. La relazione tra il mio dire e ciò che il mio dire dice non viene detta, ma c’è imprescindibilmente. Siamo ancora molto lontani dal cogliere in maniera adeguata alla sua essenza il di-spiego stesso e cioè, insieme, il di-spiego in quanto esso esige il pensiero. È la relazione che esige il pensiero. Adesso vediamo come. Solo una cosa è chiara dal dire di Parmenide: il pensiero non è presente né a cagione degli έόντα, dell’“essente in sé”, né al servizio dell’εἶναι nel senso dell’“essere per sé”. Con questo si vuol dire: non è l’“essente in sé” che esige un pensare, né è l’“essere per sé” che lo rende necessario. Né l’uno né l’altro, presi ciascuno per sé, ci faranno mai conoscere in che misura “essere” esige il pensiero. Ma a cagione del di-spiego dei due, a cagione dell’έόν, il pensiero è. Il pensiero è questa relazione. È volgendosi verso il di-spiego che il prestare-attenzione è presente come avvicinarsi all’essere. In tale esser-presente-avvicinandosi il pensiero appartiene all’essere. Capitolo III, pag. 166. Parmenide dice che il νοεῖν è πεφατισμένον έν τῷ έόντι. Si usa tradurre: il pensiero, che come l’espresso è nell’essente. Πεφατισμένον è l’espresso, il detto, non è molto lontano dal λεγόμενον. Il pensiero, in quanto detto, è nell’essente. L’essente è ciò che si manifesta, ciò che è qui, è il pensiero in quanto detto. C’è un pensiero che possa non dirsi? Non sto dicendo dirsi ad alta voce, ma che possa dirsi anche fra sé e sé. Tuttavia, come potremmo essere capaci di cogliere e capire questo essere-espresso, fino a che non ci preoccupiamo affatto di sapere che cosa significhino qui “detto”, “parlare”, “linguaggio”, fino a che intendiamo frettolosamente l’έόν come l’essente e lasciamo indefinito il senso di essere? Come possiamo conoscere il rapporto del νοεῖν al πεφατισμένον… Il pensiero e l’espresso sono due momenti dello stesso. Un pensiero che non è espresso non è pensiero: il pensiero si esprime, c’è, nel momento in cui si pensa. Il νοεῖν, di cui vogliamo considerare l’appartenenza all’έόν, si fonda e dispiega il suo essere a partire dal λέγειν (discorso). In questo accade il lasciar-stare-dinnanzi il presente nella sua presenza. Per Heidegger qui λέγειν è il lasciar-stare-dinnanzi il presente nella sua presenza. Di conseguenza il νόημα come νούμενον del νοεῖν è già sempre un λεγόμενον del λέγειν. Come dicevo prima, il νόημα, il pensato del pensiero, è già sempre un detto, un λεγόμενον. La parola greca πεφατισμένον indica proprio questo: l’espresso, ciò che si esprime. Ma nel λέγειν riposa l’essenza del dire così come era esperita dai greci. I greci la esperivano così: il λέγειν come ciò che si presenta, come ciò che dice il presentarsi di qualche cosa. Il νοεῖν perciò è per sua stessa essenza, e non ma solo secondariamente o accidentalmente, qualcosa di detto. Il pensiero è necessariamente qualcosa di detto. In che consiste la differenza tra il detto e il pronunciato? Perché Parmenide caratterizza il νούμενον (pensato) e il νοεῖν (pensare) come πεφατισμένον (espresso)? La parola è tradotta esattamente, dal punto di vista lessicale, come “pronunciato, parlato”. Ma in che maniera viene vissuto un parlare che è designato con termini come φάσκειν e φάναι? Sono tutti termini che vengono da phaor, parlare, da cui infante, colui che non parla. Parlare sta qui solamente a indicare la manifestazione sonora (φωνή) di ciò che una parola o una frase significano (σημαίνειν)? Il parlare è qui inteso come espressione di un interno (dell’anima) e in tal modo diviso nei due aspetti fonetico e semantico? Niente di tutto questo si trova nella esperienza del parlare come φάναι, del linguaggio come φάσις. In φάσκειν si trovano il chiamare, il nominare laudativo, il chiamarsi nel senso di aver nome; tutto questo, però, solo in quanto φάσκειν dispiega il suo essere come asciar-apparire. Qui lui gioca con gli etimi, cosa che gli piaceva e che gli riusciva anche bene. Φάσμα è l’apparire delle stelle, della luna, il loro manifestarsi e il loro nascondersi. Φάσεις designa le fasi. I vari modi dell’apparire della luna sono le fasi lunari. Φάσις è la parola che dice, la saga; dire significa “fare apparire”. Φημί, io dico, ha la stessa essenza, benché non uguale di λέγω: portare la cosa presente, nella sua presenza, all’apparire e allo stare. A pag. 167. In che senso il νοεῖν può, il pensiero deve necessariamente, apparire nel di-spiego? Nella misura in cui il dispiegarsi in cui si produce il di-spiego di presenza e cosa presente, e-voca il λέγειν, il lasciar-stare-dinnanzi, e nel darsi così liberato di ciò che sta-dinnanzi dà al νοεῖν ciò a cui esso può prestare attenzione, al fine di preservarlo in questa. Sembra complicato ma non lo è. Si chiede: in che modo il pensare appartiene alla relazione? Come la relazione di presenza e di cosa presente… La presenza è l’immediato, l’immanente, il significante; la cosa presente è la sua essenza, il suo significato. C’è una presenza di qualcosa, ma la cosa presente è il significato di questa presenza. È ancora la questione del dire e di ciò che il dire dice. Tutto questo evoca il λέγειν, naturalmente: il lasciar-stare-dinnanzi, e nel darsi così liberato di ciò che sta-dinnanzi dà al νοεῖν ciò a cui esso può prestare attenzione, al fine di preservarlo in questa. Sta dicendo una cosa straordinaria se ascoltata, e cioè che è soltanto in questa relazione di presenza e cosa presente accade che la cosa presente produca la presenza. E lo dice così: dà al νοεῖν, a questo movimento, ciò a cui esso può prestare attenzione, al fine di preservarlo in questa, cioè, dà a questo movimento tra la presenza e la cosa presente, dà al pensiero qualcosa da pensare. Che cos’è che è da pensare? La presenza, naturalmente. Poi dirà che cosa è accaduto al pensiero per cui la cosa presente è stata cancellata a vantaggio dell’unica presenza: è la Moira che impone questo. Ma questo lo vedremo dopo. Sta dicendo come si crea il linguaggio, come si producono le cose: c’è la semplice presenza, ciò che vedo, l’apparire, e la cosa presente, che è ciò che, uso un termine un po’ rozzo, sta sotto alla presenza, come la trascendenza rispetto all’immanenza, come il significato rispetto al significante. C’è il significante che è presente, ma senza il che cosa della presenza, senza il suo significato, il significante è nulla. Quindi, ci sta dicendo che questo movimento, questa relazione, è esattamente ciò che produce quella cosa che noi volgarmente chiamiamo realtà. Come facciamo a sapere della presenza, che qualcosa ci è presente, come lo sappiamo, se non attraverso il che cosa della presenza? Questo aggeggio posso dire che è presente ma lo posso dire perché so che cosa? Che è qualcosa, in questo caso un accendino. Solo allora diventa presente. Il discorso che sta facendo, che di primo acchito potrebbe apparire complesso, è in realtà quello che fa Hegel rispetto all’in sé e al per sé. Il per sé offre all’in sé la sua inseità, lo fa esistere in quanto tale, e da quel momento esiste: non esisterebbe senza il per sé, senza il suo significato. Significato che sappiamo essere l’indeterminato, mentre la presenza appare come il determinato, perché la vedo, è quella. Ma come posso definire qualcosa se non attraverso dei significati, cioè, attraverso l’indeterminato? E torniamo alla questione del finito e dell’infinito. La questione è la stessa che interviene in infiniti modi, ma è sempre questa. Solo che Parmenide non pensa ancora il di-spiego come tale; egli non pensa affatto il dispiegarsi del di-spiego. Non coglie ancora la questione della relazione in atto, e cioè che questi due momenti che lui individua, pensare e essere, sono simultanei. Ma cosa vuole dire che sono simultanei? Non che avvengono nello stesso momento, non è questo il punto, ma che non possono separarsi in nessun modo, per cui se io tolgo l’uno tolgo anche l’altro. …non infatti separato dal di-spiego tu puoi trovare il pensiero. /…/il pensiero, insieme con l’έόν e appellato da questo, appartiene al riunire;… Ricordate l’Aufhebung di Hegel. …perché il pensiero stesso, riposando nel λέγειν, compie il riunire appellato e così corrisponde alla propria appartenenza all’έόν come appartenenza che da questo stesso è adoperata e salvaguardata. Giacché il νοεῖν non percepisce una cosa qualunque, ma solo quell’unica cosa che viene nominata nel frammento VI: έόν ἒμμεναι: l’ente presente nella sua presenza. È questo che percepisce: l’ente presente nella sua presenza. Ma come fa a presentificarlo nella sua presenza? Attraverso la cosa presente, attraverso il significato, attraverso il ciò che il mio dire dice. Capitolo IV, pag. 168. Qui riprende la questione del τό άυτό. Anche ora, dopo che l’appartenenza del pensiero all’essere è venuta in luce un poco più chiaramente, difficilmente siamo in grado di udire la parola-enigma della sentenza: τό άυτό, “il Medesimo”… Lo stesso, il Medesimo, indica la simultaneità, cioè il fatto che non può darsi l’uno senza l’altro. È questo che dice τό άυτό, è questo che dice Parmenide quando dice τό γάρ αύτό νοείν έστίν τε καί εἶναι: pensare e essere sono lo stesso, non è possibile separarli. Pure, se vediamo che il di-spiego dell’έόν… Cioè, la relazione che l’essente pone in essere, nella quale ovviamente si trova. …la presenza di ciò che è presente… Presenza e ciò che è presente sono sempre due elementi, ma simultanei. …riunisce e orienta verso di sé il pensiero… Certo, lo riunisce e orienta verso di sé il pensiero, ma anche lo produce. Questa cosa non viene colta bene da Heidegger, perché in quella frase, che gli era parsa così complessa, in realtà lui dice come si crea il pensiero, come si creano le cose, come è possibile per noi parlanti, viventi provvisti di linguaggio, esiste quella cosa che noi chiamiamo realtà, come è potuto accadere. Ecco, lì lo ha spiegato: c’è la presenza, ma è la cosa presente, è questo rinvio, questo rimando, e il linguaggio è rinvio, che fa della presenza una presenza; solo allora la vedo, so che cos’è. È quello che diceva il sofista: lo vedi quell’albero? È la stessa cosa. O Zenone: vedo Achille che supera la tartaruga, certo, ma non significa nulla. Il fatto che veda qualche cosa non comporta che io sia in condizione di poterla concettualizzare, cioè di mostrare ciò che vedo. Poi, sempre rispetto al τό άυτό, discute del fatto che Parmenide pone la parola τό άυτό all’inizio. Siamo perciò costretti, senza mai distogliere lo sguardo dalla posizione di primato che occupa τό άυτό, “il Medesimo”, ad arrischiarci senza appoggi in un tentativo di pensare-presagendo a partire dal di-spiego dell’έόν (l’esser-presente del presente)… È quello che diceva prima rispetto alla presenza e alla cosa presente. …nella direzione del suo dispiegarsi. In questo ci aiuta il fatto di aver capito che nel di-spiego dell’έόν il pensiero è fatto-apparire, è qualcosa che è detto: πεφατισμένον. È espresso, è detto, è fatto apparire nel dire. Sembra quasi che parli di quella famosa figura retorica, nota come ipotiposi. Il mio dire fa apparire la cosa: dicendo qualcosa, il mio dire produce il che cosa il mio dire dice. Ha prodotto qualcosa che prima non c’era, ma ciò che ha prodotto non posso separarlo dal dire, è questo secondo momento che fa esistere il mio dire, cioè la presenza. Il mio dire, come naturalmente qualunque altra cosa, anche il mio dire è un ente. Di conseguenza, nel di-spiego domina la φάσις, il dire in quanto appellante e reclamante far-apparire. Che cos’è ciò che il dire fa apparire? L’esser-presente di ciò che è presente. Questo fa apparire, perché senza il dire non c’è presenza, senza quel movimento che ha illustrato prima, movimento – che per de Saussure è tra significante e significato – tra il dire e ciò che il mio dire dice. Senza questo movimento non c’è presenza, lo dice chiarissimamente. Il dire che vige nel di-spiego e che lo fa-avvenire è la riunione dell’esser-presente, nel cui risplendere può apparire ciò che è presente. La φάσις, quale Parmenide la pensa, Eraclito la chiama il Λόγος, il riunente lasciar-stare-dinnanzi. Questa è un’altra traduzione di Λόγος da parte di Heidegger: il riunente lasciar-stare-dinnanzi. Può darsi che il dire riunente-appellante… Perché riunente-appellante? Perché riunisce la presenza con la cosa presente; appellante, perché la chiama, la fa esistere in quanto presente. Può darsi che il dispiegarsi del di-spiego consista nel fatto dell’avvenire di un risplendere che apre-illumina? Il suo carattere fondamentale è per i greci il disvelare. Di conseguenza, nel dispiegarsi del di-spiego domina il disvelamento. I greci lo chiamano ‘Αλήθεια. Parmenide penserebbe dunque, nonostante tutto e a modo suo, nella direzione del dispiegarsi del si-spiego, posto che egli parli dell’“’Α λήθεια. Ma ne parla? Certamente, e proprio all’inizio del suo “poema didascalico”. Più ancora ‘Αλήθεια è una dea. È udendo il suo dire che Parmenide dice il proprio pensiero. Tuttavia, egli lascia non detto in che cosa consista l’essenza dell’“’Αλήθεια. Non pensato rimane anche rispetto a quale senso della divinità si dica che l’’Αλήθεια è una dea. Tutto questo, per gli inizi del pensiero greco, rimane fuori dell’ambito di ciò che è degno di esser pensato, altrettanto immediatamente quanto una chiarificazione della parola-enigma τό άυτό, il Medesimo. Qui cita dal suo poema, a pag. 170. “E la dea favorevolmente mi ricevette meditando verso l’avvenire,/ con la mano destra mi prese, poi disse la parola e mi cantò:”. Quale parola fosse possiamo immaginarlo. Ciò che si dà qui da pensare al pensatore rimane nello stesso tempo nascosto quanto alla sua origine essenziale. Questo non esclude, anzi implica, che in quel che il pensatore dice viga il disvelamento come ciò a cui egli presta costantemente l’orecchio, nella misura in cui esso gli dà l’orientamento verso ciò che è da-pensare. Che cosa è da pensare sempre e che poi, invece, non si è più pensato? È il che cosa della presenza. Si è cancellato il che cosa della presenza. Per dirla con Heidegger, nei termini del suo Essere e tempo, si è cancellato il mondo in cui ciascuno esiste e di cui ciascuno è fatto; si è cancellata, per dirla alla Severino, il concreto a vantaggio dell’astratto, e la tecnica è stata abilissima in questo. Ha cancellato il concreto, cioè, il linguaggio, il tutto, che consente all’astratto di esistere, al che cosa della presenza di esistere, a vantaggio di una presenza immaginata fuori da ogni contesto, da ogni mondo, cioè, fuori dal linguaggio. Per questo è legittimo almeno domandare se nell’άυτό, nel “Medesimo”, non sia proprio taciuto il dispiegarsi del di-spiego, e precisamente nel senso del disvelamento della presenza di ciò che è presente. Sì, certo, in questo άυτό, in questa simultaneità si disvela ciò che è presente; ma è presente non la presenza e la cosa presente, è presente la loro simultaneità, la loro relazione, il loro essere due momenti dello stesso, per usare i termini di Hegel: due elementi non possono esistere né sussistere l’uno senza l’altro. La discussione della sentenza sul rapporto di pensiero ed essere prende allora l’inevitabile apparenza di una forzatura arbitraria. Ora la costruzione, considerata grammaticalmente, della sentenza: τό γάρ αύτό νοείν έστίν τε καί εἶναι, si mostra in un’altra luce. La parola-enigma τό άυτό, il Medesimo, con cui la sentenza comincia, non è più il predicato spostato in prima posizione, ma il soggetto, quello che sta alla base, ciò che regge e sostiene. /…/ quello che svelando dispiega il di-spiego concede al prestare-attenzione di porsi sul suo cammino verso il riunente percepire la presenza di ciò che è presente. Questo movimento della relazione tra i due momenti, distinti ma non separabili, che cos’è tutto questo insieme? È la verità, in quanto questo disvelamento del di-spiego, quella che, a partire dal di-spiego, fa appartenere il pensiero all’essere. La verità è solo questo, è l’essere di questi elementi nella relazione. Il mio dire e ciò che il mio dire dice: la verità è che questi due elementi sono inseparabili, sono distinti ma non li posso scindere. Nella parola-enigma τό άυτό, il Medesimo, tace il disvelante concedere della coappartenenza del di-spiego con il pensiero che in esso appare. In questa parola-enigma, τό άυτό, lo stesso, che cosa appare? Appare la relazione che fa esistere il pensiero. A pag. 171. Giacché λέγειν e νοεῖν lasciano star-dinnanzi il presente nella luce della presenza. Fanno in modo in questa relazione, in questo movimento, che la presenza sia, che io possa accorgermi, che possa dire che qualcosa è presente. Altrimenti, non esisterebbe nulla. Di conseguenza, essi stanno di fronte alla presenza, certo mai di fronte ad essa come due oggetti esistenti in maniera indipendente. La commettitura (connessione) di λέγειν e νοεῖν (secondo il Frammento VI) libera la presenza nel suo apparire, per la percezione e così in un certo senso si mantiene al di fuori dell’έόν. Questa connessione tra linguaggio e pensiero che cosa fa? Libera l’essente nel suo apparire, per la percezione e così in un certo senso si mantiene al di fuori dell’έόν. Questa connessione tra i due libera la presenza nel suo apparire per la percezione, cioè, libera ciò che mi appare perché io possa percepirlo. La percezione è questo: io posso percepire la presenza perché c’è questa connessione tra presenza e cosa presente. È a questo punto che io posso percepire la presenza. Tuttavia, il disvelamento concede l’apertura-illuminazione della presenza in quanto esso, nello stesso tempo, perché qualcosa di presente possa apparire, adopera e salvaguarda un lasciar-stare-dinnanzi e un percepire, e così adoperandolo, trattiene il pensiero nell’appartenenza al di-spiego. Per questo, non è assolutamente possibile che si dia, in alcun luogo e in alcuna maniera, qualcosa di presente e al di fuori del di-spiego. Al di fuori della relazione. E la relazione è quella cosa che Parmenide per primo ha scritta: τό γάρ αύτό νοείν έστίν τε καί εἶναι. Quindi, in nessun modo c’è la possibilità di pensare anche soltanto a un pensiero che non appartenga alla relazione, perché è la relazione che lo produce, che lo crea, che me lo fa vedere, che me lo mostra. A pag. 172. La proposizione secondaria di Parmenide, che in verità è la proposizione di tutte le sue proposizioni, è questa (VIII, 37 s.): “…poiché la Moira gli ha imposto (all’essente) / di essere un tutto e immobile” (W. Kranz). Parmenide parla dell’έόν, della presenza (di ciò che è presente), del di-spiego, e mai dello “essente”. Egli nomina la Moira (destino), l’assegnazione che concedendo ripartisce e così dispiega il di-spiego. /…/ Moira è il destino dell’”essere” nel senso dell’έόν. Essa ha liberato l’έόν aprendogli il di-spiego, e così appunto lo ha legato nella totalità e nella quiete dalle quali e nelle quali avviene la presenza di ciò che è presente. Questa Moira che cosa ha fatto? Nel destino del di-spiego, tuttavia, accade solo che la presenza giunga a risplendere e che il presente venga ad apparire. Presenza, l’immanente; il presente, il trascendente, il suo significato, la cosa presente. Il destino trattiene nel nascondimento il di-spiego come tale e ancor più il suo dispiegarsi. L’essenza dell’“’Αλήθεια rimane nascosta. Qual è l’essenza dell’“’Αλήθεια? È questo movimento. La visibilità da essa concessa fa emergere la presenza della cosa presente come “aspetto” (εἶδος) e come “visione” (ίδέα). Di conseguenza, il rapporto in cui si percepisce la presenza di ciò che è presente si determina come un vedere (είδέναι). Il sapere improntato alla visio e l’evidenza che gli è propria non possono negare la loro provenienza essenziale dal disvelamento illuminante nemmeno à dove la verità si è trasformata assumendo la fora della certezza dell’autocoscienza. Il lumen naturale, la luce naturale, cioè, qui, l’illuminazione della ragione, presuppone già il disvelamento del di-spiego. Il cogliere la relazione in atto. Lo stesso vale della teoria della luce agostiniana e di quella medioevale le quali, per tacere della loro origine platonica, possono accamparsi soltanto nell’ambito dell’“’Αλήθεια già vigente nel destino del di-spiego. Che cosa vediamo noi? Vediamo la forma, l’immagine. Che cosa ci rimane nascosto? Che cosa mi rimane nascosto quando vedo l’immagine di Cesare di fronte a me? Rimane nascosto il mondo di cui questa immagine è fatta e che senza il quale questa immagine non esisterebbe. Vale a dire, c’è la presenza di Cesare e c’è il che cosa della sua presenza, cioè, il suo significato, i suoi infiniti rimandi, rinvii, determinazioni. Capitolo VII, pag. 173. Ma ciò che la Moira inviando ripartisce non è tuttavia ancora spiegato in modo esauriente. Perciò anche un carattere essenziale del suo modo di vigere rimane non pensato. Che cosa accade per il fatto che il destino libera la presenza di ciò che è presente aprendogli la via del di-spiego e così lo lega nella sua totalità e nella sua quiete? Che cosa accade alla presenza di qualcosa per cui compare ciò che è presente, che consente alla presenza di essere tale, di esistere? Per valutare la portata di ciò che Parmenide dice su questo tema nel seguito immediato della citata proposizione secondaria (VIII, 39 ss.) è necessario richiamarsi a qualcosa che si è esposto in precedenza (sez. III). Il dispiegarsi del di-spiego vige come la φάσις, il dire in quanto far apparire. È il dire che fa apparire. Il mio dire fa apparire il ciò che il mio dire dice: ecco che cosa fa apparire. È questo che appare e che prima non c’era; prima del mio dire ciò che il mio dire dice non può esistere, ma esiste con il mio dire. Il di-spiego alberga in sé il νοεῖν e insieme ciò che esso pensa (νόημα) in quanto detto. Ci sono entrambi, così come ci sono entrambi necessariamente il pensiero pensante e il pensiero pensato (Gentile). Ma che cosa ne è della φάσις (la saga, la parola dicente), quando il destino abbandona ciò che è dispiegato nel di-spiego al percepire quotidiano da parte dei mortali? Che succede quando non ci si accorge che per vedere Cesare occorre che ci sia il mondo di cui sono fatto per potere vedere Cesare, per potere vedere, cioè, questa presenza? Devo vedere ciò che è presente e ciò che è presente è Cesare in tutte le sue determinazioni. Essi prendono ciò che immediatamente di primo acchito e a prima vista, si offre loro. Non si preparano anzitutto a mettersi su un cammino di pensiero. I mortali non fanno questo, non pensano niente. Essi si fermano a ciò che in questo è dispiegato, e in specie a ciò che richiama immediatamente l’attenzione dei mortali: cioè la cosa presente, senza riferimento all’esser-presente. Si fermano alla presenza di qualche cosa senza sapere nulla di ciò che la rende presente, di ciò che la fa esistere come presente. Di tutto ciò non sanno nulla, né d’altra parte vogliono saperne nulla. Se volessero saperlo potrebbero anche farlo, non è proibito. In ogni loro comportamento essi vanno dietro vanamente a ciò che percepiscono abitualmente, τά δοκοὕντα (Framm. I, 31). Viene dal verbo δοκέο, sembrare. Percepiscono le cose che sembrano, che appaiono. Questo essi considerano come il disvelato, άληθἦ (VII, 39). /…/ Ma che cosa ne è del loro dire quando non riesce ad essere il λέγειν, il lasciar-stare-dinnanzi? Il dire abituale dei mortali, nella misura in cui essi non fanno attenzione all’esser presente, cioè nella misura in cui non pensano, diventa un puro dire di nomi nei quali ciò che prende il sopravvento è il suono e la forma immediatamente afferrabile della parola, nel senso dei vocaboli pronunciati e scritti. Lo smembramento del dire (del lasciar-stare-dinnanzi) nei vocaboli intesi come segni distrugge l’unità del raccogliente prestare-attenzione. /…/diventa uno “stabilire” che nei singoli casi fissa questo o quello per l’opinione frettolosa. È così che qualcosa può fissarsi: io vedo l’immagine di Cesare, ignaro di tutto ciò che consente a questa immagine di esistere, e la prendo per quella che è, come se fosse qualcosa che è così per virtù propria. Ogni cosa così stabilita rimane ὅνομα. Parmenide non dice che ciò che è percepito nel modo dell’abitudine diventa un “semplice” nome. Ma tuttavia rimane abbandonato a un dire che si lascia dirigere unicamente dalle parole correnti le quali, pronunciate in modo frettoloso, dicono tutto di tutto e vagano nel campo del “tanto… quanto”. È l’analogia. “Tanto… quanto” è il τέ-καί, che delle volte è posto come congiunzione, altre volte è il “tanto... quanto”, cioè, “così come”, un’analogia. Anche la percezione di ciò che è presente (degli έόντα) nomina l’εἶναι, conosce la presenza, ma conosce in modo altrettanto frettoloso la non-presenza; certo non come il pensiero, che a suo modo fa attenzione al ritrarsi del di-spiego (il μή ὅν). L’opinione comune conosce solo l’εἶναι τέ καί ούχί (VIII, 40), tanto la presenza quanto la non-presenza. /…/ Come accade questo abbandono da parte del destino? Già soltanto per il fatto che il di-spiego come tale, e quindi il suo dispiegarsi, rimangono nascosti. Sicché nel disvelamento domina il loro nascondersi? Un pensiero ardito. Eraclito lo ha pensato. Parmenide lo ha esperito senza pensarlo, nella misura in cui, udendo la chiamata dell’“’Αλήθεια, pensa la Moira dell’έόν, il destino del di-spiego tanto in riferimento all’esser-presente quanto in riferimento alla cosa presente. C’è sempre questo movimento tra presenza e cosa presente. A pag. 175. In essa è nascosto quel “degno di essere pensato”, che ci si dà da pensare come il rapporto del pensiero all’essere, come la verità dell’essere nel senso del disvelamento del di-spiego, come ritrarsi del di-spiego nel momento del predominio delle cose presenti. Quando qualcosa appare – questo lo diceva anche Heidegger in Essere e tempo – quando l’ente appare, l’essere scompare: o c’è l’ente o c’è l’essere. Anche se sono simultanei, non può darsi l’uno senza l’altro; però, nel momento in cui c’è l’ente, è come se questo cancellasse l’essere, perché l’essere è ciò che consente all’ente di mostrarsi. Lo stesso vale per il concreto e l’astratto: nel momento in cui penso il concreto, lo posso pensare solo come astratto e il concreto svanisce; ma il concreto è la condizione perché possa pensarlo, anche se svanisce, perché posso pensare solo con gli astratti.