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8-4-2015

 

Ferruccio legge delle sue considerazioni su Dostoevskij e il parricidio.

 

Oggi si parla moltissimo delle dipendenze, dipendenze in genere dal video gioco, più che gioco d’azzardo in quanto tale, anche se c’è questo aspetto, però le dipendenze da gioco sono all’ordine del giorno pare, e hanno inventato la malattia, la ludopatia. Si potrebbero rivedere o considerare questi aspetti delle dipendenze proprio alla luce di ciò che lei diceva riguardo a Dostoevskij e il parricidio, della necessità di misurarsi con qualcuno per riuscire a vincerlo. In effetti buona parte dei video giochi sono, almeno da quanto mi risulta, violenti, sono battaglie, sono combattimenti dove è necessario vincere l’avversario. Ora per Freud questo avversario potrebbe evocare la figura paterna, diciamo che non è impossibile che accada, certo la questione forse non si esaurisce qui, però potrebbe essere un modo interessante di leggere Dostoevskij e il parricidio tenendo conto delle dipendenze di cui si parla tantissimo. Bene Ferruccio, ha fatto un buon lavoro, sempre molto preciso nel cercare le fonti, come occorre fare.

C’è qualcun altro che ha qualche proposta teorica da fare? Eleonora?

Eleonora: Il testo è La servitù volontaria di Etienne della Boétie. L’unica cosa che ho trovato un po’ da obiettare è l’idea che questa libertà sia naturale per l’uomo, la dà come assodata quindi tutto quello che c’è dietro è una degenerazione fondamentalmente.

Chi sarebbe contrarissimo a dire che la libertà è naturale è Spinoza, per lui è esattamente il contrario, non c’è nessuna libertà. Una cosa che può essere interessante è il fatto che questa servitù, come dice lui è “volontaria” nel senso che in realtà le persone non se ne accorgono nonostante il giogo del potere sia sempre lo stesso ogni santo giorno, comunque loro magari pensano di essere libere perché gli si dà il contentino, perché c’è una sorta di libertà illusoria che poi è dettata da un accrescimento di potere sempre più forte che però illude le persone di potere riuscire a gestirsi liberamente senza condizionamenti.

Eleonora: sì, è una servitù volontaria al momento in cui gli si riconosce il potere ma anche quando non lo si riconosce uno crede di avere la libertà di potersi opporre quando in realtà rimane sempre nel gioco del potere, anche la possibilità di opporsi a questo potere, questa libertà naturale in realtà è una realtà illusoria è un concatenamento di giochi in un certo senso …

Beatrice: Sull’illusorietà della libertà ciascuno crede di poter gestire la sua libertà in qualche modo ma non è esattamente così è la questione del potere, chi ha potere lascia fare quello che lui vuole che si faccia, secondo me questo è un testo che mette in risalto questa questione …

Giovanni: quello che dicevi tu prima quando parlavi della libertà come stato naturale eccetera eccetera …

Eleonora: è il presupposto da cui parte La Boétie per scrivere il suo testo …

Giovanni: una libertà che gettiamo e invece questo potere che ci lascia fare quello che vogliamo …

Beatrice: gestisce la vita delle persone …

Claudia: l’ipotesi che avevo fatto il senso di colpa eccetera la mia direzione adesso è ciò che ho pensato ci debba essere nel senso di una spinta interna qualche tipo di desiderio di asservirsi?

E secondo lei il desiderio di asservirsi che utilità avrebbe? O per dirla con Freud quale potrebbe esserne il tornaconto?

Claudia: Forse il togliersi la responsabilità di una serie di scelte ma non vorrei tornare lì, ma forse c’è qualcosa non in termini di piacere perché è troppo forte come termine però di forse gratificazione qualche cosa di positivo…

Proviamo a rifletterci, partendo proprio da ciò che lei ha detto, il “desiderio di asservirsi” se c’è questo desiderio allora l’asservimento a qualcuno è una mia decisione, una mia scelta, come dire che rimango io a condurre il gioco anche se apparentemente sono asservito, però essendo una scelta mia, per mia volontà, sono io che l’ho deciso, sono io che conduco il gioco, lascio all’altro l’illusione eventualmente di essere lui a condurre il gioco ma di fatto sono io che gli permetto di pensare di avere il controllo su di me…

Claudia: non fa una piega, ma … Quindi è un piano questo in realtà …

Sì, lei cercava il tornaconto e il tornaconto è questo in effetti cioè continuare a mantenere il potere, perché sono io che concedo all’altro di avere il controllo su di me, il che significa che posso toglierglielo quando e come voglio, è questo che mi fa l’autore del gioco, io posso interrompere questo gioco quando voglio se sono io a condurlo …

Claudia: detto così sembra che lo eserciti io il potere…

Sì infatti sono io che ho concesso all’altro di pensarsi come colui o colei che mi controlla …

Giovanni: io ci metto dentro subito un giudizio di valore, non è la forma comoda di un esercizio di un potere che in qualche modo ci dispensa da prendere?

Il fatto che sia comodo in alcuni casi è vero, e in effetti gli umani cercano in genere le cose più comode anziché quelle più scomode, però questo mette in una posizione comunque di controllo, il che può essere o del tutto deciso dalla persona in una sorta di “pianificazione” come diceva Claudia oppure può anche essere un modo per pensare comunque di recuperare un potere anche quando questo potere non c’è. Pensi questo: metta che dei politici fanno delle cose sgradevoli, metta che succeda una cosa del genere, allora il cittadino che cosa pensa? Che lui fa queste cose però io ho il potere di toglierlo dal posto dov’è perché alle prossime elezioni non lo voto più. È un potere illusorio però in qualche modo ripristina una posizione di potere del cittadino che aveva perduta, e quindi sì è una situazione che potremmo descrivere “falsa” però serve a continuare a pensare di avere del potere, che è la cosa più importante per gli umani, pensare di avere un potere da esercitare su qualcuno, e quando questo potere viene meno o viene sottratto si scatena l’ira di dio. Giovanni: è uno stratagemma in qualche modo?

In questo caso sì, una sorta di astuzia della ragione, possiamo chiamarla così, non è vero che il cittadino ha potere, non ne ha nessuno, neanche il politico se è per quello ma questo è un altro discorso, però in questo modo è come se riequilibrasse una situazione che gli è sfuggita di mano. La stessa cosa si può trovare anche nelle relazioni sentimentali …

Claudia: nelle relazioni sentimentali questo tipo di potere sull’altro, io in realtà all’altro acconsento di esercitare il potere ma l’altro non se ne accorge per niente di questo potere che io esercito …

Spesso è così. Nelle relazioni sentimentali direi che è la norma, entrambi fanno questo gioco ma nessuno dei due sa che anche l’altro sta facendo lo stesso gioco, questo è ciò che avviene per lo più. Tutte le fanciulle hanno un obiettivo, quello di cambiare il loro uomo in modo di modificarlo, ma c’è un motivo, lo deve modificare in modo che porti il suo marchio, di lei, che si veda che quello è il suo uomo e non di un’altra. Per fare questo naturalmente usa una serie di tecniche che in genere le donne conoscono molto bene, che consentono, attraverso l’inganno per lo più, di cercare di modificare, per dirla in termini molto rozzi, di fargli fare quello che lei vuole che faccia. In alcuni casi questo gioco è conosciuto anche dall’uomo, non sempre ma in alcuni casi sì, e allora l’uomo può decidere se lasciare che questa fanciulla immagini di avere potere su di lui e lasciare che continui a fare il suo gioco, oppure impedirglielo, a seconda dei casi, nel caso in cui decida di lasciarle condurre il gioco è chiaro che la fanciulla si trova in una pozione bizzarra perché immagina di avere potere su di lui ma in realtà è lui che concede a lei il potere quindi, dal punto di vista del ragazzo, è lui quello che ha il potere assoluto perché lui ha concesso a lei di avere il potere su di lui. Questi giochi di potere come dicevo prima sono frequentissimi, le relazioni sentimentali sono per lo più fatte di potere, potere dell’uno sull’altra e viceversa …

Claudia: Entrambe le parti in gioco arrivano a coprire questi ruoli per qualche accidente di motivo … sono interscambiabili … ci deve essere qualche cos’altro io non l’ho capita ancora…

Cioè lei si chiede “perché si vuole avere il potere?” è la domanda che poneva Nietzsche, è la domanda fatidica “perché gli umani vogliono il potere?” una domanda alla quale nessuno ha saputo rispondere, si è considerato un fatto naturale “è così e basta” però in effetti non basta. Occorre riflettere sul perché gli umani vogliono il potere, l’idea è che potrebbe essere per il fatto che sono parlanti, per il fatto che parlano: questo desiderio di potere, essendo un desiderio, è fatto di una serie di altre cose, il desiderio comporta altri pensieri, comporta immagini, scene, ricordi una quantità notevole di elementi, un desiderio è fatto di tante cose che concorrono a giungere a desiderare quella cosa, ora a questo punto si tratta di precisare meglio com’è che funziona cioè come funziona la parola, per cui sembra che proprio per il fatto che gli umani sono parlanti si trovino a non potere non desiderare il potere, ciò che Nietzsche chiamava “volontà di potenza”.

Claudia: una domanda, il fatto che il verbo “posso”, il potere …

Sì, viene dal latino “posse” che significa appunto potere, potere fare, poi diventa un sostantivo che tecnicamente sarebbe un sostantivo deverbale, cioè viene dal verbo, si è sostantivizzato, è diventato “il potere”, però originariamente era un verbo “potere fare” “potere andare” “potere qualunque cosa” cioè trovarsi nella possibilità di potere decidere, di decidere ciò che si vuole, in genere “potere” si considera così. Ma occorre considerare bene come funzionano le parole perché forse è lì che si trova la risposta alla sua domanda, cioè perché gli umani vogliono necessariamente il potere, perché non sarebbe necessario in teoria né volerlo né doverlo esercitare su altri …

Claudia: posso interromperla? … lei l’ultima ha detto sì, il cristianesimo ha fatto così, Gandhi ha fatto così quella cosa lì è potere?

Per Nietzsche assolutamente sì, anzi è la forma più grande, più straordinaria, epica di potere: porgere l’altra guancia. Nietzsche diceva che nel momento in cui l’altro mi dà uno schiaffo e io non glielo restituisco, cioè non mi metto al pari di lui, mi metto in una posizione che è talmente al di sopra di lui che non mi raggiungerà mai più, per questo Nietzsche considera che questo gesto, emblema del cristianesimo, sia la massima manifestazione del potere, che non è lontano da ciò che le dicevo prima rispetto al permettere all’altro di esercitare un potere su di me.

Claudia: portandola su un esempio più semplice non è quella forma di potere che permette il dialogo? Perché se io ho una posizione e lei ne ha un’altra e io continuo a tenermi la mia e lei la sua è possibile che ci sia un litigio poi io posso cambiare la mia opinione nella sua un asservimento e viceversa ma il dialogo in cui ci sia la possibilità di costruire qualche cosa non si basa su queste forme di potere di questo tipo qui, che entrambi decidiamo di metterlo in gioco senza esercitarlo?

Intanto occorre dire che qualunque attività umana ha come obiettivo il potere, anche il dialogo ovviamente. Stavo pensando alle dispute teoriche di cui siamo stati per altro testimoni spesso, in una disputa teorica io sostengo una tesi e lei ne sostiene un’altra, magari contraria oppure un po’ diversa non importa, perché non si giunge mai a una conclusione? Perché si usano le parole con significati differenti. Peirce che è stato un logico americano piuttosto noto, diceva che la prima cosa da fare in ambito filosofico, ma non soltanto, è intendersi sui termini che si usano perché se lei e io dovessimo avere una disputa per esempio sull’inconscio, se con “inconscio” lei intende una cosa ed io un’altra non ci intenderemo mai ovviamente, quindi la prima cosa da farsi è intendersi sui termini. Se io con “inconscio” intendo una certa cosa è perché ritengo che questo mio modo di intenderlo sia vero, quindi succede che io impongo a una certa cosa, a un certo termine un significato, glielo impongo nel senso che posso anche giustificarlo eventualmente, dargli dei motivi, però alla fine risulta che ho imposto un certo significato e lei fa altrettanto con il suo. Questa imposizione ha degli effetti, e cioè questo potere che io esercito su quella parola “inconscio”, dicendo che significa quella certa cosa che io voglio che significhi è come se mi desse il potere sulla cosa, può pensarla così in termini forse più semplici: il potere sulle cose è il potere di attribuire significati alle cose, tant’è che se io do un certo significato a una certa cosa immagino di averla compresa, di coglierla, di averla afferrata e quindi mi mette nella posizione di colui che pensa di avere colto l’essere dell’ente, l’essere della cosa, che cosa è veramente. Lei l’inconscio potrebbe significarlo freudianamente come l’incontro di tutto ciò che è stato rimosso per qualche motivo più tutte le pulsioni dell’Es, quindi per lei l’inconscio significa questo, supponiamo che invece per me significhi la logica particolare a ciascuno, per altri motivi, io potrei anche sostenere questa tesi, però ciò che a noi interessa adesso è che io ho dato un significato e che quindi immagino che quel significato in qualche modo corrisponda all’essere della cosa, cioè che la cosa sia quella lì, che io definisco in quel modo e non un’altra. A questo punto che la cosa si fa interessante perché avendo potere sul significato è come se, intendendo il significato come ciò che è proprio di quella cosa, appunto l’essere dell’ente, io conoscessi la verità, ed è questo il motivo per cui io non recederò dalla mia posizione, perché quella cosa è, “è” quella cosa e non un’altra, e quindi se lei pensa altrimenti allora lei è in errore, perché se quella cosa è quello che io intendo qualunque altra cosa lei pensi è falsa, perché ciò che io intendo è necessariamente vero, essendo il significato l’essere della cosa, la sua essenza, quindi io dando un significato a una certa cosa esercito un potere straordinario perché è come se, in ambito di quel significato, cogliessi l’“essere”, la cosa per quello che realmente è. Non è che una persona si faccia tutti questi discorsi generalmente quando chiacchiera, però è come se questo funzionamento agisse in automatico: se io concludo una certa cosa.

Claudia: si se intendiamo “dialogo” nella semplice accezione di comunicazione di informazioni …

Il dialogo è fatto di infinite cose, però la sua domanda verteva sulla eventualità di potere modificare la propria posizione, è ciò che facciamo continuamente Claudia, acquisiamo ininterrottamente nuove informazioni che vanno a modificare queste “certezze” almeno una parte, alcune magari no ma molte sì, si cambia la propria posizione, si cambia idea, si crede una certa cosa poi si acquisiscono nuove informazioni e questa cosa che prima si credeva vera non lo diventa più, si incomincia a mettere in dubbio, in discussione anzi sarebbe auspicabile che avvenisse ininterrottamente …

Claudia: esatto perché io possa permettere questa cosa io deve rinunciare al potere …

No, non esattamente, lo sposta. Non rinuncia, questo è un punto essenziale, perché se rinunciasse al potere allora non rinuncerebbe alla sua posizione, rinuncia alla posizione solo se ha in cambio qualcosa, e cioè la possibilità di esercitare altrimenti il suo potere. Questa è una questione importante perché quando si cambia opinione si passa da una certezza assoluta a un’altra certezza assoluta, anche se sembra strano. Un po’ come avviene anche nella scienza in buona parte almeno per alcuni funziona così, senza rendersi conto che questa certezza assoluta di oggi sarà la stupidaggine fra cent’anni, però nel modo in cui funziona il linguaggio occorre tenere conto che ciascuna volta in cui si crede vera una cosa è come se questa cosa fosse vera per sempre, anche se non lo è naturalmente, ma è come se fosse una verità, come dicevano i medioevali “sub specie æternitate”, cioè sarà sempre così, l’opportunità è di incominciare a considerare che ciascuna di queste verità che intervengono parlando, come se fossero immutabili in realtà non lo sono, non lo sono neanche in quel momento questo però comporta dei contraccolpi non indifferenti, perché è come se dovesse cessare di credere a ciò in cui sta credendo in quel momento e questo non è semplice.

Claudia: quello che lei sta dicendo è che comunque non possiamo parlare e pensare senza usare degli assoluti e non c’è un altro modo …

Per potere usare una parola occorre che questa parola abbia un significato in quel momento, se no non la posso usare ed è così in effetti, però ciò che sfugge è che questo significato ha l’unica utilità di consentire di usare quella parola per costruirne altre, e cioè questo significato non dice come stanno le cose. La ricerca del significato è stata per millenni la ricerca della proprietà più proprie di qualche cosa, già da Aristotele con la οὐσία, la sostanza. Sta qui la differenza fondamentale tra il modo di pensare di tutto l’occidente, di tutto il pianeta oramai, e un modo di pensare che possa riuscire a non essere più un pensiero metafisico e cioè non fondarsi più su un qualche cosa immaginando che quel “qualche cosa” sia necessariamente quello che è, non perché io l’ho stabilito perché mi serve che sia quello che è in questo momento, ma che sia veramente, realmente quello che è, che è il pensiero metafisico. Se so che uso una parola con un certo significato all’unico scopo di proseguire a parlare, allora sono fuori dalla metafisica, cioè non mi inganno più rispetto a ciò che io stesso sto dicendo, immaginando che il significato che do alle cose, che impongo alle cose corrisponda all’“Essere dell’ente”. Un significato lo trova anche sui dizionari, come l’uso più corrente, come diceva Wittgenstein il significato non è altro che l’uso che si fa di un termine, sì è vero, ma quale uso ne faccio di volta in volta? È sempre lo stesso? No, cambia e cambiando cambia anche il significato: a un certo punto mi trovo a dare un significato in base a un certo uso che voglio fare di quella parola, ma cosa c’è alle spalle di tutto ciò? C’è una volontà di potenza che procede dalla stessa operazione fatta in precedenza, impongo un significato per una volontà di potenza ma questa volontà di potenza mi viene dal fatto che non posso non dare un significato: allora o immagino che questo significato corrisponda all’“Essere dell’ente” oppure so e non posso non sapere che questo significato ha il solo scopo di farmi continuare a parlare. Nel secondo caso non c’è più nessuna possibilità di credere che questo significato che io do a quella cosa sia la proprietà necessaria di quella cosa, che è necessaria a quella cosa per essere quella che è. Questo inganno viene dal funzionamento stesso del linguaggio che mi “costringe” in un certo senso, se voglio parlare, a usare una parola con un certo significato, non posso non farlo se voglio parlare, però o so che cosa sto facendo esattamente oppure non lo so e allora sono travolto da questo pensiero che è quello corrente che dice che invece quel significato è quella cosa per cui non c’è nessuna possibilità di dialogo a questo punto, ma c’è lo scontro, c’è la guerra. Il dialogo può verificarsi nel momento in cui alcune cose sono rinunciabili, magari anche importanti ma rinunciabili, se invece il dialogo tocca delle verità considerate irrinunciabili allora non c’è più dialogo, la persona si arrocca sulla sua posizione e di lì non si muove più, come dire che su questa cosa non si può parlare: c’è almeno una cosa che si immagina fuori dalla parola di cui non si può e non si deve parlare.

Claudia: se riconoscessimo che non sono verità assolute potremmo parlare di qualunque cosa …

Sì e no, perché riconoscere che non esistono verità assolute dovrebbe essere a sua volta una verità assoluta, è il discorso degli scettici, “tutto è relativo”, ma quindi anche questa affermazione, allora qualcuno dice “no, è tutto relativo eccetto questa affermazione” questa non lo è, questa è l’assoluto. È un modo anche quello di risolvere il problema …

Claudia: no, quello che volevo dire io è un’altra cosa, se non conoscessimo che non possiamo padroneggiare o comunque possedere qualche tipo di verità contemplata dal sistema che utilizziamo a quel punto noi potremmo parlare di qualunque cosa …

Si può parlare di qualunque cosa certo, e in effetti gli umani lo fanno da sempre, però si può avere la consapevolezza dell’impossibilità di trovare un elemento che sia fuori della parola, allora in questo caso non ci sarebbe più la necessità di cercare il potere né di esercitarlo sull’altro perché non avrebbe più nessun interesse. È straordinariamente difficile ma non impossibile …

Beatrice: forse proprio per il modo di parlare perché ciascuno si trova ad affermare continuamente delle cose e il funzionamento del linguaggio procede tranquillamente “fermando” certe questioni e le persone vanno avanti e anche se non riconoscono la verità assoluta comunque è come se, non accorgendosi di parlare, questa funzionasse …

Basterebbe tenere conto delle moltissime cose che sono state dette dalla logica ma in particolare dalla semiotica e in alcune filosofie, perché questo significato è quello dell’uso che se ne fa generalmente quindi è quello che è per potere usare la parola ma nel momento, nell’istante diciamola così in cui la uso questa parola è già infinite altre cose, infiniti altri discorsi, altri racconti, storie che intervengono mentre la sto usando, è come se ci trovassimo di fronte a una parola che è quella che è ma al tempo stesso non può essere quella che è, è quella che è per utilizzarla…

Claudia: se tutti riconoscessimo il funzionamento del linguaggio che cosa cambierebbe nel modo in cui ne cui parliamo?

Può pensare a come le cose potrebbero cambiare se qualcuno non avesse più la necessità di agire o di subire il potere. Non c’è più la necessità perché sa che ciò che sta affermando non è necessariamente vero …

Claudia: però se noi riconosciamo che questo funzionamento è vero che cosa …

Sì occorre distinguere tra l’esercitare un potere nel senso di attribuire un significato a una parola per poterla usare, dalla necessità di imporre su altri questo significato, questa è la differenza sostanziale, sì certo sto usando un potere nel senso che do un significato a una certa cosa …

Claudia: la mia domanda era diversa se noi consideriamo che la sua teoria, che la sua teoria sul linguaggio sia vera … Quando lei dice, quando ci parla di queste cose, esercita bene un potere?

C’è sempre qualcuno che attribuisce un potere, la differenza sta nel fatto che non ho bisogno di esercitarlo. Posso farlo per gioco, per vari motivi, ma non ho bisogno di farlo perché so che ciò che sto dicendo non è la verità, e allora si perde la necessità di compiere questa operazione …

Sandro: la questione di Dostoevskij, di cui parlava Ferruccio, è legata anche alla questione delle Servitù volontaria, la questione è del tornaconto di questa cosa, l’atteggiamento di Dostoevskij di questa moglie che lo teneva sotto controllo e lo faceva scrivere … la servitù volontaria prima si parlava della responsabilità e a me veniva in mente anche un'altra questione che è una sorta di economia del rischio, perché la gente cerca sicurezza ed è disposta a rinunciare alla propria libertà in nome della sicurezza? Facevamo tempo fa questo discorso come se in un certo senso che cos’è “sicurezza” la sicurezza è l’annullamento del rischio, la sicurezza totale è uguale a rischio zero (o zero paura) la questione è che “zero rischio” è potere assoluto. È tutto sotto controllo, quindi l’idea appunto che un personaggio come Dostoevskij accettasse questa figura femminile che aveva un potere assoluto su di lui ma nello stesso tempo per lui comportava un annullamento del rischio quindi potere assoluto per sé, perché questa cosa dava sicurezza e a me veniva in mente anche un modo di condurre la vita degli umani che è alla rincorsa in moltissimi aspetti dall’aspetto sentimentale, economico eccetera la ricerca della sicurezza è fondamentale che è un altro modo per dire appunto la ricerca del potere di avere finalmente un potere, un controllo senza alcun rischio, senza alcun rischio laddove invece nel momento stesso in cui si intende come funziona il linguaggio a questo punto inevitabilmente c’è l’accettazione del rischio, esattamente come nel gioco, in un qualunque gioco non si sa come va a finire, c’è uno che vince, che perde eccetera è un rischio, in questo caso accettare tra virgolette il rischio di “vita”. È interessante come la gente cerca sicurezza e in funzione di questa sicurezza rinuncia alla libertà ma per avere un potere (la paura …) per l’economia dell’incalcolabile come quando io inizio a giocare una partita a poker non so come va a finire però mi diverto proprio per questo, occorre intendere se questo scacco continuo sia un fallimento oppure un successo …

È ciò che dice Freud rispetto al lapsus, all’atto mancato che in realtà è un atto riuscito.