8 maggio 2024
Plotino Enneadi
Finalmente siamo arrivati all’inizio del nostro progetto, dopo che Aristotele ci ha fornito poderosi strumenti per procedere. La lettura che abbiamo fatto di Aristotele è sicuramente il migliore antidoto al pensare per ipostasi. Come, invece, avrebbe voluto Plotino, il quale poi ci è riuscito. Plotino ha compiuto una operazione incredibile, è riuscito a imporre, in pratica, la sottomissione all’uno, cosa non da poco. L’uno, cioè l’universale, cioè ancora il principio di ragione. Ricordate Leibniz? Nihil est sine ratione, non c’è nulla che non abbia una ragione. È un motto si potrebbe anche modificare, forse in modo più appropriato: omnia ab uno descendunt, tutte le cose procedono dall’uno. Quella cosa che chiamiamo dimostrazione è questo: il procedere dall’uno con una serie di considerazioni e, poi, tornare all’uno, era proprio così. Quod demonstrandum erat. Ora, ciò che interessa in tutto ciò è cogliere e vedere come in effetti Plotino abbia imposta questa sottomissione all’uno, una sottomissione che deve essere volontaria, perché l’uno è il bene: gli umani desiderano il bene? Una sottomissione volontaria, raccontata poi anche da La Boétie nel suo La servitù volontaria. Qui c’è la base, il fondamento. Il pensare per ipostasi. In effetti, si pensa oggi per ipostasi. In un certo qual modo, si è sempre pensato così, ma il lavoro che fa Plotino è di stabilire che pensare per ipostasi è il bene, cosa che prima non c’era. Il bene, l’ipostasi, cioè l’universale, è il bene, è l’uno. Ma Aristotele ci ha spiegato per benino che cos’è questo universale, di che cosa è fatto: è fatto di analogia, di δόξα. Come dire che l’uno di Plotino per Aristotele è la δόξα, l’opinione corrente. La lettura che faremo di Plotino, e poi di altri, è fondamentale per intendere perché oggi pensiamo nel modo in cui pensiamo, e perché ci appare normale, naturale, pensare per ipostasi. C’è sempre come un riferimento al bene, all’uno, a qualcosa che trascende. Non c’era prima. Pensate agli antichi greci: Eraclito, Parmenide, i sofisti, Gorgia, ippia, Protagora, Eutidemo. Tutto è cambiato con Plotino, che ha sancito il monoteismo. Non si potrebbe teoricamente parlare di monoteismo in Plotino perché non c’era ancora la questione monoteistica, ma ha posto sicuramente le basi, le condizioni per poter pensare il monoteismo, quindi per poterlo creare. E, infatti, che succede? Succede che arriva Agostino e la sua teologia trinitaria, che riprende pari pari da Plotino, e fonda il monoteismo, il cristianesimo. Sette secoli dopo viene fondato l’altro monoteismo, l’islamismo. Quell’altro, l’ebraismo, era già presente, e, infatti, lo chiamano anche il monoteismo prefilosofico. Anche l’ebraismo ha preso tantissimo dal neoplatonismo La mia è profondissima. Il neoplatonismo ha dato una sua configurazione, che prima non aveva. Vedremo qui man mano una serie di figure, che crea Plotino, e che sono quelle che a tutt’oggi vengono utilizzate da tutti, continuamente. Siamo a pag. 65. L’anima, dice Platone, è fatta di un’essenza indivisibile che vien dall’alto e di una che si divide nei corpi,… Chiaramente il neo platonismo ha Platone come riferimento. …e si deve interpretare quel “si divide nei corpi” nel senso che essa si diffonda per tutto il corpo, secondo la grandezza del singolo vivente, così che nell’universo intero c’è un’anima sola: oppure, immaginando che essa sia presente ai corpi in quanto li illumina… vedete già da subito che c’è l’idea di un qualche cosa di un uno che illumina, che si infonde negli altri corpi. A pag. 67. Parla del bene, perché chiaramente deve fondare il bene. E quindi anche il male. Il male noi lo facciamo, perché dominati dalla parte peggiore di noi stessi: difatti noi siamo molte cose… Molte cose, i molti: i molti per Plotino sono la maledizione di Dio. …cioè il desiderio, collera, immaginazione perversa; il preteso ragionamento falso, poi, è un’immagine che non ha aspettato il giudizio della riflessione,… Perché la riflessione guarda all’uno. …e che noi abbiamo fatto nostra, cedendo agli elementi peggiori; e così, prima che la sensazione sia sottoposta al criterio della riflessione, ci accade di avere, col senso comune, delle illusioni visive. E l’Intelligenza o ci aveva toccato, oppure no, così da rimanere impeccabile. Oppure dobbiamo dire che noi tocchiamo o no l’intelligibile, che è nell’Intelligenza, o piuttosto in noi: perché è possibile possedere l’intelligibile, ma non averlo attualmente a nostra disposizione. Così noi abbiamo distinto fatti comuni e fatti propri dell’anima: gli uni, corporei o esistenti almeno non senza corpo, gli altri, propri dell’anima, che non hanno bisogno del corpo per essere in atto, come il pensiero discorsivo, che sottomette alla critica le immagini derivanti dalle sensazioni, contempla già delle idee e le contempla come nella sua autocoscienza; voglio dire il pensiero discorsivo in senso proprio, appartenente all’anima vera; questo pensiero discorsivo vero è l’atto delle intellezioni ed è spesso l’assimilazione e il legame tra l’esterno e le idee interne. Leggo queste cose per dare un’idea di come pone lui la questione dell’anima, che viene da Platone, ovviamente, però lui fa delle modifiche qua e là. Ancora dice a pag. 71. Chi fa queste ricerche, siamo noi o l’anima? Siamo noi mediante l’anima. E come mediante l’anima? Qui si fa le domande e si risponde, fa tutto da solo. Forse per il fatto solo di possederla noi facciamo queste ricerche? No, perché noi stessi siamo l’anima. Non sarà dunque mossa in questo caso? Certo, bisogna darle un movimento, che non è quello dei corpi, ma quello della sua vita propria. L’atto di intelligenza è nostro, poiché l’anima è intelligente e l’atto di intelligenza è la sua vita migliore; esso ha luogo, quando l’anima pensa e quando l’Intelligenza agisce su di noi:, infatti è una parte di noi stessi e un essere superiore al quale tendiamo. C’è già in Plotino questa idea di tendere sempre verso l’uno, questa tensione continua verso l’uno, che lui dà per acquisita, naturalmente. Siamo a pag. 75. Dunque le virtù civili, di cui abbiamo detto sopra, instaurano veramente un ordine in noi e ci fanno migliori, poiché impongono limite e misura ai nostri desideri e a tutte le passioni e ci liberano dagli errori: un essere infatti diventa migliore perché, sottomesso alla misura, esce dal dominio dell’indefinito dell’illimitato. Deve essere sottomesso all’uno. Per questo dicevo prima che Plotino inaugura e instaura la sottomissione all’uno, cioè, al principio di ragione. Le virtù, in quanto sono misure per l’anima considerata come materia, si conformano alla misura ideale che è in loro e posseggono la traccia della perfezione superiore. Difatti, ciò che è del tutto privo di misura è la materia che in nessun modo diventa simile a Dio; ma più un essere partecipa della forma, più assomiglia l’essere divino che è senza forma. Gli essere vicini a Dio partecipano di più; l’anima, più vicina a lui che il corpo, e ogni altro essere dello stesso genere che essa, vi partecipano più del corpo… La partecipazione. È come se tutte queste cose, in fondo, avessero - ma poi lo dirà - nostalgia dell’uno, sempre, come se volessero sempre tornare all’uno, perché lì è la loro origine: è il principio di ragione. In fondo, anche una dimostrazione agisce alla stessa maniera, cioè mostra come un qualche cosa, come ciò che viene dimostrato, in qualche modo vuole tornare all’uno, al quod quid erat esse, ciò che l’essere era. Siamo a pag. 79. Si chiede se basta la purificazione per accedere all’uno. Certo essa basterà, e il bene sarà ciò che rimane, ma non la purificazione. Ora noi dobbiamo cercare cos’è ciò che rimane. Non è certo il bene quella natura che rimane, perché allora non sarebbe caduta nel male. Diremo che ha la forma del bene? Essa non è capace di rimanere attaccata al bene vero, poiché naturalmente inclina verso il bene e il male. Il suo bene consiste nell’unione con ciò che le è affine, il male con ciò che è contrario. L’unione dunque richiede la purificazione: l’anima si unirà al bene volgendosi a lui. E si converte dopo la purificazione? No, ma è già convertita. La virtù consiste dunque in questa conversione? No, ma in ciò che risulta all’anima dalla conversione. Cos’è dunque? È la contemplazione e l’impronta dell’oggetto intelligibile contemplato, posta in atto nell’anima, come la visione rispetto all’oggetto visibile. Non possedeva forse quegli oggetti, ma senza ricordarsene? Sì, li possedeva, ma non in atto, bensì deposti in una oscura regione. Per rischiararli e conoscere di possederli in sè, è necessario che essa si rivolga verso una luce illuminante. Essa non possedeva gli oggetti, ma le loro impronte: è necessario che conformi l’impronta alle realtà di cui è impronta. Che essa li protegga significa che l’Intelligenza non è estranea all’anima, e non le è estranea specialmente quando guarda verso di lei: se no, benché presente, le è estranea. Come dire che noi possediamo già, in fondo, questa idea dell’uno, cioè il bene. Possiamo allontanarcene, ma la possediamo; perché non si sa, ma la possediamo. A pag. 81. …la rettitudine appartiene già all’uomo; e il suo sforzo non tende ad essere fuori da ogni errore, ma ad essere Dio. E qui c’è la reminiscenza di Numenio gnostico, di Apamea, ridente paesino della Siria. Finché si produce ancora qualche movimento involontario, egli è ancora un dio o un demone, poiché egli è duplice; o meglio egli ha in sé un essere diverso da sé, possessore di una virtù differente. Se non c’è più nessun movimento, egli è semplicemente un dio, uno di quelli che vengono il Primo. Se non c’è più nessun movimento: qui Aristotele avrebbe detto se non c’è movimento, non c’è nemmeno parola, perché il movimento non è altro che movimento tra il dire e il detto. Egli difatti è in se stesso quello che è venuto di lassù… Tenete conto che non stiamo leggendo un testo del cristianesimo, ma un testo che precede il cristianesimo, un testo che ha consentito l’esistenza del cristianesimo. …ma se, una volta, disceso quaggiù, si unisce ad altro, egli farà simile a sè anche questo, per quanto può, in modo da non subire più, se possibile, i colpi esteriori, né compiere più azioni che spiacciano al dio suo padrone. Vi risulta che per Aristotele dio fosse padrone di qualcosa? A pag. 83. In verità, la giustizia in sé è, allora, nel rapporto di questo essere a se stesso, in cui non ci sono parti. La giustizia, cioè il vero, ecc., è dove non ci sono parti. I molti devono essere eliminati. A pag. 89. Che cos’è questa dialettica che bisogna insegnare anche ai precedenti? È una scienza che dà la possibilità di dire razionalmente ciò che è ogni oggetto, in che differisce dagli altri e in che si accomuna, tra quali oggetti si trova e in quale classe, e quale cosa sia essere e quale invece sia non-essere, diverso dall’essere. Essa considera anche il bene e il suo contrario e le loro stesse subordinate, definisce l’eterno e il suo contrario, procedendo in ogni caso scientificamente e non con l’opinione. Lui temeva l’opinione. Aveva probabilmente letto Aristotele, magari aveva anche capito qualche cosa. Ma l’opinione è la catastrofe per Plotino, perché forse si è reso conto che Aristotele ha messo l’opinione al posto dell’uno. Dove Porfirio mette l’uno, Aristotele ha messo l’opinione, cioè l’universale è fatto di analogie, è fatto di δόξα, quindi, di opinione. Dopo aver arrestato il suo errare per le cose sensibili, si fissa nell’intelligibile e qui conclude la sua attività, allontanando la menzogna e nutrendo l’anima nostra, come dice Platone, nella “pianura della verità”… La pianura della verità. Sì, certo, Platone cercava la verità, ma quando i sofisti l’hanno messo in difficoltà, lui dove si ripara? Si ripara in questo: sì, voi demolite tutto perché si rende conto che i sofisti non hanno torto, possono demolire qualunque cosa. Quindi, sì, siete capaci di demolire tutto, ma cosa proponete? Cioè la domanda è questa in Platone: qual è l’uno che proponete? Voi dite che ci sono i molti; va bene, ma l’uno qual è? E i sofisti saggiamente rispondono che non c’è, se non nei molti. …usa del metodo platonico di divisione per il discernimento della specie, per dire quello che esse sono, e per arrivare ai generi primi; unisce nel pensiero ciò che ne deriva, fino a che abbia percorso tutto il dominio intelligibile, indi, procedendo inversamente con l’analisi ritorno al principio. La dimostrazione è questo. Qui essa è in riposo e rimane in riposo, finché essa è qui nel mondo intelligibile senza più fare nessuna ulteriore ricerca, ma, raccogliendosi in unità, abbandona ad un’altra arte la cosiddetta logica che verte sulle premesse e sui sillogismi, come ad altri si lascia l’arte di scrivere... A pag. 91. Ma donde questa scienza (la dialettica) trae i suoi principi? L’Intelligenza dà principi evidenti, purché con l’anima si possa riceverli;… Capite che non parla mai di argomentazioni, ma di una sorta di emanazione. …di qui le sue operazioni: essa sintetizza, combina, divide, finché arriva l’Intelligenza perfetta. La dialettica, dice Platone, è la cosa più pura dell’Intelligenza e della prudenza. Necessariamente essa, essendo la nostra facoltà più preziosa, si riporta all’essere e alla realtà più preziosa: come prudenza all’Essere, come Intelligenza a ciò che al di là dell’Essere. Solo accidentalmente conosce l’errore e il sofisma e li riconosce come cosa estranea quando uno li commette e conosce l’errore mediante la verità che è in lei, se qualcuno le presenti ciò che è contrario alla regola del vero. Essa non sa nulla delle proposizioni - che sono per lei come le lettere rispetto alla parola - ma siccome conosce la verità sa ciò che si chiama proposizione e in modo generale conosce le operazioni dell’anima: la proposizione affermativa e la negativa e la regola che dice che, se si nega il conseguente, si pone il suo contrario ed altre regole simili, sa se i termini sono differenti o identici, ma conosce le cose immediatamente come la sensazione percepisce gli oggetti e lascia a chi ne abbia il desiderio lo studio diligente di questi argomenti. Sa. Ma perché sa? Perché viene dall’uno. C’è l’uno, l’intelletto e l’anima. Quindi, l’anima è qualcosa che, procedendo all’uno, si ricorda dell’uno, quindi ha in sé tutto. Pertanto, non ha bisogno di argomentare, come faceva Aristotele, non si fa domande, perché sa già. La dialettica è dunque la parte eccellente della filosofia; ma la filosofia ne altre ancora: essa studia infatti la natura con l’aiuto della dialettica, così come le altre arti si servono della matematica e quindi essa si accompagna più da presso alla dialettica; studia la morale partendo ancora di là, aggiungendovi le buone abitudini e gli esercizi dai quali quelle procedono. Le abitudini razionali traggono da quella il loro carattere proprio, benché siano, per la maggior parte, in relazione con la materia. Se le altre virtù applicano il ragionamento a passioni e ad azioni particolari in ciascuna, la prudenza, invece, è un certo ragionamento rivolto piuttosto al generale, che si chiede, c’è un atto è conseguente, se ,in questo caso, è necessario astenersene, o compierlo, o se ce n’è uno migliore. Ma la dialettica e la saggezza, che sono assolutamente universali e immateriali, forniscono alla prudenza tutto ciò che le occorre per il suo uso. Dicendo che, in fondo, la conoscenza è già presente – questo è il suo fondamento - ci sta dicendo che ciascuno conosce già, e conosce rivolgendosi all’uno, cioè guardando là da dove ogni cosa procede. A pag. 109. È necessario allora che ci sia un atto prima dell’impressione, poiché per l’Intelligenza è la stessa cosa pensare ed essere. Qui cita Parmenide. È necessario - questo dice Plotino - che ci sia un atto prima dell’impressione, cioè prima del pensiero. Ma non è quello che dice Parmenide; per Parmenide è lo stesso essere e pensare, non c’è l’atto prima del pensiero, sono due momenti dello stesso. Plotino, invece, che fa? Li divide, divide ciò che Parmenide ha detto essere la stessa cosa. Tutto ciò è significativo. A pag. 113. È necessario che esso (il corpo), come tirato in senso opposto, verso il Bene, da un contrappeso, diminuisca e indebolisca il suo corpo, così da mostrare che l’uomo vero è ben diverso dalle cose esteriori. Dunque, per andare verso il Bene occorre indebolire il corpo, essere deboli. È la prima abbozzata formulazione dell’anima bella: essere fragili, essere deboli; sì, fragile e debole, ma sa che cos’è il bene assoluto. L’uomo di quaggiù, sia pure bello e grande e ricco signore di tutti gli uomini, appartiene pur sempre a questo luogo inferiore, e non gli si devono invidiare i suoi piaceri ingannatori. Ma il saggio, che forse non possederà affatto queste cose, le diminuirà se verranno, perché ha cura di sé. Vedete che c’è un vago preludere a ciò che poi Hegel esplorerà come l’anima bella, che deve diminuirsi, quasi schernirsi. Ma perché lo fa? Per un eccesso di arroganza: io posso anche sminuirmi perché tanto so che cos’è il bene assoluto, so da che parte stare, dalla parte del giusto. A pag. 119. Se si dirà che noi desideriamo sempre vivere ed essere in atto e che essere felici vorrebbe dire raggiungere questo fine, ne risulterebbe, anzitutto, che la felicità di domani sarebbe più grande di quella di oggi, e quella che segue di quella che precede e la felicità non si misurerebbe con la virtù. E poi, anche gli dei sarebbero più felici adesso che nel momento precedente: la loro felicità non sarebbe mai perfetta, né lo diventerebbe mai. E poi, il desiderio raggiunge il suo scopo nel presente e solo e sempre nel presente, e chiede di possedere la felicità sino a che essa è. Desiderio di vita è desiderio di essere e desiderio di una cosa presente, perché l’essere è solo nel presente. E se si desidera ciò che non è ancora e ha da venire, in realtà si desidera ciò che si ha ed è già, non ciò che è passato o futuro; si vuole essere ciò che si è già e non esserlo per l’avvenire, e si vuole che ciò che è attualmente presente sia attualmente presente. Nietzsche: diventa quello che sei. Questo enunciato è un enunciato neoplatonico; si presume che quella persona sia già una serie di cose che lui ancora ignora, ma lo è già. Basterebbe una domandina facile, facile: come lo sai? A pag. 131. Qui una frasetta che è emblematica. Così il corpo diventa bello perché partecipa di una idea venuta dagli dei. Si partecipa di questa idea che è degli dei, quindi è l’uno: partecipando a quest’idea si diventa belli perché il bene è il bello. Questione poi elaborata dalla scuola di Chartres, però la questione è quella: il bello è anche vero. A pag. 133. Bisogna anche sapere quali sono gli effetti dell’amore per le cose non sensibili che vi fanno provare le belle occupazioni, i bei caratteri, i costumi temperanti e, in generale, le azioni e le disposizioni virtuose e la bellezza dell’anima? E più provate quando vi vedete interiormente belli? E perché voi folleggiate e siete emozionati e bramate d’essere con voi stessi raccogliendovi fuori del corpo? Questo, infatti, provano i veri amorosi. Si raccolgono fuori il corpo attraverso l’amato o l’amata. Per quale cosa lo provano? Non per una forma, per un colore, per una grandezza… /…/ …lo provate quando vedete in voi stessi o contemplate in altri la grandezza dello spirito, un carattere giusto, la purezza dei sentimenti, il coraggio su un viso nobile, la gravità, quel rispetto di sé che si diffonde in un’anima calma, serena ed impassibile e soprattutto l’irraggiar dell’Intelligenza di essenza divina. In che modo, dunque, amando e desiderando queste cose, le diciamo belle? Poiché esse lo sono manifestamente e chiunque le veda dirà che esse sono realtà vere. Ma che sono questa realtà? Belle, certamente. Ma la ragione desidera ancora sapere quello che esse sono per rendere amabile l’anima; che cosa brilla dunque sopra di tutte, sopra tutte le virtù, come una luce? Vorremo, considerando i loro contrari, cioè le bruttezze dell’anima, porle per l’opposizione? Sarà forse utile alla nostra questione sapere cos’è la bruttezza e perché si manifesta. Sia dunque un’anima brutta, intemperante e ingiusta, piena di numerosi desideri e del massimo turbamento, timorosa per debolezza, invidiosa per meschinità, che pensa sì, ma solo a oggetti mortali e vili, sempre falsa, amica dei piaceri impuri, vivente solo della vita delle passioni corporee, così da trovare il suo piacere nella turpitudine. E non diremo noi che questa bruttezza è sopraggiunta in lei come un male estrinseco che la sporca, la rende impura e la mescola grandi mali, in modo che la sua vita e le sue sensazioni non sono più pure? Non sono più pure perché è pura. Vedete, anche qui si annuncia il cristianesimo; c’è il paradiso terrestre e ha sporcato l’anima. Da quel momento in poi l’anima, che è nata pura… perché questa è l’idea che poi è passata in cristianesimo naturalmente, che l’anima nasca pura. Da qui l’idea che i bambini siano innocenti, letteralmente non nuocciono e non nuocciono perché non sono ancora in grado di farlo, ma non se lo fossero… Diremmo dunque giustamente che la bruttezza dell’anima viene da questo mescolamento, da questa fusione, da questa inclinazione verso il corpo e la materia. Qui c’è tutto il discorso che poi saranno Origene, Tertulliano, circa il corpo come qualche cosa da abbandonare, qualcosa di sporco, di immondo, per sollevarsi verso l’intelletto. Qui c’è tutto Platone, naturalmente. Che è una cosa che non c’è in Aristotele, non c’è questa idea di sollevarsi. C’è l’idea, certo, del pensiero, ma per lui dio è un pensiero che pensa. È questo il punto da raggiungere: il pensiero che pensa. E cosa fa il pensiero che pensa? Non contempla la propria mente, ma domanda, interroga; è un pensiero che pensando se stesso interroga; non contempla il suo pensiero, ma lo interroga. Qui invece no, l’interrogazione è scomparsa, c’è la contemplazione, che poi è diventata nel cristianesimo... Pensate a Dante che arriva vicino alla vetta e che cosa ha fatto? Contempla questa luce. Quindi, direi che per definizione non può essere interrogato, è messo lì in quella maniera proprio perché non ci sia interrogazione, perché uno domanderebbe immediatamente: perché c’è l’uno? Da dove arriva? Chi l’ha messo e chi lo dice che c’è? Quindi, deve assolutamente evitare ogni domanda. Anche Platone interrogava; sapete che andava in giro a rompere le scatole a tutti quanti, e domandava: che cos’è questo? E l’altro diceva delle cose, cioè raccontava, ma giustamente in fondo, le risposte che davano a Socrate erano più che legittime: tu mi chiedi una cosa e io ti racconto di questa cosa, non ti dico che cos’è. Lui invece voleva che l’altro dicesse esattamente cos’è, cioè rispondesse: l’uno è questo, l’essenza è questo. Chiaramente quando poi si è trovato con i sofisti, che hanno che questo uno, che questa essenza non c’è da nessuna parte, ma ci sono solo i molti. Chiaramente, a questo punto i sofisti hanno fatto una cosa tremenda per Socrate: gli hanno detto, praticamente, che andava in giro a perdere tempo, perché tutto quello che faceva non serviva assolutamente a nulla, perché non avrebbe mai ottenuto la risposta che lui voleva, perché non esiste, non c’è da nessuna parte. E lui andava in giro a rompere le scatole a tutti per niente. A pag. 137. Bisogna dunque risalire verso il Bene, cui agni anima aspira. Tenete sempre conto che qui non siamo ancora nel cristianesimo, siamo prima. Siamo con Plotino che ha posto le basi per potere costruire, edificare il cristianesimo; è stato costruito su questo, e poi su Porfirio, Proclo, Agostino, ecc. Come Bene, esso è desiderato e il desiderio tende a lui; ma lo raggiungono solo coloro che salgono verso l’alto, ritornano a lui e si spogliano delle vesti indossate nella discesa; come coloro che salgono al sacrario dei templi devono purificarsi, abbandonare le vesti di prima e procedere spogli, fino a che, dopo aver abbandonato, nella salita, tutto ciò che è estraneo a Dio, vedano, soli a solo, nel suo isolamento e nella sua semplicità e purezza, l’essere da cui tutte le cose dipendono e a cui guardano e per cui sono, vivono e pensano: egli è infatti causa della vita, dell’intelligenza, dell’essere. Io sono la via, la vita, la verità stessa cosa. Qui c’è proprio la creazione del cristianesimo. A pag. 141. Ma come si può vedere la bellezza dell’anima buona? Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello fa come lo scultore di una statua che deve diventare bella. Egli toglie, raschia liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro. Se tu sei diventato ciò, se tu vedi tutto questo, se sarà pure la tua interiorità, e tu non avrai alcun ostacolo alla tua unificazione e nulla che sia mescolato interiormente con te stesso, se tu sei diventato completamente una luce vera, non una luce di grandezza o di forma misurabile che può diminuire o aumentare indefinitamente, ma una luce del tutto senza misura, perché superiore a ogni misura e a ogni qualità, se ti vedi in questo modo, tu sei diventato ormai una potenza veggente e puoi confidare in te stesso. Anche rimanendo quaggiù tu sei salito né più hai bisogno di chi ti guidi; fissa lo sguardo e guarda: questo soltanto è l’occhio che vede la grande bellezza. Volontà di potenza assoluta, ormai senza limiti. Eh, ormai una Cosenza vendente. E Questo è uno dei motivi, sicuramente non l’ultimo, per cui il neoplatonismo ha vinto su tutti, ha sgominato tutti gli altri pensieri. Ha detto: Tu, Cesare, sei onnipotente, devi solo accorgertene, per accorgertene devi, come diceva prima, togliere tutte quelle cose che ti impediscono di vederti e di essere onnipotente, ma tu sei onnipotente. Ma sei onnipotente da sempre, tu non te ne accorgi, ma lo sei. E questa cosa è rimasta ancora oggi in grandissima misura, nella psicologia, per esempio. A pag.143. Ognuno dunque diventi anzitutto deiforme, se vuole contemplare Dio e la Bellezza. Salendo, egli arriverà dapprima presso l’Intelligenza e saprà che colà tutte le Idee sono belle e dirà che quella è la bellezza – cioè le Idee: per queste, infatti, che sono il prodotto e l’essere dell’Intelligenza, esistono tutte le bellezze –. Ciò che è al di là della bellezza è detto la natura del Bene e la Bellezza le sta innanzi tutt’intorno. Così con una formula sintetica diremmo che la Bellezza è l’essere primo; ma chi voglia distinguere gli intelligibili, chiamerà il Bello intellegibile luogo delle idee, e il Bene che al di là lo dirà sorgente e principio del Bello. Altrimenti, si dovrebbe identificare anzitutto bello e bene: comunque, il Bello è lassù nell’intelligibile. È l’idea di Platone: Il bello è lassù, nell’Iperuranio. A pag.147. Allora la vita è un bene, non perché sia unione di anima e corpo, ma perché con la virtù tiene lontano il male; e la morte è piuttosto un bene. Oppure bisogna dire che la vita nel corpo è un male di per sé, ma che l’anima si trova nel bene per la virtù, poiché non vive con un essere composto, ma vive in continua separazione del corpo. L’unificazione è tornare all’uno e l’uno è il Bene. Il cristianesimo nasce da lì, naturalmente. Lo vedremo poi bene quando leggeremo il De Trinitate di Agostino, ma ci sono già tutte le premesse, c’è già tutto il cristianesimo.