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8-5-2013

 

La definizione comunemente si intende come l’asserzione di ciò che è proprio, di ciò che conviene, che appartiene a un qualche cosa. La logica ha vari modi per limitare il raggio di azione della definizione, ci sono alcune cose che può fare altre no, non può contraddirsi, non può essere idem per idem, cioè non può essere una definizione circolare, un diallele, una tautologia. Se dico che questo orologio è questo orologio, non do una definizione propriamente, faccio una definizione circolare, che non dice nulla di errato ma non dice niente di più di quanto già sappia. Un altro aspetto, e questo lo diceva già Pascal, è che nella definizione è importante che il definiens e il definiendum siano intercambiabili, se A definisce Z occorre che Z definisca anche A. Però tutto questo pone dei problemi, problemi che sono stati rilevati anche da alcuni che si sono occupati degli insiemi come Cantor, Zermelo, Fraenkel, Russell, si sono occupati della teoria degli insiemi. La definizione di insieme fornita da Cantor è molto semplice, non è altro che una collezione di elementi individuabili, distinguibili che formano una unità, tutti questi elementi hanno una proprietà in comune. In effetti proprio a partire da questo Russell definiva l’insieme come l’estensione di un predicato “tutto ciò che si può predicare di questo aggeggio costituisce un insieme”. Quando quando si è dovuto dire che cosa fosse esattamente un insieme la definizione ha incominciato a scricchiolare, sì, una collezione di elementi però tutti questi elementi finché sono finiti va bene, e allora l’insieme è definibile da una certo gruppo di sottoinsiemi. Possiamo anche per esempio forgiare il concetto di numero a partire dall’insieme, molti lo fanno: il numero 1 è l’insieme che ha come sottoinsieme soltanto se stesso, lo 0 è un insieme che non contiene nessun sottoinsieme, il numero 2 è dato da un insieme che è formato da due sottoinsiemi, se un insieme per esempio è formato da tre sottoinsiemi si dice che ha cardinalità tre, un insieme formato da quattro sottoinsiemi ha cardinalità quattro e così via all’infinito. Ma il problema è proprio questo “all’infinito”, quando arriviamo all’infinito qual è il numero cardinale? Ciò che ha costituito l’impiccio di tutta la teoria degli insiemi è che definendo l’insieme come determinato dai suoi sottoinsiemi, si è rilevato che questo non è così facilmente ottenibile se il numero dei sottoinsiemi è infinito, cioè se si parla dell’insieme di tutti gli insiemi. I sottoinsiemi dell’insieme di tutti gli insiemi sono sottoinsiemi di questo insieme, e quindi la cardinalità di questo insieme sarà la cardinalità più grande immaginabile, chiamiamola n, ecco Cantor nel suo famoso teorema ha dimostrato che il numero cardinale dell’insieme di tutti gli insiemi, cioè n, è inferiore al numero cardinale dei suoi sottoinsiemi, se il numero cardinale dell’insieme di tutti gli insiemi è n, il numero cardinale dei suoi sottoinsiemi è 2n. La questione che a noi interessa è che la definizione di insieme risulta autocontraddittoria. A questo punto molti hanno posto l’insieme non più come qualcosa di definibile, ché la sua definizione è autocontraddittoria, ma come un concetto primitivo, semplicemente hanno detto che per esempio affermare che x Î y, cioè x appartiene a y, fa parte dell’insieme y, è un concetto dato, un concetto primitivo, che è il modo che hanno utilizzato anche i logici in altre occasioni laddove la definizione non regge, non si riesce a dare perché è contraddittoria per esempio. Vi dicevo che tutto questo pone un problema connesso con la definizione, che forse è proprio intrinseco al concetto stesso di definizione al punto che, in molti casi non si dà più la definizione ma si dice che è così e basta. Esattamente come fece Peano con le idee primitive, quando diceva “0 est classe” questa affermazione non è deducibile, non è derivabile, non viene da niente, non si può dedurre da qualche cosa ma è una decisione. Il problema è che non ci si è accorti che è una decisione e che anche altre cose sono decisioni. La definizione è importante in tutto il lavoro teorico ma non soltanto, la definizione dice che cos’è un qualche cosa, mostrando tutte le caratteristiche, tutte le prerogative, cioè mostrando tutto ciò che appartiene a una certa cosa o ciò che conviene a una certa cosa. Qual è dunque l’impiccio del concetto di definizione? Che o è una definizione circolare, cioè una tautologia e quindi non dice niente, oppure, se dice qualche cosa, questo qualche cosa non definisce il definiendum perché sono cose diverse, il definiens A non sarà mai il definiendum B se non per una decisione perché le cose che dice A di ciò che definisce è altro da ciò che definisce, cioè B, è un’altra cosa, ciò che io dico per definire questo orologio non è questo orologio, posso attribuire, rilevare tutte le caratteristiche, le proprietà eccetera ma non sarà mai questo orologio. In altri termini ancora, o la definizione non è una definizione, oppure la definizione è auto contraddittoria perché dice di qualche cosa ciò che questo qualche cosa non è. Non è un grosso problema naturalmente, si va avanti benissimo lo stesso, però mostra che qualunque tentativo di definire qualche cosa, e questo in parte già la stessa semiotica l’aveva notato anche senza sapere nulla di teoria degli insiemi, che dicendo un qualche cosa, ciò che dico è sempre altro rispetto a questo qualche cosa, e cioè la definizione non definisce. Ma allora quando definisco qualche cosa che cosa sto facendo esattamente? Sto dicendo delle cose che non sono ciò che dovrei definire. Questo ha portato per esempio Verdiglione a elaborare la teoria dell’oggetto, dell’oggetto che comunque non può essere definito, letteralmente “de finire” significa tagliare, tagliare i contorni, lasciando soltanto la parte che interessa. Questa operazione non è proprio che avvenga in questi termini, perché tutto ciò che dico è sempre un’altra cosa, ma un’altra cosa rispetto a che? E qui sorge il problema della semiotica, se il testo non lo posso leggere, non posso dire che cosa dice perché dirò sempre un’altra cosa, cioè ogni volta che lo leggo, ogni volta che parlo di quel testo sto scrivendo un altro testo, allora questo testo da cui parto dove sta? Che funzione ha in tutto ciò? Verdiglione la risolve così “l’oggetto (cioè il testo in questo caso) ha funzione di provocazione” cioè istiga a parlare, ma non è sufficiente, anche se è un buon punto, però non ci porta molto lontani perché questo testo per potere provocare deve comunque fare qualche cosa, per fare qualche cosa deve avere delle prerogative, deve avere un quid che inneschi il processo di provocazione. Tutto questo ci riconduce a una questione che abbiamo già considerata, che però adesso riprendiamo da un’altra parte, e cioè il fatto che se è vero che non posso mostrare che un qualche cosa esiste fuori dal linguaggio, tuttavia non posso non considerare che un qualche cosa compie delle operazioni, muove in una certa direzione, fa delle cose: ciò che agisce, diceva Verdiglione, è la parola. Ma se si aggiunge un elemento allora tutto diventa più chiaro, e cioè si intende che un qualche cosa è tale non per sua virtù, perché questo non c’è modo di stabilirlo, né di affermarlo, ma è tale per una decisione, un’istruzione, decido che questa cosa è quella. È vero, la definizione o non dice niente o è auto contraddittoria cioè dice altro da quello che vuole definire, però se io decido che la definizione la utilizzerò ogni volta che c’è questa certa cosa allora va bene, a questo punto non c’è più nessun problema. Il problema sorge nel momento in cui si suppone che un qualche cosa debba rispondere di sé al di fuori del gioco in cui, diciamola così, è eseguibile, al di fuori di questo gioco non può fare niente, non può dire niente, il problema della definizione è che anche la definizione manca il bersaglio se si suppone che la definizione, letteralmente, “de finisca” cioè ritagli una porzione di realtà individuandola e racchiudendola in un insieme. Se un insieme risulta infinito, e le particolarità di un elemento possono essere infinite, tant’è che se io guardo qualche cosa guardo sempre delle sezioni, dei pezzi, non vedo mai tutto, e poi se incomincio a descrivere questo tavolo posso andare avanti all’infinito, e quindi costruire con l’insieme “tavolo” una serie di sottoinsiemi che lo costituiscono che è infinito e di conseguenza è autocontraddittorio. Dunque la definizione non è utilizzabile se non come uno strumento per giocare il gioco del linguaggio, non ha nessun altra funzione, né può fare altro che questo, per cui domandare a qualcuno di definire qualche cosa non è altro che domandare a questa persona in che modo intende usare un certo termine all’interno del gioco che sta facendo, come verrà utilizzato. Il fatto che usi un termine in un accezione anziché in un’altra è una cosa assolutamente soggettiva e accidentale, a questo punto, se la definizione non definisce, non ritaglia nessuna porzione di realtà perché non lo può fare, allora è soltanto uno strumento per giocare, esattamente come il dieci di fiori nel gioco del poker: io lo definisco il gioco del poker, cioè dico in che modo viene utilizzato all’interno del gioco del poker, le mosse che può fare e quelle che non può fare e lo ho definito, cioè ho definito l’uso. La definizione non ci dice nient’altro che questo, e cioè qual è l’uso che in quel momento preciso io faccio di un termine all’interno di un certo gioco. Questo faccio quando definisco qualcosa, nient’altro che questo. Nel definire un termine l’idea spesso è che definendo un qualche cosa si riesca a individuarne la sua essenza, cioè ciò che realmente è, ma non è così non è così, e se ne sono accorti anche i logici, i semiotici, facendo cose differenti ma sempre occupandosi del dovere rendere conto di qualche cosa e quando ci si deve rendere conto di qualche cosa ci si scontra con questi problemi.

 

 

Intervento alla conferenza del 11 maggio 2013

 

Solo una notazione a margine intorno alla questione dello “stile”, la questione dello stile connessa con la teoria. Può esserci stile all’interno di una teoria, di un’elaborazione teorica, di una produzione teorica? La prima questione che si pone comporta domandarsi che cosa si intenda con “stile”. Qualunque dizionario fornisce una definizione, una definizione che non è altro che un’indicazione per l’uso di questo termine all’interno di un discorso, in effetti si può considerare un dizionario come un libretto delle istruzioni per potere usare la lingua, ma fatto questo, cioè inteso grosso modo cos’è lo stile, e cioè un complesso di qualità, di specificità tali per cui qualcuno o qualcosa è distinguibile da ciascun altro, detto questo, che cosa abbiamo fatto esattamente? Perché ci sono due possibilità tendenzialmente, l’una di immaginare che la definizione, cioè il modo in cui ciascuno intende una qualunque cosa delimiti, definisca cioè ritagli una porzione di realtà tale per cui questa porzione di realtà diventa conosciuta, oppure l’altra posizione, abbastanza frequentata, è quella che invece pone nella definizione, tanto il definiens quanto il definiendum come elementi all’interno della parola. La prima posizione, quella che suppone, che immagina, che spera che la definizione dica qualche cosa di una realtà, è sicuramente la posizione più ingenua, poiché non esiste nessuna argomentazione che possa affermare in modo incontrovertibile l’esistenza di quella cosa che chiamiamo “realtà”. Ma anche la seconda posizione è complessa, perché se io intendo che la definizione definisce soltanto un’altra parola allora quest’altra parola sarà fatta di altre parole necessariamente, le quali altre parole avranno altre definizioni e così via all’infinito. Anche in questo caso ciò che sto definendo di fatto è un qualche cosa che non c’è, non c’è perché è continuamente spostato rispetto a ciò che dico, ciò che dico costruisce sempre altre parole. In definitiva non saprò mai cos’è lo stile, tanto che lo immagini come qualcosa che esiste di per sé, quanto che lo immagini come qualcosa che è nella parola, ma se non saprò mai che cos’è allora quando parlo di “stile” di che cosa sto parlando? Mi è parsa una domanda legittima, anche se inconsueta, è ovvio che poi, ed è questa la questione di qualche interesse, perché tutto questo può apparire assolutamente irrilevante, che ci si ferma e cioè a un certo punto si utilizza una definizione, ma quale? Anche qui ci sono vari modi, per esempio ci si ferma a una definizione perché si ritiene che sia la più bella, cioè per una questione estetica, piace per una serie di altre questioni per esempio, oppure, e questo è molto più frequente, perché la definizione che utilizzo è quella che conforta la teoria che ho accolta, quindi accolgo tutte le definizioni che confortano la mia teoria e rigetto tutte quelle che potrebbero metterla in difficoltà. Ma sia come sia, la cosa che più importa è che comunque quella definizione che avrò data sarà stata una mia decisione, cioè io decido che cos’è lo stile. Quando l’ho deciso, utilizzerò ovviamente questa definizione, la utilizzerò all’interno del discorso per costruire altri discorsi. Ma se questa considerazione io la applicassi non soltanto al significante “stile” ma a qualunque significante, a qualunque elemento linguistico, a qualunque termine, a qualunque parola, a qualunque definizione, a qualunque descrizione, che cosa accadrebbe? Ciò che potrebbe accadere è l’eventualità di costruire una teoria in modo totalmente differente, con un altro “stile” ovviamente. Se ad un certo punto abbiamo deciso di definire “stile” in un certo modo sapendo, e a questo punto non potendo non sapere, che cosa stiamo facendo ciascuna volta che costruiamo una teoria, con tutti i termini di cui è fatta, allora sappiamo in quali problemi incappa ciascuna definizione se immaginiamo di utilizzarla come se rispondesse a un qualche cosa che è quello che è di per sé, anziché essere quello che è perché io ho deciso che sia quello che è.