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8 maggio 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W. F. Hegel.

 

Questo scritto di Hegel, che è forse il più celebre, è un testo che ha segnato una svolta decisiva nella filosofia. È stato scritto nel 1807, periodo napoleonico. Infatti, Hegel era favorevole a Napoleone, vedeva il lui qualcuno che stava operando grandi cambiamenti. Anche Beethoven era favorevole e scrisse la terza sinfonia, chiamata L’Eroica, proprio in omaggio a Napoleone. La Fenomenologia dello spirito ha una lunga prefazione, che Hegel scrisse alla fine, però compare all’inizio, per cui è una sorta di summa di tutta la Fenomenologia dello spirito. Nella prima pagina dice Siccome, per tacer d’altro, la filosofia è essenzialmente nell’elemento dell’universalità la quale chiude in sé il particolare, può sembrare in essa, più che in altre scienza, che nel fine e nei risultati ultimi si trovi espressa la cosa stessa proprio nella sua perfetta essenza. La filosofia tradizionalmente vorrebbe questo. Rispetto a questa essenza lo sviluppo dell’indagine dovrebbe propriamente costituire l’inessenziale. Lo sviluppo, cioè, è inessenziale rispetto al risultato. Il risultato è quello che dice che una certa cosa è vera oppure falsa, ma il percorso non ha interesse. Al contrario, nella comune idea per es. dell’anatomia, considerata a un dipresso come una nozione delle parti del corpo fuori della loro esistenza vitale, ognuno è persuaso di non possedere ancora la cosa stessa, il contenuto di quella scienza, e di dovere inoltre prendere in considerazione il particolare. – Per di più, in un tale aggregato di nozioni che non a buon diritto porta il nome di scienza, una conversazione intorno al fine e a simili generalità suole non essere differente da quel modo d’indagine meramente storico e non ancora concettuale, nel quale si parla anche del contenuto stesso, dei nervi, dei muscoli, ecc. Nella filosofia invece sorgerebbe questo squilibrio: che farebbe uso di un tal modo di indagine, mentre essa stessa la dichiarerebbe incapace a cogliere la verità. Questo modo di procedere della cosiddetta scienza, dice non a buon diritto, in effetti, è seguito anche dalla filosofia nonostante che la filosofia dica che la scienza non può raggiungere la verità. Similmente, proprio il modo di determinare il rapporto che un’opera filosofica crede di avere con altri tentativi riguardanti il medesimo soggetto, introduce un interesse estraneo e offusca ciò da cui dipende la conoscenza della verità. Quanto più rigidamente l’opinione concepisce il vero e il falso come entità contrapposte, tanto più poi, in rapporto a un diverso sistema filosofico, si aspetta unicamente o approvazione o riprovazione, e soltanto o l’una o l’altra sa vedere in una presa di posizione rispetto a quel diverso sistema stesso. Questo è quello che fanno la filosofia e la scienza, cioè, contrappongono il vero e il falso, cercano di sapere qual è il vero e di scartare il falso. Questo è il modo di operare della filosofia fino a Hegel, compreso anche Kant. C’era sempre una sorta di dualismo; anche in Kant, che Hegel critica, tra il fenomeno e il noumeno, tra ciò che è possibile conoscere come fenomeno, attraverso dei modelli di conoscenza, e l’impossibilità di conoscere la cosa in sé. Non tanto l’opinione… Sta incominciando a dire che la questione del vero e del falso non è un’opinione, non è un giudizio. Non tanto l’opinione riesce a farsi un concetto della diversità dei sistemi filosofici, quanto piuttosto nella diversità scorge più la contraddizione che non il progressivo sviluppo della verità. Fino a Hegel c’è una contrapposizione tra vero e falso. Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello vien confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono; ma ciascuna di esse dilegua anche sotto la spinta dell’altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell’unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intiero. Con questo esempio, con tutti i limiti che può avere un esempio, Hegel descrive il compito della filosofia: abbandonare questa idea, che c’è sempre stata nella filosofia, di una contrapposizione tra vero e falso per cogliere, invece, nel vero e nel falso un movimento; un movimento dove il falso non è più eliminato come un inutile, come uno scarto, ma come necessario all’esistenza del vero. Noi leggeremo questo testo tenendo conto di Heidegger, di Severino e di Peirce, in modo particolare. Avrete avuto modo di notare che già qui la questione che si pone in Severino come la necessità per affermare qualche cosa di porre ciò che quella cosa non è per poi toglierla. Quindi, vedete che il negativo deve esserci perché possa darsi il positivo. E questo è Hegel. Ma come, da una parte, la contraddizione verso un sistema filosofico non suole concepire se stessa in tal modo, così, d’altra parte, la coscienza che accoglie in sé questa contraddizione non la sa liberare o mantenere libera dalla sua unilateralità, né in ciò che appare sotto forma di lotta contro se stesso, sa riconoscere momenti reciprocamente necessari. Questi momenti, vero e falso, positivo e negativo, sono necessari al movimento, di cui Hegel incomincia a dire. Dove meglio potrebbe trovarsi espresso l’intimo significato di un’opera filosofica, che nei fini e nei risultati di essa? E come questi fini e questi resultati potrebbero venire più determinatamente conosciuti, che mediante la differenza loro da ciò che la cultura di un’età produce nello stesso campo? Anche i fini, che un’opera filosofica vuole perseguire, comunque sono definiti dalla differenza da altre cose. …la cosa stessa non è esaurita nel suo fine bensì nella sua attuazione;… Che è quello che diceva prima, cioè ciò che importa non è soltanto il risultato ma il percorso che ha portato a quel risultato. …né il risultato è l’Intiero effettuale... Il semplice risultato non è l’intero. Qui incomincia a parlare di intero (Intiero). Potete intendete l’intero, più propriamente, come ciò che intende Severino con il concreto, e cioè come il porsi di un elemento e ciò che quell’elemento non è, in quanto tolto. Questo è il concreto, è l’intero. Il risultato, da solo, non è il concreto, non è l’intero, cosa che invece la filosofia, prima di Hegel, aveva sempre posto, nel senso che ciò che conta è il risultato. Anche la scienza oggi fa questo: tutto ciò che conta è il risultato, tutto ciò che ha condotto al risultato è un mero strumento, un mezzo per giungere al risultato; una volta raggiunto il risultato, tutto ciò che ha consentito di raggiungerlo scompare, viene eliminato. Hegel, invece, dice che non viene affatto eliminato, e dice …anzi questo è il resultato con il suo divenire; per sé il fine è l’universale non vitale così come la tendenza è il mero slancio ancor privo della sua effettualità; e il nudo resultato è la morte spoglia che ha lasciato dietro di sé la tendenza. Il nudo risultato non sarebbe altro che ciò che si è lasciato dietro, ciò che è morto, non ha più la vita ma che gli dà tutto il processo. In questo senso che parla di morte. Similmente, la diversità è piuttosto il limite della cosa; essa è là dove la cosa cessa, o è ciò che questa non è. Incomincia a dirci una cosa importante: la diversità è ciò che quella cosa non è. Dice: ciò che è e ciò che non è. Un tale lavorio intorno al fine o ai risultati, e intorno alla diversità di questo e di quello e ai giudizi che se ne fanno, è una fatica più lieve di quanto forse non sembri. Infatti, invece di concentrarsi nella cosa, un tale procedere non fa altro che scavalcarla; invece di indugiare in essa e di obliarsi in essa, un tale sapere si attacca sempre a qualcosa di diverso, e resta presso di sé, anziché essere presso di essa e abbandonarsi ad essa. Vedete come echeggiano le questioni che molti anni dopo affronterà Severino rispetto al concreto e all’astratto. È come se Hegel ci stesse dicendo che ci si affanna ad attaccarsi all’astratto perdendo di vista il concreto, l’intero. L’inizio della cultura e della liberazione dall’immediatezza della vita sostanziale… La vita sostanziale è l’esperienza. …dovrà sempre consistere nell’acquistare cognizioni di principi e punti di vista generali;… Quindi, parte da principi generali. Sono solo i principi generali quelli che possono dare un punto di partenza; un punto di vista particolare non è un punto di partenza, è soltanto qualcosa di accidentale. Per Hegel, invece, è fondamentale che il punto di partenza sia universale. …nel sollevarsi, così, fino al pensiero della cosa nella sua generalità, sostenendola o confutandola tuttavia fondatamente; nell’accoglierne secondo determinati modi la concreta e ricca pienezza, e nel saperne impartire un’onesta informazione e un giudizio non avventato. Ma questo inizio della cultura, prima di tutto, farà posto al rigore della vita piena, che introduce all’esperienza della cosa stessa;… Questa questione dell’esperienza è molto importante in Hegel e la riprenderà molto spesso. L’esperienza della vita: non c’è mai in Hegel un puro e astratto intellettualismo, ma è sempre calato nell’esperienza, nella prassi, nel fare. …e quando, poi, il rigore del concetto sarà disceso nel profondo della cosa, allora quella cognizione e apprezzamento sapranno restare al posto che loro si conviene nella conversazione. Quindi, calarsi nella cosa stessa. In effetti, Hegel aveva dato inizialmente un titolo diverso alla Fenomenologia, che era Scienza dell’esperienza della coscienza. Quindi, scienza, cioè la conoscenza dell’esperienza della coscienza, fare cioè esperienza della propria coscienza. È questo il principio portante. Quindi, calarsi nella propria coscienza. La coscienza non è altro che un sapere che riguarda l’immediato, il presente, tutto ciò che è immanente. La coscienza è ciò che mi consente di sapere che in questo momento sto parlando, senza una riflessione intorno a questo ma, semplicemente, cogliere il dato immanente. La vera figura nella quale la verità esiste, può essere soltanto il sistema scientifico di essa. La verità si coglie soltanto nel momento in cui si manifesta questo percorso scientifico, in questo calarsi nella coscienza. In fondo, ci si cala nella coscienza per sapere come accade il sapere delle cose. A pag. 5. La vera forma della verità viene dunque posta in questa scientificità; ciò che equivale ad affermare che solo nel concetto la verità trova l’elemento della sua esistenza;… Hegel dice queste cose anche per opporsi soprattutto all’idealismo di Schelling, all’intuizione di Schelling che chiamava “colpo di pistola”, cioè, all’improvviso ho questa intuizione, questo lampo che mi illumina, dopodiché so come stanno le cose. Ecco, dice, la verità non ha niente a che fare con questo, la verità è un percorso, una fatica, è una tragedia, nel senso che occorre passare attraverso la disperazione del negativo, attraverso il continuo confronto con ciò che si pone e con ciò che è altro rispetto a ciò che si pone. Questo è il percorso da fare. A pag. 8. Questo parlare da profeti crede di restarsene nel centro e nel profondo della cosa; getta uno sguardo sprezzante sulla determinatezza (il horos) e, a bella posta, si tiene a distanza dal concetto e dalla necessità come da quella riflessione che sta di casa soltanto nella finitezza. Questa intuizione del colpo di pistola si tiene a distanza dall’argomentazione, dice Hegel; anzi, non ne vuole sapere, perché verrebbe messa in discussione da un’argomentazione stringente. Ma come c’è una vuota estensione, così c’è una vuota profondità; come c’è un’estensione della sostanza che si riversa in un’infinita varietà, senza aver forza di tenerla a freno, così c’è un’intensità priva di contenuto, la quale, comportandosi come la forza senza espansione, coincide con la superficialità. … Del resto non è difficile a vedersi come la nostra età sia un’età di gestazione e di trapasso a una nuova era; lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione. Invero lo spirito non si trova mai in condizione di quiete, preso com’è in un movimento sempre progressivo. È per questo che apprezzava Napoleone. Per lui era l’idea del progresso, di qualcosa che stava cambiando, di qualcosa che stava rompendo con il passato. Ma a quel modo che nella creatura, dopo lungo placido nutrimento, il primo respiro, - in salto qualitativo, - interrompe quel lento processo di solo accrescimento quantitativo, e il bambino è nato; così lo spirito che si forma matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l’edificio del suo mondo precedente; lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia. Ciò che stava marciando, in realtà, era l’esercito di Napoleone che stava occupando tutta l’Europa. Solo, un cotal “nuovo” ha tanto poco una piena effettualità, quanto il neonato; ed è essenziale non lasciar fuori di considerazione questo punto. Il primo sorgere è inizialmente una immediatezza, è, in altri termini, il concetto di quel nuovo mondo. Quanto poco un edificio è compiuto quando le sue fondamenta sono gettate, tanto poco il concetto dell’intiero, che è stato raggiunto, è l’intiero stesso. Io ho un concetto dell’intero ma se non so come ho costruito questo concetto, allora questo concetto non è l’intero. È lo stesso discorso che faceva prima rispetto alla conclusione: la conclusione non è l’intero. Quando noi desideriamo vedere una quercia nella robustezza del suo tronco, nell’intreccio dei suoi rami e nel rigoglio delle sue fronde, non siamo soddisfatti se al suo posto ci venga mostrata una ghianda;… Che contiene in potenza la quercia ma non è la quercia. …similmente la scienza, corona del mondo dello spirito, non è compiuta al suo inizio. Occorre il percorso. Vedete come la questione del percorso, il cammino, che poi chiamerà dialettica, è sempre presente in Hegel fin dalle prime pagine. L’inizio del novello spirito è il prodotto di un vasto sovvertimento di molteplici forme di civiltà, è il premio di una via molto intricata e di una non meno grave fatica. Tale cominciamento è l’intiero che dalla successione nonché dalla sua estensione è tornato in se stesso; è il concetto semplice di quell’intiero, ma divenuto. Ecco, qui c’è tutta la filosofia di Hegel. Il cominciamento è quell’intero che è tornato a se stesso. Il concetto dell’intero non è l’intero, il concetto dell’intero è il cominciamento, è un concetto che poi articola, svolge. Tutto ciò a un certo punto ritorna al punto di partenza e soltanto quando ritorna al punto di partenza il cominciamento è un cominciamento. Sembra paradossale ma non lo è. Questo movimento è lo stesso movimento di cui parla Peirce: la Primità, l’inizio, il primo elemento, non c’è senza il secondo: Ricordate A è B: la A non c’è fino a quando non c’è la B perché la B è ciò che mi dice che cos’è la A; finché non c’è la B non c’è neanche la A. Ciò nonostante, occorre che ci sia la A per potere dire che A è B. È per questo che la triade di Peirce è un circolo ermeneutico, nel senso che il primo elemento è quello che è perché è il secondo che fornisce al primo elemento la sua esistenza, ma in questo movimento il primo e il secondo diventano un qualche cos’altro, per cui la A non è più la A e la B non è più solo la B, diventano una sintesi, usando i termini di Hegel, diventano un’altra cosa, diventano la relazione tra i due. Questa relazione tra i due è necessaria perché ci sia la B e ci sia la A; senza questa relazione tra i due la A resta la A e B resta la B, come se fossero degli astratti; è soltanto il terzo elemento, cioè la relazione, che li mostra in quanto concreto. Vedete come tornano le cose che abbiamo considerate in questi anni. Peraltro l’effettualità di questo intiero semplice consiste nel processo, per cui quelle precedenti figurazioni ora fattesi momenti… Prima erano figure, come la A e la B; adesso sono momenti di un tutto. …si risviluppano e si danno una nuova figurazione, e ciò nel nuovo elemento, nel senso che si è venuto sviluppando. Questi due elementi, queste due figure, come le chiama Hegel, non sono più due figure ma sono due momenti dell’intero e, quindi, per dirla in modo spiccio, acquistano un nuovo significato, diventano un’altra cosa. Poi, Hegel applicherà tutto ciò a ogni cosa, alla politica, al diritto, all’estetica, ogni cosa avrà questo andamento. Mentre da una parte il primo apparire del nuovo mondo… Potete intendere l’apparire del nuovo mondo come la Primità di Peirce, come l’apparire di qualche cosa, che di per sé non è nulla fino a che non c’è un altro elemento che dice che cos’è il primo; ma a questo punto i due elementi sono in relazione e, quindi, ciascuno dei due elementi non è più una figura ma diventa un momento dell’intero, non è più l’astratto ma è il concreto, per dirla alla Severino. Mentre da una parte il primo apparire del nuovo mondo è solo l’intiero nell’involucro della sua semplicità, o è il generale fondamento dell’intiero medesimo, d’altra parte, per la coscienza, la ricchezza della precedente esistenza è presente ancora nel ricordo. Nella figura che novellamente appare, la coscienza non trova espansione né specificazione di contenuto; ancor più, le manca quel raffinamento formale, in virtù del quale le differenze vengono con sicurezza determinate e ordinate nelle loro salde relazioni. Parla di raffinamento della scienza, cioè, occorre che questo primo elemento si articoli, si trovi preso in un processo, in un’elaborazione, in un pensiero. Senza tale raffinamento la scienza non può avere il carattere della universale intelligibilità, e assume la parvenza di un esoterico possesso di alcuni individui… Esoterico, cioè, misterioso. Possiamo prendere come esempio l’idea nell’idealismo di Schelling, il colpo di pistola, l’intuizione geniale, che è appannaggio suo, è lui che ha avuto questa idea, non è un percorso che possa essere esibito ad altri. …- un esoterico possesso; infatti in questo caso essa è data soltanto nel suo concetto, o è dato soltanto il suo interno; - di alcuni individui singoli: infatti la sua apparenza senza espansione singolarizza la sua esistenza. Appare senza estensione, cioè, senza articolazione. In questo modo la sua essenza sarebbe questa, di apparire coì all’improvviso senza un percorso. Soltanto ciò che è perfettamente determinato è anche essoterico… Essoterico è il contrario di esoterico, quindi, vuol dire conosciuto. …da tutti concepibile e suscettibile di venir da tutti imparato e di essere proprietà di tutti. La via della scienza è la sua forma intelligibile, vi aperta a tutti e per tutti eguale; arrivare mediante l‘intelletto al sapere razionale, questa è la giusta esigenza della coscienza che si accinge alla scienza; giacché l’intelletto è il pensare, il puro Io in generale;… Questo sarà ripreso da Gentile. …e l’intelligibile è ciò che è già conosciuto, ossia è l’elemento comune della scienza e della coscienza prescientifica, che può così aprirsi immediatamente un varco entro la scienza. Occorre, quindi, che ci sia il movimento del pensiero, mentre l’intuizione è come se bloccasse questa verità in qualcosa che non ha più nessun movimento perché è già raggiunta, è lì, è quella conclusione oltre la quale non si va più; non soltanto, nega tutto il percorso che l’ha prodotta, perché questo percorso non c’è proprio. A pag. 13, paragrafo 2. Prima di questo se la prende ancora con Schelling, con l’Assoluto dove tutto è eguale, e allora fa quel famoso esempio dove nella notte tutte le vacche sono nere, per cui non c’è più distinzione alcuna, non c’è più questa analisi laboriosa, c’è soltanto l’Assoluto messo lì… Secondo il mio modo di vedere che dovrà giustificarsi soltanto mercé l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto. Il vero è sempre stato posto come sostanza, come qualcosa che è in sé. Lui, invece, dice che il vero è un soggetto. Cosa vuol dire che è un soggetto? Per Hegel il soggetto è il pensiero stesso, è qualche cosa che è in continuo divenire, il soggetto è un divenire stesso. Quindi, il vero non è altro che un divenire; ponendolo come un soggetto lo pone come se fosse un qualcuno che agisce – in genere, il soggetto è, anche grammaticalmente, colui che agisce quella cosa che il predicato descrive. Qui è da notare che la sostanzialità racchiude in sé non solo l’universale o l’immediatezza del sapere stesso, ma anche quell’immediatezza che per il sapere è essere o immediatezza. A pag. 14, punto 18. La sostanza viva è bensì l’essere il quale è in verità Soggetto… Soggetto, quindi, colui che agisce; non è una cosa morta ma è ciò che agisce. …o, ciò che è poi lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la mediazione del divenire-altro-da-sé con se stesso. Qui arriviamo in medias res. Quindi, il soggetto è ciò che agisce, ciò che fa, ma fa che cosa? Questo movimento è il movimento del porre se stesso, la mediazione del porre se stesso in quanto diviene altro da sé. Se il soggetto si pone come se stesso si pone come altro. Pensate al funzionamento del linguaggio, molto banalmente: quando io pongo qualche cosa, per porre questo qualche cosa devo dire che cos’è questo qualche cosa, ma per dire questa cosa devo dire altro da sé rispetto alla cosa. Come soggetto essa è la pura negatività semplice… In quanto soggetto autoponentesi, si pone come soggetto, cioè, deve porsi come un qualche cosa che non è più se stesso e, quindi, è negatività. Riprendendo Severino e il suo A=A, queste due A non sono lo stesso – per Severino sono lo stesso a condizione di fare quella formula famosa – la seconda è altra rispetto alla prima, e viceversa. …ed è, proprio per ciò, la scissione del semplice in due parti, o la duplicazione opponente;… Il soggetto, che potrebbe apparire semplice, è in due parti: come sé e come altro da sé. …questa, a sua volta, è la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione; soltanto questa ricostituentesi eguaglianza o la riflessione entro l’esser-altro in se stesso, non un’unità originaria come tale, né un’unità immediata come tale, è il vero. Il vero è movimento del soggetto che si pone come altro da sé, per potere porsi, e che ritorna su se stesso. Questa ricostituentesi eguaglianza o la riflessione entro l’esser-altro in se stesso: questo riflettersi dell’esser-altro in se stesso; questo movimento, secondo Hegel, è il vero, movimento dell’elemento che interviene che, per essere sé, deve riflettersi, deve uscire da se stesso, cioè, diventare altro da sé per poi, riflettendosi, ricongiungersi a sé. È il movimento della dialettica.

Intervento: Come se si riconoscesse solo attraverso questo divenire altro da sé…

Esattamente. Se non fa questo movimento il primo è nulla. Questo Peirce lo diceva: la A senza la B è nulla, è il solo cominciamento, è il semplice apparire di qualcosa che se non significa qualcosa è nulla, ma se significa qualcosa si pone fuori da sé per ritornare su di sé. Solo in questo caso la A diventa la A, soltanto se si estroflette verso la B e poi dalla B ritorna sulla A. Questo è il movimento dialettico. Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine… Questo circolo è il circolo ermeneutico che ha all’inizio la propria fine, che ritorna al punto di partenza, ma il tornare al punto di partenza è il suo fine. Ecco che, come dice giustamente Hegel, Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e la propria fine è effettuale. Cioè, diventa quello che è. Perché qualcosa sia quello che è occorre che ci sia questo movimento, sennò è nulla. Punto 19, stessa pagina. La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’amore con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e a dirittura all’insipidezza quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo. È con questo che occorre confrontarsi, dice Hegel. Va bene l’amore di Dio, ma se non c’è questa disperazione del dubbio, del travaglio, del negativo, del confronto continuo con il fatto che ciò che sto ponendo è altro da sé, e con il fatto che sia altro da sé è la condizione perché sia quello che è… senza questo non si intende niente. In sé quella vita è l’intatta eguaglianza e unità con sé, che non è mai seriamente impegnata nell’esser-altro e nell’estraneazione, e neppure nel superamento di questa estraneazione. L’in sé senza un per sé, che sarebbe questa retroflessione sull’in sé, è nulla. Ma siffatto in-sé è l’universalità astratta… Riecheggia Severino: se io isolo l’in sé, se lo astraggo, per Severino è autocontraddittorio. Hegel non pone la questione in questi termini, la pone come universalità astratta, …nella quale, cioè, si prescinde dalla natura di esso di essere per sé… Cioè, l’ in sé è tale solo per un per sé, solo in questo movimento di ritorno; come dire che ciò che dico è quello che è nel movimento di ritorno, in quanto ciò che dico si estroflette attraverso qualche cosa che è altro da sé - il suo significato, per esempio – per tornare e fare di ciò che dico quello che è. Ma siffatto in-sé è l’universalità astratta, nella quale, cioè, si prescinde dalla natura di esso di essere per sé, e quindi, in generale, dall’automovimento della forma. Qualora la forma venga espressa come eguale all’essenza, si incorre poi in un malinteso se si pensa che il conoscere stia pago all’in-sé o all’essenza, e possa invece fare a meno della forma; - se si pensa che l’assoluto principio fondamentale o l’intuizione assoluta rendano superflua l’attuazione progressiva della prima o lo sviluppo della seconda. Appunto perché la forma è essenziale all’essenza, quanto questa lo è a se stessa… Non c’è la forma senza contenuto. …quest’ultima non è concepibile né esprimibile meramente come essenza, ossia come sostanza immediata o come pura autointuizione del divino; anzi, proprio altrettanto come forma, e in tutta la ricchezza della forma sviluppata; solo così è concepita ed espressa come Effettuale. Come io la vedo, come io la dico. E qui c’è la famosissima e celeberrima affermazione di Hegel, sulla quale i commentatori di Hegel si sono impegnati: Il vero è l’intiero. Per noi è facile intenderla a questo punto, tenendo conto del lavoro che abbiamo fatto con Severino: il vero è il concreto, semplicemente. Non è una delle sue parti o qualcuna delle sue parti, è l’intero. Severino aggiungeva che solo l’intero è l’incontraddittorio, cioè, posso porlo. Soltanto l’intero è l’incontraddittorio. Per Hegel il vero è l’intero. Vedete che è da qui che arrivano tutte le cose che dice Severino. Ma l’intiero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Cioè, l’intero è questo percorso, non è questa o quella cosa, è tutto il percorso che ha condotto all’intero. Dell’Assoluto… L’Assoluto sarebbe il concreto. …devesi dire che esso è essenzialmente Resultato, che solo alla fine è ciò che è in verità… Sta dicendo che l’Assoluto, l’intero, il concreto, non è qualcosa che si dà nell’immediato ma è un risultato; per Hegel è il risultato di questo percorso dialettico che conduce dal cominciamento, dall’in sé, all’estroflessione dell’in sé per tornare come il per sé. Questo movimento è ciò che consente all’elemento di divenire se stesso. Per quanto possa sembrare contraddittorio che l’Assoluto sia da concepire essenzialmente come resultato, basta tuttavia riflettere alquanto per rendersi capaci di questa parvenza di contraddizione. Il cominciamento, il principio o l’Assoluto, come da prima e immediatamente viene enunciato, è solo l’Universale. Ogni volta che affermo qualcosa affermo un universale; ogni volta che parto con qualcosa, questo qualcosa è posto come universale. Se io dico: “tutti gli animali”, queste parole non potranno mai valere come una zoologia; con altrettanta evidenza balza agli occhi che le parole: “divino”, “assoluto”, “eterno”, ecc., non esprimono ciò che quivi è contenuto; e tali parole in effetti non esprimono che l’intuizione, intesa come l’immediato. Ciò che è più di tale parole, e sia pure il passaggio a una sola proposizione, contiene un divenire-altro che deve venire ripreso, ossia una mediazione. Nel momento in cui io voglio dire che cos’è una cosa, nel momento in cui voglio usare una parola, ecco che questa parola diventa necessariamente un divenire-altro. La mediazione è una relazione; è una relazione tra i due. Ha detto in modo molto preciso: se io voglio dire qualcosa del divino, o di qualunque altra cosa, devo dire qualche cosa che è altro da quello, devo dire altre parole, perché possa poi tornare al divino e fare del divino ciò che è. A pag. 16, punto 22. …la ragione è l’operare conforme a un fine. È la definizione mutatis mutandis che dà Heidegger alla tecnica, tra l’altro: costruzione di strumenti in vista di scopi. L’innalzamento della presunta natura sopra il pensiero misconosciuto e, anzitutto, il bando dato alla finalità esteriore han gettato il discredito sulla forma del fine. Ma a quel modo che anche Aristotele determina la natura come l’operare conforme a un fine, essendo questo l’immediato, il quieto, l’immoto che è esso stesso motore; così tale immoto è il Soggetto; la sua forza a muovere, presa in astratto, è l’esser-per-sé o la pura negatività. È importante. Questo immoto, questo quieto, di fatto è soggetto, soggetto nel senso che agisce, e la sua forza a muovere, presa in astratto, è l’esser-per-se, cioè, questa cosa vuole essere per sé, è l’in sé che vuole diventare per sé. E che è la pura negatività, perché per diventare per sé l’in sé deve estroflettersi, deve uscire da sé, diventare altro; è soltanto diventando altro che può tornare in quanto diventato finalmente per sé. L’in sé è nulla, occorre che diventi per sé perché diventi qualche cosa di concreto. E il resultato è ciò stesso che è il cominciamento soltanto perché il cominciamento è fine;… La fine è il cominciamento, la fine di questo percorso dell’in sé che diventa per sé. È questo il fine che vuole raggiungere. …oppure l’effettuale è ciò che è il suo concetto, soltanto perché l’immediato come fine ha dentro di lui il Sé o la pura effettualità. Sta dicendo che dentro l’immediato, nel cominciamento, c’è già questo fine; non è lui il cominciamento ma il percorso che ritorna a lui. Il fine attuato o l’effettuale esistente è movimento, è divenire giunto al suo dispiegamento; ma proprio questa inquietudine è il Sé;… È questa inquietudine, è questo doversi estraniare dell’in sé per diventare per sé e ritornare sull’in sé. È questa l’inquietudine per cui non sta mai fermo, è sempre in movimento: perché una cosa possa essere quella che è deve operare questo movimento, sennò è nulla. …ed esso è eguale a quella immediatezza e a quella semplicità del cominciamento perché è il resultato, perché è ciò che è tornato in se stesso. Non come voleva Aristotele, la potenza e l’atto. Qui per Hegel non è più in questo modo, c’è soltanto questo movimento. …ma ciò che è tronato in se stesso è appunto il Sé; e il Sé è l’eguaglianza e la semplicità che si rapportano a sé. L’in sé che si estroflette e torna indietro diventa per sé, tutto questo è il Sé; questa cosa è Sé a condizione che ci sia questo movimento, sennò è nulla.