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8 marzo 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Occorre tenere conto di Hegel, ha posto delle questioni straordinarie che hanno effettivamente cambiato il modo di pensare, nonostante spesso non sia stato inteso. Ci sono tre cose che a noi servono maggiormente. La prima, quella che lui chiama Aufhebung, e cioè la simultaneità di ciò che è posto e del suo negativo, per cui non posso porre nulla senza il suo negativo, le due cose sono simultanee: non esiste una A senza non-A, e viceversa. La seconda è che questi due momenti non sono separabili – questa è un’indicazione precisa di Hegel – e che pensarli separati è esattamente il pensiero religioso. Il pensiero religioso è questo: separare le due cose, positivo e negativo, bene-male, buoni-cattivi, con una linea in mezzo che li tenga ben separati. Questo perché solo così posso pensare di essere dalla parte del bene, soltanto se lo tengo separato dal male. Essere dalla parte del bene è fantasmaticamente importante, perché è quella cosa che consente di potere biasimare, rimproverare, colpire i cattivi; ma per poterlo fare devo sapere chi sono i cattivi, e i cattivi sono coloro che non pensano come me. Il motivo, che riguarda la volontà di dominare l’ente, è proprio questo: l’opportunità di avere qualcuno da biasimare, da rimproverare, da colpire, da umiliare, da ridicolizzare, ecc. Ma per fare questo devo necessariamente pensare di essere dalla parte del bene, di conoscere il bene. Per conoscere il bene questo deve essere determinato, cioè, deve essere la A senza non-A. La terza figura è l’anima bella, che è quella che immagina di avere separati il bene dal male, di essere dalla parte del bene, cosa che la autorizza a scagliarsi contro quelli che non pensano come lei, a scagliarsi contro i cattivi, che a questo punto sono identificati. Queste tre figure sono quelle che ci hanno accompagnati, e che ci accompagneranno ancora nel prosieguo; dovranno sempre essere presenti. Un ente è quello che è a condizione di non essere quello che è, la A è determinata da non-A e non-A è determinata da A, simultaneamente. È questa l’indicazione di Hegel, che è stata anche la più difficile da accogliere per i più. Se pensate, per esempio, a tutta la questione del servo e del padrone, che in Kojève, che era membro del Partito Comunista Francese, queste due figure, i padroni e i lavoratori, dovevano essere tenute ben distinte. Pensate al caos che si sarebbe creato se queste due figure fossero state pensate come lo stesso: non ci sarebbe più stata la possibilità di pensare che i lavoratori potessero un giorno eliminare i padroni e prendere il loro posto, questo non era accettabile. E, infatti, non lo è mai stato, perché è la cosa più difficile, non tanto da intendere concettualmente, ché tutto sommato è abbastanza semplice, ma da accogliere, è quasi impossibile. È come rinunciare a un’identità, che procede dalla considerazione di essere dalla parte del bene, quindi, di essere in diritto di colpire gli altri, cioè, di esercitare il potere sugli altri, deridendoli, biasimandoli, ecc. Che cosa determina un ente? Qui si pone naturalmente una questione, sulla quale occorre riflettere, perché che cosa è effettivamente un ente? Con ente intendiamo qualunque cosa, tutto ciò che noi diciamo che è, è un ente. Dunque, dicevo: sapere che cos’è esattamente questo ente. Che poi apparentemente è stata la ricerca dagli inizi fino ad oggi. Tutta la filosofia, la linguistica, la filosofia della natura, che oggi si chiama fisica, tutto questo sembra far pensare che sia stato questo l’obiettivo: conoscere l’essere dell’ente. Ancora Heidegger, tutto sommato, insegue questa idea: l’essere dell’ente. Lo dice fra le righe, mai esplicitamente, anche perché probabilmente non ci ha pensato nemmeno lui, così come sicuramente nemmeno Aristotele, mentre sui presocratici ci sarebbe da rifletterci meglio. Ma è davvero questo che importa? Nietzsche ci è arrivato, a modo suo, superficialmente perché non conosceva nulla del funzionamento del linguaggio, quindi, è rimasta un’idea fra le tante, non è mai stata problematizzata seriamente. Ma, dicevo, è davvero questo che interessa, conoscere l’essere dell’ente, cioè che cosa l’ente è davvero, o non gliene importa niente a nessuno? Importa soltanto che sia utilizzabile, cioè, poterlo utilizzare al fine della volontà di potenza in modo da dominare qualcuno o qualcosa, preferibilmente qualcuno. Ciò che importa è che qualcosa sia utilizzabile. E come avviene questo? Lo abbiamo detto varie volte, la dea ‘Aλήθεια ci ha indicato la retta via: è inutile stare a pensare a ciò che è, a ciò che non è, non lo saprai mai, perché l’essere è tale in quanto è non-essere e il non-essere è tale in quanto è essere; quindi, è la δόξα, l’opinione, il si dice. È il si dice che rende finite le cose. Parlavamo della finitezza. L’unica cosa che può dare la finitezza è l’opinione: si dice che sia così, quindi, è così e tanto basta. Ciò che importa è potere pensare che qualcosa sia finito, e per poterlo pensare come finito occorre pensarlo come δόξα, come opinione. È solo l’opinione che rende finito qualcosa.

Intervento: Può pensarsi la δόξα come integrazione di essere e non-essere?

Da una parte, sì, in quanto accoglie entrambe le posizioni; dall’altra, no, perché queste due posizioni, in effetti, non le problematizza mai, non fa mai un passo verso il pensare teoretico, deve rimanere un “si dice”, solo così qualche cosa è utilizzabile. Ciò che approccia il pensare teoretico non è, in effetti, propriamente utilizzabile come finito, perché non è mai finito, è un qualche cosa che, man mano che si pone, immediatamente rinvia ad altro. È per questo che dicevo che soltanto la δόξα offre, regala il finito, perché “si dice così” ed è chiuso il discorso. E il discorso può chiudersi soltanto se si accoglie il “si dice così” e non si problematizza, cioè, non si interroga il perché si dice così, a che scopo, chi l’ha detto. La δόξα, proprio perché δόξα, non si chiede mai chi l’ha detto, non si chiede da parte di chi e a partire da che cosa “si dice”; è come se dovesse rimanere sulla superficie. Il “si dice” non può mai essere interrogato, svanirebbe. Tuttavia, rimane il fatto che parlando si usa sempre e soltanto la δόξα, la retorica, l’opinione. Questo non impedisce comunque di interrogare la δόξα. D’altra parte, anche Parmenide diceva che ciò con cui abbiamo a che fare è solo la δόξα: ciò che è, ciò che non è e ciò che si crede che sia. È quest’ultima l’unica cosa su cui possiamo fare conto, è questa l’unica finitezza, perché gli altri si rinviano l’uno all’altro, non c’è modo di stabilirli come finiti. Ora torna fondamentale ciò che dicevamo prima di Hegel, perché la simultaneità tra il posto e il suo negativo non è pensabile in quanto tale, non posso pensare simultaneamente una cosa e il suo negativo, o penso l’uno o penso l’altro, quindi, la separazione dei due non è una cosa che piove dal cielo ma è il modo inevitabile in cui si pensa. Non posso pensare l’in sé e il per sé simultaneamente. Sì, certo, posso pensare all’Aufhebung, all’integrazione tra i due momenti, che rimangono distinti – questo lo dice sempre Hegel – non separabili ma distinti, ed è così che pensiamo inevitabilmente: se io penso qualcosa, lo penso necessariamente come qualcosa di finito. Questo ci dice del perché, in effetti, si pensa il posto e il suo negativo come separati, inevitabilmente. Ma possiamo non fermarci lì. Conoscendo il funzionamento del linguaggio, possiamo porre la cosa in termini molto precisi e anche relativamente semplici. Quando affermo qualcosa l’affermo in quanto ciò che quella affermazione non è: la A è A in quanto è non-A, perché per descrivere o determinare la A dico cose che non sono la A. È ciò che abbiamo indicato come il problema del linguaggio, non ce ne sono altri. E, allora, ecco che ciò che si dice diventa non controllabile: se per dire A devo dire non-A e per dire non-A devo dire A, come controllo la cosa? Separandoli, immaginandoli come separati, solo in questo modo posso immaginare di controllare la cosa. Questo non viene tanto dalla necessità di controllare ma dalla necessità di dire: se io dico una cosa dico quella e non posso dire simultaneamente il suo contrario; posso, problematizzando la questione, accorgermi che quella cosa è quella in quanto non lo è, ma parlando, pensando, devo pensare una cosa per volta; così come quando parlo, dico una parola per volta, non posso dire tutte le parole simultaneamente. Da qui l’importanza della δόξα, dell’opinione, perché è ciò che consente di rendere qualcosa come finito, ed è il “si” che rende le cose finite: il si dice, si pensa, quindi, è così. La parte dedicata alla retorica sarà una parte importante perché rimarrà a tema per tutto ciò che diremo anche più avanti. La δόξα è ciò con cui abbiamo a che fare, è ciò da cui noi traiamo l’utilizzabile, ciò che ci serve per continuare a parlare; lo traiamo dal “si dice” perché, come dicevo, soltanto il “si” rende finito qualche cosa, quindi, utilizzabile. Ecco perché la dea ‘Aλήθεια diceva che c’è solo δόξα: se vuoi parlare non hai altro che la δόξα. Tuttavia, la considerazione successiva è che perché la δόξα possa darsi, possa essere praticata, è necessario che ci sia qualche cosa che non è δόξα. Ancora Parmenide. Lui arriva a dire che l’unica cosa praticabile è la δόξα, sì, certo, ma dopo avere parlato dell’essere e del non-essere, dell’ente e del non-ente, di ciò che è posto e della sua negazione, dirà poi Hegel. Perché questo? Se ci pensiamo, la risposta non è poi così difficile. Il “si” del si dice, si pensa, ecc., che funzione ha? Rendere qualcosa finito, quindi utilizzabile. Ma se è necessario che ci sia il “si” perché qualche cosa sia finito e quindi utilizzabile, questo ci dà da pensare che se non ci fosse il “si” non sarebbe utilizzabile, e cioè che c’è qualche cosa che il “si” risolve, qualche cosa che il “si, in un certo qual modo, rimpiazza. Se sapessi che cos’è l’ente, l’essere dell’ente, se sapessi con certezza, in modo incontrovertibile che cosa è e che cosa non è, il “si” sarebbe totalmente inutile. Quindi, la δόξα, l’opinione, sorge dalla esigenza di finire, di mettere una fine, un τέλος, direbbe Aristotele, a qualcosa che non ha fine né può averla. È come se il linguaggio, per dirla in modo un po’ rozzo, avesse costruito l’infinito, cioè l’indicibile, insieme con il suo rimedio. È una questione che avevamo già approcciata tempo fa quando dicevamo che il linguaggio è ciò che mi consente di vedere cose ma mi impedisce di sapere che cosa sono. In fondo, era ciò che diceva Zenone: vedo che Achille raggiunge e supera la tartaruga, certo che lo vedo, ma posso dimostrarlo? Se devo dimostrarlo devo costruire una dimostrazione, devo incominciare a inventarmi delle regole, devo inventarmi un sistema di calcolo, e tutto questo che fondamento ha? Nessuno. Ecco che non posso concettualizzare quello che vedo, cioè, di fatto, non so che cosa vedo. Mettiamola così: io affermo A, per potere affermare A devo dire non-A, e poi posso andare avanti all’infinito; per ovviare a questo impossibile, che renderebbe impossibile il linguaggio, il linguaggio costruisce un rimedio, che è appunto l’opinione, il “si”. Il “si” ferma il percorso in un punto qualunque, non importa quale, l’importante è che ce ne sia uno. Se ci pensate, è la stessa cosa che diceva de Saussure rispetto al significante e al significato: ciascun significato è arbitrario, nessun significato è necessario che sia proprio quello, ma è necessario che ci sia, che ci sia un significato, non importa quale, ma deve esserci, sennò un significante non è un significante, perché non significa niente. Ecco, quindi, la necessità della δόξα, che fa parte integrante del linguaggio, perché è l’altra faccia dell’impossibile, che è il linguaggio; diciamo che è l’altra faccia del problema del linguaggio, quella cosa che “risolve” il problema del linguaggio, per cui in questo modo, grazie alla δόξα, possiamo parlare. Siamo a pag. 150. La retorica deve dunque porre in luce una determinata possibilità che mette nella condizione di vedere il πιθανόν, ciò che contribuisce alla formazione di un πιστεύειν. Aristotele la chiama anche πίστις. Qui però πίστις non significa “fede”, il “tenere per”, bensì ciò che parla a favore di una determinata cosa, riguardo alla quale si può ottenere un πιστεύειν (persuasione dell’altro). Per utilizzare πίστις nel suo significato comune, fare in modo che l’altro abbia fede in ciò che io dico. Il rapporto tra πιθανόν e πιστεύειν è analogo a quello tra άληθεύειν e ἀληθής: il “non nascondimento dell’ente che “ci” è”, che ha la possibilità di contribuire all’άληθεύειν. L’άληθεύειν è un modo dell’“essere nel mondo” tale che lo si ha lì davanti non-nascosto, così come esso è. Così inteso, l’άληθεύειν è un fenomeno fondamentale verso cui ci dirigiamo. Ci ritorneremo in un’analisi successiva. Ciò costituisce anche la base del λέγειν, nella misura in cui la δόξα è un modo particolare di appropriarsi dell’ente così come esso si mostra. La δόξα si appropria dell’ente, così come lui si mostra. Sì, certo, e com’è che si mostra? Teniamo conto di ciò che dicevamo l’altra volta: l’ente che ho di fronte a me è un discorso, ma il mio discorso; qualunque cosa, come questa penna, è un discorso, ma è il mio, perché io la vedo in un certo modo, la penso in un certo modo, la costruisco in un certo modo. Dunque, ciò che fa dell’ente quello che è, è sì, certo, la δόξα, ma, essendo il mio discorso, è costruito sul si dice, sul si pensa. Come so che questa è una penna? Cosa vuole dire l’affermare che so che questa è una penna? L’ho imparato, si dice che questa è una penna e io continuo a ripetere questa storia, ma il dire “questa è una penna” di per sé non significa assolutamente niente; significa in quanto c’è alle spalle un discorso che dice che questa è una penna, per cui si dice che è una penna. La πίστις è ciò che è utile alla formazione di un πιστεύειν. Il ciò che parla a favore di qualche cosa è utile per persuadere l’altro. Ma a questo punto che cos’è il πιστεύειν? Persuadere l’altro significa persuaderlo che si dice che le cose stanno così come io riporto. È come se io volessi fare prevalere il mio “si dice” su quello dell’altro discorso. Aristotele offre una suddivisione delle πίστεις; 1. ἄτεχνοι (fuori dalla tecnica), 2. ἔντεχνοι (che sono nella tecnica). Consideriamo anzitutto le πίστεις ἔντεχνοι: ciò che parla a favore di una cosa, e di cui noi stessi possiamo disporre, ciò che noi stessi siamo in grado di attuare in proprio. Noi stessi abbiamo la possibilità di essere qualcosa che parla a favore di una cosa. Essere una πίστις per un siffatto essere-parlanti significa: diventare noi stessi πίστεις in quanto ἔντεχνοι, attuati da noi stessi. Diventiamo cioè noi stessi questa modalità di persuadere l’altro. È per questo che poi darà molto spazio alla situatività, perché è quella che occorre creare nell’altro: occorre creare retoricamente nell’uditore una situazione tale in cui lui crede di essere, cioè, gli creo un mondo intorno, la persuasione è questo. Πίστεις ἄτεχνοι: ciò che parla a favore di una cosa, e che non può essere procurato da noi, ma è lì già da prima, e di cui dunque ci possiamo servire: “testimonianze (μάρτυρες)”, “torture (βάσανοι)”, “documenti scritti (συγγραφαί)”. /…/ Queste πίστεις son modi di parlare a favore di una cosa che è oggetto di dibattimento, ed è lì davanti a noi. /…/ Di questi modi di “parlare a favore di qualcosa”, che possono esser addotti mediante il discorrere, si danno tre specie, conformemente a una triplice possibilità di intendere i λόγοι: 1. “nel comportamento di colui che parla”, nel “come” l’oratore si dà e si comporta nel suo discorso. In ciò vi è qualcosa che può parlare a favore di una cosa. Nel suo ἦθος, nel suo “comportamento”, l’oratore è esso stesso una πίστις. È l’oratore con il suo comportamento che dà fede, per es. con la sua autorità. 2. “nel portare in un sentirsi-situato”, “nel modo in cui l’ascoltatore viene portato in una determinata situatività”, quell’ascoltatore la cui presenza è implicita nel λέγειν. Il modo in cui l’ascoltatore, ascoltando, si dispone nei confronti della cosa, in quale disposizione si trova, la specifica modalità del “portare l’ascoltatore in un sentirsi-situato” – tutto ciò implica una πίστις, qualcosa che può parlare a favore della cosa. La διάθεσις (posizione) dell’ascoltatore determina la sua κρίσις, cioè l’“opinione” che egli, alla fine, si forma, il modo in cui concepisce la cosa. 3. il λέγειν stesso è πίστις in quanto funzione fondamentale dell’esserci. Attraverso il modo in cui si parla di una si forniscono ragguagli su di essa. … il modo specifico in cui si parla, l’obiettività o la mancanza di obiettività dell’oratore in quanto tale. /.../ Dice Aristotele: il λόγος dev’essere tale, il discorso dev’essere tenuto in modo “da rendere di per sé degno di fede l’oratore”, il quale dà quindi l’impressione che la cosa sia proprio così come la dice. Cioè: è così come dico io, ed è così per via dell’autorità che gli altri mi concedono. Aristotele afferma espressamente: tramite il discorrere, tramite la modalità specifica di parlare dell’oratore, deve divenire visibile l’ἦθος (condotta), è dal discorrere come tale che deve nascere e svilupparsi la πίστις. Anche se abbiamo salde opinioni, “nondimeno ci fidiamo comunque di più e più facilmente delle persone oneste, che ci fanno una buona impressione, e tanto più quando la cosa è controversa, quando se ne può parlare sia in un senso che nell’altro, quando rimane in sospeso, proprio allora è la modalità specifica di comportarsi dell’oratore a dare il colpo decisivo. Con la mia autorità do peso alle parole. Perché sono io; se le stesse parole le dicesse uno qualunque, ecco che perdono di autorevolezza. Le trattazioni precedenti ritenevano che l’ἦθος “non contribuisse in nulla al πιθανόν”. Questo lo si affermava prima di Aristotele – una frecciatina contro la sofistica. Invece il comportamento, il modo di condursi, è la πίστις “più eccellente”, la modalità più eccellente di parlare a favore di una cosa che l’oratore sostiene. Per i sofisti non era così. I sofisti costringevano la ragione a piegarsi in un certo modo. Come? Portandola alla contraddizione, al paradosso, come dire: di qui non si può andare, quindi, devi accogliere necessariamente quest’altra via. È chiaro che in questo caso la rilevanza dell’oratore si riduce di importanza. Come si sente-situato l’ascoltatore a cui si parla della cosa, qual è il suo stato d’animo, qual è la διάθεσις (posizione) dell’ascoltatore. Questi erano tutti consigli di Aristotele, che sono rimasti tali e quali, non è cambiato assolutamente niente. Aristotele accenna al fatto che nessun giudizio viene formulato nello stesso modo, per esempio “se siamo tristi oppure contenti”. Dovere fare una conferenza, per esempio, e avere di fronte un uditorio di persone tristissime oppure di persone felicissime, gaie, ecc.: cambia il modo in cui parlerà l’oratore. Dipende da come ci rapportiamo a ciò che ascoltiamo, se con simpatia o antipatia. La διάθεσις dell’ascoltatore è decisiva. Nel tenere il suo discorso l’oratore deve mirare a trasporre l’άκροατής (ascoltatore) in un determinato παθος (sentire), entusiasmando gli ascoltatori a favore di una cosa. Questo soprattutto nel discorso epidittico, che è quello che elogia una certa cosa, una certa situazione, un certo personaggio. Dal punto di vista storico la sua indagine sui πάθη ha avuto effetti di grande portata: l’influsso sulla Stoa, l’intera teoria degli affetti così come oggi ci viene tramandata. In effetti, è da lì che nasce la teoria degli affetti, ma la cosa interessante è che nasce per la necessità di piegarli al mio volere. È per questo che ci si è occupati del παθος, del sentire, che di per sé non interessa a nessuno, ma mi interessa nel momento in cui voglio che l’altro cambi opinione. Da qui sorge tutto il pensiero intorno alle emozioni, alle sensazioni, ecc., fino ad arrivare a Freud; nasce da lì, dalla necessità di modificare il sentire di qualcuno. I πάθη, gli “affetti”, non sono stati dell’apparato psichico, si tratta piuttosto di un sentirsi-situato dell’essere vivente nel suo mondo, cioè del modo in cui esso è posto nei confronti di qualcosa, di come lascia che una cosa lo riguardi. I πάθη non sono stati dell’apparato psichico, ma come la persona si sente nel mondo, in cui si trova in quel momento. Gli affetti svolgono un ruolo fondamentale nella definizione dell’“essere nel mondo”, dell’“essere con altri e nei confronti di altri”. In effetti, cambia tutto. Lo diceva prima: se io sono triste, depresso, ecc., ascolterò in modo differente da che sono invece felice, contento, ecc. Πίστις, “ciò che può parlare a favore di una cosa”… La retorica non è altro che trovare quegli argomenti utili per parlare a favore di una cosa. …è il parlare della cosa stessa. Nel parlare dev’essere mostrato l’ἀληθής, il “non nascosto”, la cosa così come se ne sta lì, libera da tutte le determinazioni. Non è proprio vero, la cosa non se ne sta lì libera da tutte le determinazioni, perché senza le sue determinazioni non ci sarebbe nemmeno la cosa. Per la precisione, questo ἀληθής va mostrato “in base agli avvenimenti e alle circostanze che parlano a favore della cosa”… Cioè, la cosa viene creata dal parlarne a favore o a disfavore, a seconda dei casi. Se ne parlo a favore creo una certa cosa, se ne parlo a contrario, come dicevano i latini, ecco che creo un’altra cosa. Questo è già un modo per intendere ciò che dice Heidegger quando dice che ciascuno è il mondo in cui si trova e di cui è fatto. Se io riesco a modificare il mondo di cui è fatto qualcuno, di conseguenza modifico questo qualcuno, perché il suo mondo sarà un altro. …un ἀληθής, quindi, che non viene dischiuso da un θεωρεῑν, ma fa emergere piuttosto il vero nel verosimile. Il verosimile è ciò che si crede che sia. Dice Parmenide che non puoi sapere nulla né dell’essere né del non-essere, non puoi sapere che cosa è vero, ma puoi sapere che cosa è verosimile. Poi, tecnicamente non posso sapere nemmeno il verosimile, perché sarebbe simile a che? Dovrei sapere che cosa è vero per potere sapere che cos’è verosimile.

Intervento: C’è sempre il “si dice”.

È vero, è lui che rende le cose verosimili, cioè, fa credere che siano verosimili, che ci sia un vero al quale queste cose si avvicinano. Gli ἄτεχνοιἄτεχνοι sono quelle cose che, come diceva prima, non hanno bisogno del mio apporto diretto: la testimonianza, la tortura. …hanno il loro senso in quanto πίστει solo se sono orientati sul τέλος di un determinato λέγειν, il discorso giudiziario. /…/ Dobbiamo chiarirci le idee circa la definizione che descrive la ṕητορική come una δύναμις. Retorica come possibilità, come possibilità appunto di costruire discorsi a favore di una cosa. È evidente che la retorica non può spiegare ogni situazione concreta e ogni stato di cose particolare, tanto poco quanto la medicina può spiegare la specifica terapia adatta a Socrate o a Callia. La retorica non ha dimestichezza con un caso specifico, ma con casi di questo e quel genere, che hanno questo e quell’aspetto. La retorica che analizza il discorso giudiziario si occupa di questo genere di casi. Di per sé la retorica tratta di ciò di cui si discute abitualmente nella discussione. /…/ Nel libro I, capitolo 3, Aristotele perviene alla definizione fondamentale del λόγος che già conosciamo. Egli prende le mosse dall’orientamento generale secondo cui il parlare ha il suo τέλος nell’“ascoltatore”, l’άκροατής. Il fine del parlare è l’ascoltatore. Posso essere anche io naturalmente, ma si parla sempre per qualcuno, λέγειν τί κατά τίνός: dire qualcosa per qualcuno. E perché parlo per qualcuno? Per convincerlo, per produrre quel πιστεύειν, quella fede in ciò che io dico. Ciò implica che il parlare sia comunicazione. Qui avrete immediatamente pensato a Wittgenstein quando dice che non esiste un linguaggio privato – non sarebbe linguaggio – ma il linguaggio è sempre pubblico. Un discorso è pervenuto alla sua fine esclusivamente se è recepito in quanto comunicazione. Cioè, l’altro deve capire quello che dico. In base ai diversi modi in cui un ascoltatore può essere tale, Aristotele definisce tre diverse specie di λόγος. Aristotele è un catalogatore, c’è poco da fare, deve catalogare tutto, solo i botanici sono riusciti a fare peggio di lui. L’idea era sempre quella di arrivare alla fine alla sostanza, per cui, dopo avere catalogato tutto, si trova finalmente il principio primo. La struttura generale del λόγος è tale che il discorso consiste di tre elementi: 1. il “parlante”; 2. “ciò di cui” si parla, ciò che il parlante mostra; 3. l’ascoltatore a cui egli parla;… A pag. 155. Lo scopo della retorica è quello di metterci nella possibilità di vedere ciò che, nel dibattere su qualcosa, parla in suo favore, cioè di poter vedere la πίστις. Potremmo dirla così: parlando con Cesare, su che cosa Cesare potrebbe darmi ragione e puntare su quello, e cioè partire da ciò che immagino che Cesare accolga. Quindi, se io pongo una questione e lui la accoglie necessariamente, abbiamo una base di partenza, dalla quale io posso partire e giocare per inserire altre cose: se ammette questo, allora ammetterà anche quest’altro, con argomentazioni più o meno legittime a seconda delle circostanze. Queste πίστεις riguardano il λόγος, essendo il λέγειν ciò che si trova presso di noi. La veridicità di questo parlare si determina in base al contesto in cui esso si muove. A pag. 156. Dice del κριτής (giudizio) può formarsi un’opinione “su ciò che è accaduto o può accadere”. Colui che ascolta può formarsi un’opinione secondo ciò che è già accaduto (discorso giudiziario) o di ciò che potrà accadere (discorso epidittico). “Quello che si forma un giudizio su qualcosa che deve ancora accadere è l’έκκλησιαστής, il membro di un’assemblea popolare (dove il “ciò di cui” si parla in termini deliberativi ha il carattere del “non ancora”, però anche quello di un “qualcosa che può essere”, non nel senso di una pura possibilità, ma di ciò che rientra nell’ambito delle possibilità concrete di coloro che sono riuniti a consiglio e delle circostanze), mentre su ciò che è già accaduto è il giudice a doversi formare un’opinione”;… /…/ Ne derivano tre λόγοι differenti: discorso deliberativo, discorso giudiziario, discorso epidittico. A pag. 158. La retorica è παραφλυές, “qualcosa che nasce, si sviluppa e fa tutt’uno con la trattazione degli ἤθη, propriamente definibile come πολιτική. L’etica rientra nella politica.