M. Heidegger, Essere e Tempo
8 marzo 2017
Beatrice ci ha lasciati. Ha lasciato un grande lavoro fatto in questi decenni, lavoro di cui ciascuno di noi ha avuto e ha modo di disporre. Ma, soprattutto, il suo entusiasmo in ciò che facciamo, entusiasmo che l’ha accompagnata fino alla fine, così come la passione, che è stata uno degli aspetti più belli nel percorso che ha fatto insieme con noi. Una passione che non l’ha mai abbandonata. Come per ciascuno di noi. Ciò che stiamo facendo, è questa la vita, non è che sia altro, è quello che stiamo facendo. Dopo tutto, la cosa che le dispiaceva di più era di non potere proseguire questo lavoro. È che, come ormai da tempo è accaduto, abbiamo passato quel punto di non ritorno e non possiamo che proseguire. Proseguire a questo punto comporta una serie di cose. Sabato alla conferenza ho fatto un brevissimo accenno a una questione che merita di essere articolata di più. Ho detto che ciò di cui si tratta a questo punto non è più una riflessione teorica, le teorie è come se fossero diventate giochi per bambini. Una teoria che cosa fa? Dice o vorrebbe dire come stanno le cose, descrive uno stato di cose o sancisce, a seconda dell’idea del suo autore, sancisce uno stato di cose, ma, se non possiamo tenere conto che è impossibile descrivere uno stato di cose perché queste cose sono costruite dalla descrizione stessa. Questo è uno dei messaggi che Heidegger ci ha proposto, soprattutto quando parla della scienza, e ne parlerà ancora perché il discorso è tutt’altro che chiuso. Dicevo che se queste cose non stanno in nessun modo, allora ciò che sto descrivendo è una fantasia, è un gioco linguistico. Quindi, se vogliamo proprio dirla tutta, a questo punto, tenendo conto di queste cose, una teoria a che cosa serve? A niente, assolutamente a niente. È un divertimento, sì, indubbiamente, un divertimento intellettuale, anche estetico, così come un racconto, come un’opera lirica, quello che si vuole. Il che significa che l’approccio alla teoria o alle teorie, a questo punto, è totalmente differente. Infatti, dicevo che non si tratta più di un approccio teorico, che non ha più nessun interesse, se non un piacere estetico, ma un approccio teoretico, se con teoretico si intende una riflessione, una considerazione intorno alle condizioni di affermabilità degli asserti teorici, cioè, a quali condizioni posso affermare ciò che sto affermando, quindi, detta in termini più spicci, che cosa sto facendo mentre sto affermando queste cose, cosa che prevede una conoscenza del funzionamento del linguaggio, altrimenti questa operazione risulta ardua o si ferma subito. Quindi, la questione interessante è che a questo punto perde ogni interesse l’idea di costruire una teoria, non ha più nessun senso, né ha alcun senso prendere una teoria e utilizzarla come accade sempre. Uno prende una teoria, gli piace, e la fa sua. A questo punto ogni cosa viene interpretata in base a quella teoria, che, se ci pensate bene, è quello che dice Heidegger quando parla dell’esserci. Se lo si intende in modo interessante, l’esserci è questo: io con tutte le cose che so, mi rapporto a tutto ciò che mi circonda o a ciò che penso, che è lo stesso, quindi agli enti in generale, attraverso ciò che io sono in questo momento, e ciò che io sono in questo momento è tutto ciò che mi ha portato a essere ciò che sono in questo momento. Quindi, le cose che mi invento rispetto a una teoria, gli asserti teorici, sono il prodotto di ciò che io sono in questo momento, cioè, io penso che le cose siano quelle ma in base a ciò che io sono in questo momento. Le cose non sono né quelle né altre, non sono finché io non dico che cosa sono, il problema è che io dico che cosa sono, e non posso non farlo, non posso non dire che cosa sono per me. Heidegger sta dicendo questo in definitiva, e che dovrebbe portare al modo di approccio alle cose più autentico. L’autenticità e ciò che contrappone alla chiacchiera, alla deiezione, la dimenticanza dell’essere, cioè, dimenticando l’essere dimentico che queste cose sono quelle che sono in questo momento perché io sono quello che sono in questo momento, e sono quello che sono per via di tutto ciò che mi ha portato a esserlo. Anche interrogare una teoria, che interesse può avere? Per sapere se è interessante, se è vera, se è corretta, per vedere se è incoerente, autocontraddittoria? Certo, lo posso fare ma, dopo che l’ho fatto, che ne ho? Perché imparare una teoria, a che scopo? Cosa se ne ha dall’apprendimento di una teoria? Prendiamo, per esempio, quella di Lacan, o quella di Verdiglione, o quella di Freud. Il problema delle teorie in generale è che in realtà, e qui mi trovo abbastanza vicino a Heidegger, un po’ come per la scienza, queste teorie non pensano. Prendete qualunque teoria, i concetti fondamentali su cui si fonda, esattamente così come per la scienza, sono assunti, supposti, potremmo dire, pre-supposti: questa cosa deve essere così, è così, quindi, questa cosa è così, allora su questo poi costruisco tutto quello che mi pare. Ciò che non pensa sono proprio queste supposizioni che sono indispensabili per costruire tutto ciò che costruisce. Questo è l’aspetto interessante di Heidegger, ma non solo di Heidegger, anche altri pensatori hanno avuto delle intuizioni, come Hegel, Spinoza e altri, in campo psicoanalitico, no. L’apporto psicoanalitico è stato fondamentale perché ha messo in evidenza il trovarsi di ciascuno preso nelle fantasie, che è un modo anche abbastanza rozzo di porre la questione, nel senso che, sì, certo, ciascuno è preso da fantasie, però, la questione andava portata molto oltre. È vero che Freud ha aperto una via, però, occorreva e occorre proseguirla in altri termini, non così, cioè non presupponendo tutte quelle supposizioni che sono necessarie per costruire la teoria che ha costruita. Quindi, sono propenso a dire che anche la psicoanalisi, così come la scienza, non pensa, cioè non si mette in gioco, non si mette in discussione. D’altra parte, il lavoro che abbiamo fatto, che tanto appassionava Beatrice, è questo: mettere in discussione, in gioco, i fondamenti del nostro stesso sapere. Quando io affermo qualche cosa – ecco la questione teoretica – quali sono le condizioni che mi consentono di affermare quello che sto affermando, qualunque cosa sia. È questo che ci ha condotti poi, passo dopo passo, al punto in cui siamo giunti, e cioè a considerare che affermo qualche cosa unicamente per una mia decisione, perché non posso non farlo se voglio parlare e non posso non parlare, ma io “decido” che questa cosa è così, ma soltanto all’interno del gioco che sto facendo, decido che è così e quindi è così solo per potere continuare. La psicoanalisi poi quando vuole porsi come scientifica allora è il peggio che si possa immaginare, perché è proprio ciò che non dovrebbe mai essere, con la scienza non deve averci a che fare. Dunque non pensa, quindi, non è in condizione di accorgersi di quello che sta facendo mentre afferma quello che afferma e, quindi, è costretta, come la scienza, a pensare che sia così. Da qui questo aspetto, certe volte abbastanza forte, di religiosità che si avverte nei discorsi psicoanalitici, di fede, di credenza, perché non c’è pensiero e se non c’è pensiero non resta che la fede: credo che sia così, credo quia absurdum.
Intervento: senza la rimozione non c’è psicoanalisi…
Qualcosa del genere, il che non significa assolutamente niente. Dunque, la psicoanalisi non pensa…
Intervento: Mi sto interrogando ultimamente sulla questione del progetto. È una riflessione che parte da una considerazione di tipo politico. La sensazione è che nel pensiero filosofico, politico, e che non si percepisce alcuna forma di progetto. Nei pensieri più antichi si avvertiva l’esistenza di un’idea, qualcosa che spingeva verso un qualcosa, poteva essere qualcosa di utopico come anche no, però c’era un’idea di progetto. Oggi non si percepisce assolutamente nulla del genere. Ma questo non riguarda solo il pensiero politico ma ciascun individuo. Mi interessa molto Heidegger proprio rispetto a questa questione del progetto, mi domando che cosa spinge le persone a fare quello che fanno, come noi, per esempio, che stiamo facendo quello che stiamo facendo. È anche una mia esigenza personale, quello di precisare il progetto. Come dice Heidegger, tutto ciò che si fa è all’interno di un progetto che, oltretutto, organizza anche le relazioni. Se non c’è questo progetto c’è dispersione, c’è la chiacchiera. E, allora, a questo punto, mi facevo delle domande intorno a noi, noi, come associazione, non è che stiamo andando avanti senza un progetto, anzi. Da qui come l’esigenza di scrivere questo progetto. La percezione che avverto quando parlo con le persone che non sono addentro alle cose che facciamo, è che si privilegi da parte nostra la pars destruens, demolendo tutte le varie credenze, evidenziando le superstizioni, la religiosità, ecc., mancando forse nella parte propositiva rispetto al progetto. Collego la questione del progetto dal politico al personale fino a ciò che facciamo noi.
Certo, c’è un filo che collega tutti questi aspetti. Heidegger parla a lungo del progetto, è la parte centrale, per lui deve essere il progetto autentico. Lui distingue il progetto autentico dal progetto come il volere fare qualcosa. Se io voglio andare a cena, al ristorante tal dei tali, questo non è per Heidegger il progetto autentico; il progetto autentico per Heidegger è il pensiero, è quella operazione della quale accusa la scienza e la psicoanalisi di non fare, cioè pensare. Il progetto autentico è il pensare ciò che sto facendo tenendo conto di ciò che mi ha condotto a fare ciò che sto facendo, continuamente, questo è il pensiero autentico. Ora, posta la questione in questi termini, la questione è che questo progetto, di cui parla Heidegger, in che cosa consiste? E qui c’è stato utile, ma in un caso particolare, e cioè quando parlava di Nietzsche, perché lì ci ha mostrato di che cosa è fatto realmente il progetto: il progetto è la volontà di potenza, ogni progetto è strutturato dalla volontà di potenza. Ora, a questo punto, come si situa il progetto autentico all’interno di questo, chiamiamolo, sapere che il progetto è comunque e sempre volontà di potenza? Si situa in questo modo. Tra l’altro, volontà di potenza che io aveva chiamato così: superpotenziamento intellettuale. Come si configura la volontà di potenza all’interno del progetto autentico, cioè, del pensare autentico? Il pensare autentico è quello che non può non sapere che il proprio progetto è sempre e comunque volontà di potenza, anche se è un superpotenziamento intellettuale. Sa che non può uscire dal fatto che parlando, ogni volta che parla, afferma qualcosa e mentre afferma una qualunque cosa sta compiendo un atto di potenza, è in atto la volontà di potenza. Questo ci dice dell’impossibilità di uscita dalla volontà di potenza perché sarebbe come voler uscire dal linguaggio. Come ci siamo chiesti infinite volte, con che cosa esco dal linguaggio? Non è che c’è un al di fuori, e da lì posso contemplare tutto quanto, non funziona così. Quindi, la pars destruens è la parte centrale e viene da domandarsi se è possibile a questo punto una pars costruens, perché si costruisce che cosa? La pars costruens dovrebbe essere quella che progetta ma ciò che si progetta, di fatto, è la volontà di potenza, della quale volontà di potenza non posso che prenderne atto, non posso che non constatarne la ineluttabilità, la presenza.
Intervento: Sarebbe come in un’analisi. Un’analisi non è che costruisce qualche cosa, dissolve le fantasie, le superstizioni, poi quello che in qualche modo si apre non è l’analisi a stabilirlo.
No, certo. L’analisi pone le condizioni perché questo possa accadere.
Intervento: Esatto. Però, ciò che si apre, il progetto, non è qualcosa che è l’analisi a determinarlo.
No, e anche in questo caso il progetto, cioè la volontà di potenza, della quale ci si accorge, è in un certo senso la condizione dell’apertura, solo a questo punto io posso avere un pensiero autentico, perché so quello che sto facendo, questa è la lezione principale di Heidegger. Solo a questo punto ho un pensiero autentico, un pensiero che tiene conto, pensando, di quello che sta facendo ma, in modo un po’ più articolato, che sta pensando che ciò che sto costruendo, mano a mano che sto dicendo, intanto mi impone continuamente atti di dominio sulle parole, che io impongo che siano quelle che siano, e questa è la questione strutturale; per altro verso mi consente di sapere che ciò che sto facendo non è altro che un procedimento, un processo di superpotenziamento continuo. Il pensiero autentico è il superpotenziamento intellettuale, il pensiero che non può più non pensare se stesso e, pensando se stesso, che cosa pensa? A ciò che lo ha costruito, a ciò di cui è fatto, ovviamente. Ciò di cui è fatto è l’esserci in quanto essere storico. Questo è il pensare autentico, è un pensare che, sì, distrugge, ma forse non ha più la necessità di continuare a distruggere, perché a questo punto non è più un distruggere ma un non potere non tenere conto di ciò che sto facendo. Ora, questo è un progetto, sì, per Heidegger è quello autentico, e cioè un progetto che ha come obiettivo il pensiero, il pensiero autentico cioè che sa che cosa sta pensando e perché sta pensando, da dove viene questo pensiero. Che è poi il lavoro che ha fatto Heidegger rispetto a certi termini, come quando si interroga sul λόγος, sul φαίνεσθαι, ecc., da dove vengono queste parole che sto usando? E così rispetto al proprio pensiero, da dove viene questa cosa che sto pensando, perché è così importante, qual è il suo essere storico, cioè, qual è tutto il percorso che ha dovuto fare questo pensiero per giungere a farmi pensare oggi questa cosa, a farmi affermare questa cosa. Tutto questo porta sicuramente nella pars destruens alla demolizione della teoria, del concetto stesso di teoria, che non ha più nessuna funzione, perché o la teoria dice come stanno le cose, tutti gli enunciati teorici fanno questo: questo è questo, oppure questo non è questo, ecc. Quindi, tolta la teoria, come dice Heidegger, rimane il pensiero autentico, il pensiero che non può più pensare fuori dalla sua storicità, per usare le parole di Heidegger; al di fuori di questo non può più pensare, perché non c’è niente fuori di questo, fuori della sua storicità è niente. Tolto tutto ciò che mi ha condotto a pensare e a essere fino a questo istante, sono nulla.
Intervento: Rendersi conto che qualunque cosa io affermi non è quella cosa lì, per cui è già lì la falla…
È una falla antica, che è presente da quando esiste il linguaggio, e cioè il linguaggio per dire che cos’è una cosa deve ciò che quella cosa non è. Heidegger, dicendo che la scienza non pensa, e neanche la psicoanalisi lo fa, sta dicendo qualcosa di importante, e cioè che ciascuna cosa che si ponga come una teoria, necessariamente non pensa, non pensa a tutto ciò che fa di quella teoria quella cosa che è, che è quella che è per me in quel momento. Ora, anche tutto questo discorso potrebbe essere scambiato per una teoria, tecnicamente potrebbe. E, in effetti, è stato il problema che anche Heidegger ha incontrato, non rispetto alla teoria ma all’essere, che però a questo punto si possono anche connettere, e cioè, mi riferisco a Heidegger, se parlo dell’essere allora l’essere è qualcosa, se è qualcosa è un ente, e cade la differenza ontologica e tutto il mio discorso crolla come un castello di carte. Ora, posso parlare dell’essere senza che l’essere sia un qualche cosa, per me che ne sto parlando? Difficile a dirsi, anche improbabile, se ne parlo è qualcosa, ma allora, stando a ciò che lui afferma, se è qualcosa è un ente. E, allora, ecco i tentativi di barrare l’essere, di scriverlo con la y (Seyn), tutte queste operazioni inutili, fino a parlare di evento, cioè non è più un qualche cosa di definito ma è un evento, qualcosa che accade. Ora, anche in questo caso, volendo, si può comunque ricondurre la cosa all’ente, cioè, entificare anche l’evento, l’evento è qualche cosa. D’altra parte, non possiamo parlare se non c’è qualcosa, il che è vero, tuttavia si ritorna alla questione di cui parlavo prima, e cioè dell’affermare necessariamente qualcosa mentre so parlando: lo fermo, lo identifico. Lo identifico ma in questa identificazione di ciò che sto affermando c’è e non può non esserci la consapevolezza di questo mio atto di dominio, di volontà.
Intervento: Nel momento in cui una teoria stabilisce qualcosa, quindi afferma qualcosa, effettivamente è un atto di dominio ma, in quello stesso istante in cui affermo qualcosa e lo stabilisco, inizia il depotenziamento. Stavo pensando al fatto che le teorie, come qualunque forma di potere, nel momento stesso in cui si stabilisce inizia a depotenziarsi. Per questo le teorie vanno a scadere, così come i poteri politici, per cui la preoccupazione diventa a questo punto la difesa della teoria come la difesa del proprio potere. La logica è la stessa, quindi, la questione è sì affermare qualcosa, perché è inevitabile, ma nel momento in cui so questa cosa so che ciò che sto affermando nel momento in cui l’affermo diventa una cosa, diventa un ente. Se io so questo mi attrezzo per il superpotenziamento, in un certo senso, perché se dico che le cose stanno così, in quello stesso istante, da quel momento, la cosa va a depotenziarsi. Se lo so, so a questo punto che non posso fermarmi lì, perché nel momento stesso in cui mi fermo sono perso. Per quanto io sia convinto di aver raggiunto una qualunque posizione di potere, perché ho affermato quella cosa, comunque sono già sulla via della perdizione, del declino. Quindi, la questione del superpotenziamento implica che ciò che io ho affermato è quello e nello stesso tempo non è più quello, se voglio avviare questo superpotenziamento, altrimenti se mi fermo lì, dicendo che le cose stanno così, da quel momento posso solo più difendere la mia posizione.
Sì, è interessante perché potrebbe avere risolto il problema che ha incontrato Heidegger alla fine di Essere e tempo. Il problema di Heidegger era questo: parlo dell’essere, l’essere diventa qualcosa, un ente, quindi, non è più l’essere. Vero! Apparentemente non fa una grinza. Ma se noi considerassimo a questo punto che, sì, certo, se io parlo dell’essere questo diventa un ente ma questo ente, per essere ente, attenendoci sempre a Heidegger, ha bisogno dell’essere, la sua enticità la deve sempre all’essere, la deve all’esserci, a me. Quindi, avviene una sorta di spostamento continuo: l’essere che si blocca in ente, però questo ente, in quanto ente, ha un essere che lo fa essere quello che è e, quindi, necessita comunque dell’essere. Quindi, non c’è più nessuna sovrapposizione, la differenza ontologica permane. Il fatto è che Heidegger, senza forse accorgersene, in quel momento in cui ha pensato questa cosa, lui stesso ha entificato l’essere, cioè, ha immaginato che l’essere potesse diventare un ente, ma non lo può. È la stessa cosa che invece ha colta più attentamente de Saussure parlando di significante e significato. Se noi sostituiamo l’ente con il significante e l’essere con il significato, la questione è risolta. Il significante ha un significato ma questo significato non viene da nulla, viene da qualche altra cosa che lo fa essere quello che è, quindi, questo significato rinvia ad altre cose, queste altre cose sono qualche cosa, sono dei significanti, i quali rinviano ad altri significati, ecc. Quindi, presi in uno spostamento continuo. A questo punto è risolto il problema dell’essere e dell’ente, dell’essere che si entifica, perché non c’è più questa possibilità. Anche Sini, quando ha posto questa questione della connessione tra essere e ente, tra significante e significato, si è accorto in effetti che questo risolve la perplessità di Heidegger. Se l’essere è una cosa che viene entificato, allora, sì, non si può più spostare, ma l’essere non è niente altro che l’esserci, quindi il mio essere qualche cosa in questo momento; quando io dico qualche cosa quella cosa è per me quella cosa lì ma il fatto che sia quella cosa lì mi modifica perché io sono anche quella cosa lì. È ciò che Heidegger chiamerà circolo ermeneutico: per cogliere una certa devo interpretarla, interpretandola la modifico, questa modificazione modificherà me che la interpreto, e così via, in questo circolo infinito. Per tornare alla questione iniziale, quello che mi interessava di più porre era la questione del pensare autentico, di un pensare che, non tanto pensa a se stesso, sì, anche, ma pensa se stesso storicamente, pensa se stesso in quanto qualche cosa che è giunto a essere quello che è per tutta una serie di cose che fanno sì che io veda questa cosa in questo modo, che per me questa cosa sia quella cosa lì. Questa cosa per me è quella cosa lì perché io sono un essere storico, se no non sarebbe niente. Direi che questo apre a un certo numero di questioni interessanti, più che aprirle direi che mostra altri aspetti, altre possibilità di approccio alle questioni. Prima fra tutte la questione della teoria in generale, a questo punto si svuota di ogni contenuto, anche se permane, perché qualunque discorso è una teoria che afferma delle cose, non si può uscire dal linguaggio, dal modo in cui è fatto. Per cui non posso non fare una teoria ma, al pari del linguaggio, così come quando affermo qualche cosa, so che sto affermando qualcosa al solo scopo di mettere in atto il superpotenziamento intellettuale, cioè il pensiero autentico. Il pensiero autentico è il pensiero che non si ferma alla chiacchiera, la chiacchiera è il pensare che la teoria dica come stanno le cose. La chiacchiera: la deiezione, la cancellazione dell’essere. È come se, e questa è la critica che faceva alla psicoanalisi nel seminario di Zollikon, ciascun elemento di cui è fatta la teoria non riguardasse più l’uomo, l’uomo sempre nell’accezione in cui ne parla Heidegger, l’uomo della filosofia, anche lui obiettivato, ma come se tutte le cose che la psicoanalisi afferma fossero al di fuori, identiche a sé, immutabili, così come la nozione di inconscio, rimozione, ecc., i concetti fondamentali della psicoanalisi, sono tutte supposizioni, esattamente come lo sono le affermazioni scientifiche: devo supporre che le cose siano proprio come io voglio che siano per potere fare qualcosa, se no non posso fare niente. Non è vero che non ci posso fare niente, non ci posso fare niente se non penso, se penso posso farci qualcosa, cioè, posso utilizzarla per il superpotenziamento intellettuale, perché è questo che fa il pensiero autentico. Se è autentico è quel pensiero che continuamente spinge il pensiero stesso a procedere, ma senza mai allontanarsi dalla consapevolezza che ciò che sta pensando procede da tutto ciò che ha consentito a me, adesso, di pensare tutte le cose che sto pensando e che, quindi, è vincolato a tutto questo. Il pensiero non è mai assoluto, non può mai dire le cose come stanno perché è vincolato a me che le sto pensando. Essendo vincolato a me che lo sto pensando, non posso sganciarlo, in nessun modo, cioè, ci si può provare, la scienza sta facendo questo da sempre dopo Cartesio: qui c’è il soggetto e lì l’oggetto. Heidegger sovverte tutto questo, dice “no, non funziona così”, il linguaggio non funziona così, questa cosa non è fuori dal linguaggio, cioè non è fuori dal progetto. Io sono il progetto. Io, in quanto esserci, sono il progetto di cui sono fatto.