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8 febbraio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Questo di Heidegger è un libro notevole, ho idea che ci porterà molto lontano. C’è un problema in ciò che stiamo leggendo, un problema del quale Heidegger non si fa carico – ma noi dobbiamo – e riguarda la questione della finitezza o della finitudine. In alcuni testi si parla della finitezza, in altri di finitudine, dipende dal traduttore. Si tratta del τέλος e del πέρας, il limite. Il finito è una questione interessante. Di che cosa sto parlando quando parlo del finito? È una questione curiosa perché il finito si suppone, anzi, si presuppone che a un certo punto termini e non vada più oltre. Ma può fare questo? Può non andare più oltre? C’è un termine che Heidegger prende da Aristotele, τέλειον, che è il fine, ma in un’accezione particolare, vale a dire, è quel fine oltre il quale non c’è nulla. Ma la domanda è: può darsi qualcosa del genere? Che cosa significa che non c’è nulla oltre? Significa una cosa ben precisa, e cioè che non rinvia. Ma se non rinvia, e se il λόγος non è altro che rinvio, relazione, allora parrebbe, posta la questione in questi termini, che si ponga fuori dal λόγος, fuori dal linguaggio. Ma se è fuori dal linguaggio allora è nulla. Dunque, non c’è propriamente la possibilità di pensare il finito se non nelle sue determinazioni, in quanto quando parlo di finito intendo pur sempre di qualcosa: ciò che è finito ha un significato, rinvia a qualcosa, quindi, non è finito. Ma se non è finito, è infinito. Sembrerebbe di potere parlare del finito unicamente come infinito. Questo naturalmente ci riporta con il pensiero alla dea ‘Aλήθεια: posso pensare l’essere solo come non-essere, perché se determino l’essere è con qualche altra cosa; e il non-essere posso pensarlo, se lo penso, in quanto qualcosa che è, e cioè è essere; quindi, posso pensare il finito solo come infinito. E l’infinito? Per potere pensare l’infinito devo considerarlo un qualcosa di determinato, di delimitato, tant’è che, parlando dell’infinito, si usa il singolare. Anche se definisco l’infinito come la totalità degli enti, questo articolo determinativo è sempre al singolare, ma è al singolare nel senso che indica una unitarietà. Questo ci fa pensare alla teoria dei limiti, a questo x che tende a 1: se tende a 1 non è 1, ma se io voglio calcolare, se io voglio utilizzare questa espressione, devo fare come se la x fosse 1, sennò di tutto il calcolo infinitesimale non ce ne facciamo niente, e senza il calcolo infinitesimale non ci sarebbe tutta la tecnica moderna. Quindi, per poter utilizzare questa cosa, l’aritmetica, la matematica, io devo porre i numeri come finiti. Lo stesso accade con la parola: ciascuna parola devo porla come finita. Ma abbiamo appena detto che non posso pensare il finito. Si pone allora un problema, un problema che ha già risolto la dea ‘Aλήθεια: non puoi pensare né l’essere né il non-essere, ma soltanto la δόξα, l’opinione. A questo punto opinione vale fino a un certo punto, non possiamo nemmeno parlare di inganno, di menzogna, possiamo sì, certo, parlare di menzogna, ma è necessaria per potere utilizzare quella cosa lì, sennò non la utilizzo, cioè, escludo che la x possa mai diventare 1, e non se ne fa più niente; o che dall’1 si passi al 2. Nulla al mondo garantisce che dall’1 si passi al 2, non si sa nemmeno che cosa vuole dire esattamente, però dall’1 passiamo al 2, tanto funziona, cioè, è utilizzabile. Noi parliamo e parlando utilizziamo degli utilizzabili, che in questo caso sono parole, significanti, termini, ecc. Ciascuna parola che utilizziamo, per poterla utilizzare dobbiamo fare come se fosse finita, ma se la penso finita in qualche modo già le attribuisco delle determinazioni, che a loro volta devo pensare come finite, e queste a loro volta avranno altre determinazioni, e via di seguito. C’è l’eventualità che questo sia l’unico motivo per cui gli umani continuano a parlare, perché ciascuna cosa è posta, sì, come finita per poterla utilizzare, però, per porla come finita devo determinarla in un certo modo, ma questa determinazione già pone un altro elemento, che chiede anche lui di essere finito con altre sue determinazioni, e così via. Sembra questo il motivo per cui gli umani continuano a parlare, anziché cessare di farlo. Questo procedimento, che stavo descrivendo: porre qualcosa come finito, ma per porlo come finito devo determinarlo e, determinandolo, spalanco l’infinito. Aveva detto bene Eraclito: ἒν πάντα εἰναι, l’uno è i molti, e simultaneamente. È questa la difficoltà estrema: questa simultaneità tra finito e infinito, tra uno e molti. Questo rende anche immediatamente conto della volontà di dominare l’ente. Lo domino ponendolo come finito, ma per porlo come finito devo determinarlo: dominare è determinare, delimitare. Ma, facendo questo, già non è più finito, apre a un’altra cosa, la quale apre a un’altra, e così via. Ecco perché la volontà di potenza, come la chiama Nietzsche, non può arrestarsi mai. Si arresterebbe ipoteticamente nel momento in cui qualche cosa risultasse finito senza determinazioni. Ma se non ha determinazioni, come so che è finito, in base a che cosa, a quale criterio? Heidegger, come dicevo, non affronta questo problema. D’altra parte, non ponendo la questione del linguaggio sarebbe stato difficile coglierlo. Però, è una questione interessante, perché ci mostra ancora di più e meglio che cosa accade quando parliamo: per parlare dobbiamo porre dei termini, ma proprio alla lettera, cioè, qualcosa che termina, che è terminato, finito, τέλειον, ciò oltre il quale non si va. Heidegger, per esprimere al meglio questo concetto, pone la questione della morte. La morte è qualche cosa oltre la quale non c’è più nulla; quindi, è la morte che determina il compimento della vita, compimento nel senso del τέλειον, perché, una volta morto, non posso più modificare la vita, né aggiungere o togliere cose. Solo a quel punto è quella che è veramente, perché fino a che uno è vivo può modificare cose, si sa che i vivi fanno continuamente cose; ma ecco che quando il vivo diventa morto cessa di fare cose e, quindi, tutto ciò che ha fatto è compiuto. Questa era l’idea di morte in Heidegger, che non è stata generalmente molto intesa, si è pensato Heidegger come qualcuno che aveva queste idee mortifere quando dice che l’essere è per la morte. Il fatto è che lo dice in questo senso, e cioè che la morte è ciò che rende compiuto l’essere, proprio nell’accezione del τέλειον, cioè di qualcosa oltre il quale non si va. La morte rende compiuto l’essere, a questo punto non si aggiunge né si toglie più nulla, è quello che è stato. A noi invece interessa cosa accade parlando. Parlando, l’unica cosa che posso fare è una sorta di corsa, un rincorrere gli enti, cioè le parole, per dominarli: corro dietro alle parole per determinarle, per definirle, è una corsa che non ha fine, se non quella che immagina Heidegger con la morte. Questo comporta ciò che dicevamo già tempo fa, e cioè che è la volontà di dominare gli enti ciò che muove a dire, non c’è nient’altro, c’è solo questo che ci fa parlare, soprattutto che ci fa proseguire a parlare. La domanda interessante non è tanto perché gli umani parlano, anche, sì, ma soprattutto: perché continuano e parlare, senza fermarsi mai. Non si fermano per questo motivo, perché ogni parola che dico è come se mi aspettassi che fosse determinata, che fosse proprio quella, ma perché sia quella devo aggiungerne un’altra, e quell’altra, a sua volta, subisce la stessa sorte: perché sia proprio quella, che determina la prima, devo aggiungerne un’altra che determina la seconda. Questo è il motivo per cui ciascuno continua a parlare: detta una parola, quella parola devo determinarla con un’altra parola, e così via, il che è un altro modo per dire che non c’è l’ultima parola. Una riconcorsa continua per dominare le parole, o gli enti. Gli antichi avevano visto molto bene: il λόγος non è altro che rinvio. C’è solo questo: un rinvio continuo. E la dea si era accorta del fatto che di ciò che è e di ciò che non è non puoi sapere niente; però, per tua fortuna hai la δόξα e con quella parli, chiacchieri, dici cose, che non significano niente, nel senso che ciascuna cosa per significare deve rinviare a un’altra – il significato non è altro che un rinvio – ma questo rinvio rinvia a un altro. Anche Peirce, dopo ventisei secoli, se ne era accorto, lui parlava di semiosi infinita. Già in Parmenide, sì, certo, c’è questo rinvio continuo, ma questo rinvio continuo è nel tutto, è il tutto. È già il tutto, è tutto lì, queste tre cose di cui parla la dea: essere, non-essere e δόξα, è tutto lì, e cioè il fatto che per potere pensare il finito devo pensarlo come infinito, perché devo determinarlo, devo cioè aggiungere qualcosa, quindi, non è finito. Per l’infinito è la stessa cosa, non posso non pensarlo che come finito, cioè come uno. Quindi, in teoria non posso pensare nulla, nel senso che qualunque cosa pensi è un’altra. Da qui la δόξα. Che cosa fa esattamente la δόξα? Compie un’operazione interessante perché, dovendo continuare a parlare – il linguaggio ha unicamente questo obiettivo – la δόξα fa in modo che ciascun elemento appaia finito, cioè utilizzabile, esattamente come fa la matematica con i limiti, è la stessa cosa, cioè, fa “come se”, come se ogni cosa fosse proprio quella che dico. E, in effetti, parlando, sono costretto a fare questo, a pensare che ogni cosa che dico sia quella, sennò mi troverei in grande imbarazzo a continuare a parlare, non saprei da che parte andare. Come fa la δόξα a fare questo? Questa è un’altra questione interessante, ne parlerà Heidegger anche riprendendo alcune cose della Retorica e, poi, c’è una parte dedicata alla δόξα, che spero ci darà delle indicazioni utili. Come fa la δόξα a funzionare? La risposta appare semplice per un verso, anche se magari può complicare le cose: funziona esattamente così come si fa a governare, e cioè attraverso la censura. Non è possibile governare senza censura. La δόξα fa quello che fa grazie alla censura: impedisce di interrogare gli elementi che mano a mano produce. Alcuni se ne erano accorti, così Platone quanto Aristotele, i loro divieti non erano casuali o frutto del ghiribizzo del momento. Alcuni, come gli eleati, avevano visto cosa c’era oltre, avevano visto che non c’era altro che un rinvio continuo. Cosa dice Eraclito? Lui la dice metaforicamente, “non puoi bagnarti due volte nello stesso fiume”, perché ogni cosa rinvia a un’altra, quindi, non è mai la stessa, o meglio, per potere dire che è la stessa devo dirne un’altra. Gli eleati lo avevano visto, e così anche Platone e Aristotele, i quali però se ne sono ritratti inorriditi e hanno imposto la censura, cosa che mancava negli eleati, che non avevano motivo di censurare alcunché. Ma vediamo che cosa dice Heidegger di tutto ciò. Vi ricordate che sta parlando dell’άγαθόν, del bene. Il bene è la soddisfazione, è ciò che soddisfa, è il compimento. Questa analisi che fa Heidegger, seguendo Aristotele, è centrata, perché la soddisfazione viene dal compimento, quindi, deve essere compiuto, deve essere finito perché io sia soddisfatto. Ecco perché non sono mai soddisfatto: questa soddisfazione è sempre rinviata al passo successivo. A pag. 103. Ci chiediamo ora quali siano le determinazioni dell’άγαθόνin quanto tale. Sappiamo che άγαθόν è τέλος. Ci si interrogherà quindi probabilmente circa il carattere dell’essere-fine, della finitezza, della τέλειότης, nella misura in cui l’άγαθόν è τέλειον (fine oltre il quale non si va), costituisce l’essere-finito. È questo che gli umani cercano: quella cosa oltre la quale non si va. Hanno inventato Dio anche per questo. L’ultima questione è: quale essere dell’uomo corrisponde al τέλειον άκρότατον (massimo bene). L’άγαθόν non è nulla che obiettivamente svolazzi qua e là, bensì è un come dell’esserci stesso. Sta dicendo che l’esserci, cioè l’uomo, necessita dell’άγαθόν, necessita di questo bene, di questa soddisfazione, cioè, ha bisogno di trovare il finito, perché solo con il finito trova la soddisfazione. Nella nostra indagine sull’άγαθόν, condotta per penetrare uno sguardo più preciso nella struttura dell’essere, sono emerse quattro stazioni della discussione dell’άγαθόν: 1. Dove diviene visibile in generale qualcosa come l’άγαθόν? 2. Dove troviamo, di conseguenza, l’άνθρώπινον άγαθόν (il bene dell’uomo)? 3. Quali sono le determinazioni generali dell’άγαθόν? 4. Che cosa corrisponde all’άγαθόν così caratterizzato? Che cosa costituisce l’esserci dell’uomo nella sua finitezza? Cos’è il bene dell’uomo? È questa in fondo la domanda. Che cosa per l’uomo funziona come bene, come soddisfazione, quindi, come ciò che cerca, al di là e al di sopra di tutto, άνθρώπινον, massimamente? Per quanto riguarda l’ambito nel quale l’άγαθόν diviene visibile, è necessario tornare alla prima frase dell’Etica Nicomachea, dove si mostra che l’άγαθόν è relativo alla τέχνη (tecnica), alla πρᾶξις (agire, fare), alla προαίρεσις (intenzione, volontà di…) e alla γνῶσις (conoscenza). L’άγαθόν lo si trova in una dimestichezza con qualcosa, nel qual caso va tenuto fermo che la τέχνη non accompagna, per esempio, occasionalmente un prendersi cura, anzi: la τέχνη è implicita nel senso del prendersi cura. Possiamo porre la τέχνη come un saperci fare. Quando dico “mi prendo cura di qualcosa”, ciò significa che ho dimestichezza con l’ambito di ciò che mi prefiggo, che il “che cosa” del prendermi cura è nella mi visuale, è espressamente lì davanti, che ho dimestichezza con ciò che è utile. Vedete la necessità che questo utile sia finito. Nella τέχνη in quanto tale ci si fa incontro l’άγαθόν, in modo tale da essere espressamente. Ciò indica che nel caso dell’άνθρώπινον άγαθόν si avrà a che fare con una τέχνη appartenente a un prendersi cura che costituisce l’essere dell’uomo, e che troveremo l’άνθρώπινον άγαθόν in una caratteristica dimestichezza della vita stessa. Aristotele cerca sempre nel concreto, nella vita stessa, il punto da cui partire, su cui appoggiare il piede, avere la terra ferma sotto i piedi – ricordate sempre il quadro di Raffaello con Aristotele con la mano aperta e rivolta verso il basso. Aristotele chiama πολιτική questa τέχνηNoi traduciamo generalmente πολιτική con politica, come l’arte, il prendersi cura del bene comune. Ricordate la κοινωνία, gli umani parlano in comune, parlano l’uno con l’altro, anche quando parlano da soli è sempre un parlare comune. Ci è arrivato anche Wittgenstein ventisei secoli dopo, quando dice che non esiste il linguaggio privato. Aristotele chiama πολιτική questa τέχνη, e ciò implica che egli intende la dimestichezza della vita riguardo a se stessa in quanto πολιτική, l’esserci in quanto essere l’uno con l’altro. Questo è ciò che caratterizza l’uomo: l’essere l’uno con l’altro o, più propriamente, il parlare l’uno con l’altro, il parlare con… Ricordate il λέγειν τί κατά τίνός: parlare di qualcosa, sì, certo, ma con qualcuno. Riguardo all’esserci dell’uomo, che viene collocato preventivamente in questo orizzonte, vi sono varie cose da stabilire in modo descrittivo, giacché ci è data qui una molteplicità di modi del prendersi cura. L’essere l’uno con l’altro implica una molteplicità di modi del prendersi cura, non una massa indistinta, ma una pluralità, avente una coesione determinata dal carattere dell’essere l’uno con l’altro. Questo è sempre presente in Aristotele. Inoltre, data questa molteplicità di modi del prendersi cura, vi sarà anche una molteplicità dei τέλη (fini), ovvero di ciò in cui il prendersi cura giunge a fine. A pag. 106. …Aristotele dice: in questa molteplicità di occupazioni… Fa l’esempio del prendersi cura di un qualche cosa che, però, è sempre per qualche cos’altro. E, allora, si chiede: qual è il prendersi cura per se stesso, non in vista di altro ma per sé? …Aristotele dice: in questa molteplicità di occupazioni ce ne devono essere alcune, anzi, ce ne deve essere una, ovvero un τέλος tale da essere διαύτό (per sé). È questo che cerca Aristotele: quel τέλος che è per sé. Lui fa l’esempio del fabbricante di scarpe: lui non fa le scarpe per sé ma è per qualche cos’altro. È impossibile che, nell’ambito di tutte le occupazioni possibili nell’essere l’uno per l’altro, “ne afferriamo sempre una per via di un’altra. Questo irritava Aristotele; lui aveva bisogno di quel τέλος che fosse διαύτό, per se stesso; perché a lui interessava l’άνθρώπινον άγαθόν, il massimamente giovevole. Così infatti si andrebbe all’infinito, e non si otterrebbe alcun πέρας, sicché la ρεξις, la tendenza verso qualcosa, diverrebbe κενή καί ματαία, vuota e vana”. Vedete che lui cerca il πέρας, il limite, deve necessariamente esserci qualcosa di finito, perché la soddisfazione necessita del finito, sennò non c’è, non c’è άγαθόν. Il πέρας determina l’esserci di ciò di cui ci si prende cura. Se io mi prendo cura di qualcosa, questo qualcosa di cui mi prendo cura è finito, delimitato, determinato, è un qualche cosa. Il prendersi cura di qualcosa implica già il qualcosa di cui ci si prende cura. L’attuazione del prendersi cura è possibile solo in virtù del fatto che ciò di cui ci si prende cura “ci” è,… Il “ci” ha un significato particolare, è il “per noi”, qualcosa c’è in quanto per noi. …che il prendersi cura non va a tentoni nel vuoto, insomma che il prendersi cura ha il carattere del πέρας. Ci si prende cura di qualcosa in quanto questo qualcosa è delimitato, è finito. Soltanto per questo è possibile che in genere un prendersi cura pervenga al suo essere. Già in precedenza abbiamo detto di quale senso dell’essere si tratta: esserci è essere-limitato. Sappiamo che per Heidegger l’esserci, il Dasein, è l’uomo. Quindi, pariamo dell’uomo, parliamo di qualcosa che è limitato, di finito. Si pone naturalmente il problema di cui vi parlavo prima e che Heidegger non prende in considerazione. Afferma infatti Aristotele: la molteplicità delle occupazioni, che costituisce l’esserci dell’uomo in quanto essere l’uno con l’altro, deve avere un πέρας. Tutte queste occupazioni devono avere un limite, cioè, ci deve essere un τέλος finale. Se non c’è un τέλος finale non c’è neanche un άγαθόν finale, un bene finale, non c’è una soddisfazione a cui tendere. A pag. 107. Questo τέλος διαύτό è necessariamente il tema della πολιτική. La πολιτική potremmo intenderla aristotelicamente come il darsi da fare l’uno con l’altro per il bene, al fine dell’άγαθόν. Ci chiediamo quindi: quali sono i caratteri di questo τέλος, ovvero dell’άνθρώπινον άγαθόν in quanto τέλος διαύτό (fine per se stesso)? Che cosa implica il carattere dell’άγαθόν in quanto τέλος διαύτό per l’essere l’uno con l’altro degli uomini? Insomma, cerca di venire fuori da questo problema. Il problema è che bisogna trovare qualche cosa di limitato, di finito; solo così ci garantiamo la presenza dell’άγαθόν. Perché è importante, anche se Heidegger non lo dice? Perché l’άγαθόν, la soddisfazione, è ciò che muove. La soddisfazione compare nel momento in cui io limito qualcosa, in cui trovo il limite, in cui compio qualcosa, lo determino, lo controllo, lo gestisco. Potete notare come Aristotele, in questa analisi apparentemente formale-generale, non perda mai di vista l’esserci concreto, definito “essere l’uno con l’altro”. Questo per Aristotele è fondamentale: l’uomo non esiste da solo, e qui c’è la famosa frase di Heidegger: l’uomo è un dialogo continuo con altri. Le ulteriori considerazioni, la messa in luce delle determinazioni fondamentai dell’άγαθόν, nonché di ciò che corrisponde a tale άγαθόν, si orientano in base all’esperienza concreta stessa, nel senso che a essere oggetto d’indagine non è solo l’esserci presente, poiché nel contempo vengono esaminate anche le opinioni che tale esserci presente ha, di per se stesso, in merito a ciò che, per esso, è l’άγαθόν. Infatti, lui parte, non a caso, a considerare l’άγαθόν dal “Si”, da ciò che si pensa, si dice, si crede, si suppone, ecc. in effetti, l’esserci concreto non riceve un interpretazione solo e in primo luogo grazie a lui, poiché nell’esserci stesso è implicita una interpretazione di se stesso,… Io so che ci sono in base a delle considerazioni che ho fatto, in base a ciò che penso, che credo, che immagino. …che esso in una qualche misura porta sempre già con sé. Questo è importante. Ciò che io penso di me, me lo porto appresso, e ciò che io penso di me è ciò da cui parto per ciò che penso di qualunque altra cosa. La comprensibilità in cui l’esserci si muove, il SI, … È interessante che ponga la questione della comprensibilità unitamente con il Si. Potremmo dire che senza la δόξα non si comprende niente. D’altra parte, lo diceva già la dea: dell’essere, di ciò che c’è o non c’è non puoi sapere niente. …si fonda in ultima analisi sulla δόξα, ossia in ciò che mediamente si dice delle cose e di se stessi. Questo, come sappiamo bene, è il fondamento di tutto. Questa opinione ovvia che l’esserci ha di se stesso è la fonte primaria in base alla quale Aristotele si orienta espressamente riguardo a come l’esserci pensa in concreto a ciò presso cui esso ha propriamente la sua finitezza. La prima questione che si pone qui è che il finito ha a che fare con la δόξα, viene dalla δόξα. È per questo che Aristotele, riferendosi al proprio metodo, dice di voler indagare i λόγοι, έκ καί περί τούτων (discorsi per se stessi, relativi a se stessi): ciò che egli stabilisce in merito all’esserci, lo ricava da come l’esserci parla di se stesso, “in riferimento alle condizioni di vita”. E qui introduce il termine ϐίος. Βίος: un nuovo concetto di “vita”, non lo stesso di ζωή. Abbiamo visto che quando parla dell’uomo dice ζῶον λόγον ἔχων, cioè un vivente, ma non è solo un vivente. La moderna biologia non parla del ϐίος greco. Βίος è “condizione di vita”, “cammino di vita”, la specifica temporalità di una vita dalla nascita alla morte, il “corso della vita”, sicché ϐίος significa anche “descrizione della vita”: il come di una ζωή è il ϐίος, la storia di una vita. Ciò che la vita stabilisce riguardo a se stessa, essa lo ricava dalle occupazioni della vita corrente in quanto tale, e questa concezione della vita ricavata dalle occupazioni svolte in una determinata condizione di vita è al tempo stesso, a sua volta, περί τῶν πράξεων (relativamente al fare, all’agire), interpretazione delle occupazioni da cui è ricavata. È questo il filo conduttore metodico che Aristotele segue nell’analisi dei ϐίοι, per vedere che cosa la vita stessa ha colto in quanto τέλος καθαύτό. Parte dal modo. Βίος non è solo la vita ma il modo in cui si vive, è il modo di vivere. Lui dice che bisogna partire da lì, ma questo modo di vivere è il modo del “Si”, è la δόξα. Egli descrive tre di questi ϐίοι: 1. Βίος άπολαυστικός, “la vita nel piacere, nel godimento”; Βίος πολιτικός, il modo di esperire la vita che si svolge nel prendersi cura all’interno dell’esserci concreto; Βίος θεωρητικός, il modo dell’esserci caratterizzato dal contemplare. Non c’è niente da contemplare, il Βίος θεωρητικός è il pensiero, la vita in quanto pensiero. In base a questi ϐίοι Aristotele mette anzitutto in luce differenti τέλη e, riferendosi a essi, mostra che debbono essere perseguiti διαύτό. Al tempo stesso egli si chiede criticamente se essi corrispondano al senso del διαύτό inteso come τέλος dell’essere l’uno con l’altro. Deve emergere il κριτήριον che questi τέλη debbono soddisfare. Quale criterio deve essere soddisfatto da questo fine? Come poniamo questo fine? 1. οικεῖον (familiare),… Deve essere qualcosa con cui ho dimestichezza. 2. δυσαφαίρετον (sentirsi a casa), tale cioè che il τέλος sia “a casa” nell’esserci stesso, non gli sia attribuito dall’esterno, quindi gli spetti in modo “inalienabile”. Questo τέλος, questo fine, che è poi l’άγαθόν, deve avere questi requisiti, deve essere qualcosa con cui ho a che fare, qualcosa che posso raggiungere. 3. Tuttavia anche la determinazione del δυσαφαίρετον non basta, di deve essere un τέλειον che “costituisce la finitezza in senso proprio”. Sta sempre cercando qualcosa che risulti finito, perché se non si trova qualcosa che risulti finito non c’è άγαθόν e, tutto sommato, neanche τέλος. La ήδονή può anche essere perseguita in vista del mio esserci in quanto tale, e non in vista di se stessa. Ne deriva quindi la necessità di definire il τέλειον. 4. Il τέλος deve essere αὕταρκες, “autosufficiente”. Nell’interpretazione dell’αὕταρκες diviene evidente che il τέλος è tale da determinare un esserci in quanto essere l’uno con l’altro. Il τέλος dev’essere autosufficiente nella determinazione dell’essere l’uno con l’altro. Non ci interessano dei τέλη che siano sempre in vista di qualche cos’altro ma devono essere, come dice lui, διαύτό, per sé: questo fine deve essere per sé. E, allora, ne esplora tre, che possiamo ricapitolare brevemente. C’è l’ήδονή. Cercare e raggiungere il piacere è una cosa che piace a molti e, quindi, ottiene il consenso di molti. Poi, c’è il τιμή, il rispetto. Come nel caso del piacere, il rispetto dipende da altri e non è per se stesso, non lo gestisco io; posso fare in modo che altri mi rispettino, ma sono sempre gli altri che decreteranno questo rispetto. A ag. 110. Sta cercando un qualcosa che si mostra nell’azione e ha il suo essere nell’esserci in senso proprio, concreto in ogni situazione. Lo “svolgersi bene” (l’εύτυχία) è anch’esso una determinazione dell’autenticità di un prendersi cura. L’εύτυχία è implicita nell’εύδαιμονία (felicità). Si può comprendere perché Aristotele dia per scontato tutto ciò solo se si tiene presente la determinazione dell’essere greco: i greci possiedono il senso pieno e concreto dell’esserci in quanto “essere in un mondo”, dell’esserci nella sua concretezza, del fatto cioè che esso viene visto nella vivezza dell’attuazione del prendersi cura. I greci hanno sempre presente il tutto, non lo abbandonavano mai. Ciò che la vita ha espresso concretamente su se stessa è qualcosa che reca in sé la propria fondazione. Ciò che la vita dice di sé, ciò che il parlante dice di sé, quello che crede, quello che pensa. Questa è la fondazione, è ciò che possiamo indicare come il fondamento della vita: ciò che la persona pensa di sé, ciò che crede di sapere, il famoso δοξάζειν. Vedete come ricadiamo sempre qui: il “Si” è la base di tutto. Possiamo dire a questo punto e tranquillamente che non c’è altro se non il “Si”, si dice, si pensa, si crede, si spera, si immagina, ecc. A pag. 111. Alla fine del Libro I, capitolo 2, dell’Etica Nicomachea Aristotele dice: “se sono orientato su ciò che la vita dice di se stessa, non c’è bisogno di richiamarsi al διότι, perciò, perché, poiché”. La vita ha parlato così. Aristotele assume l’interpretazione dell’esserci della vita in termini positivi. Ma appunto dal fatto di parlare in un certo modo di se stesso, e di rivolgersi, così, a se stesso, l’esserci ottiene già la sua fondazione. L’esserci, l’uomo, è fondato su ciò che pensa di sé: questo è il suo fondamento, questa è la garanzia dell’esserci. Il suo “Si”: io credo di essere questo, io penso di essere così e cosà. Questa, dice, è l’unica fondazione possibile, non ce ne sono altre. Dice La vita ha parlato così, cioè, io, il vivente ha parlato così. Che altro c’è da dire? Nient’altro. Se non perdo di vista lo ὄτι, cioè “il fatto che” la vita ha parlato così, e l’ho compreso, allora non c’è più bisogno di un διότι. Non ho più bisogno dei motivi, dei perché. Questo sono io, perché? Perché è quello che penso io. Naturalmente, questo si potrebbe estendere: le cose sono così perché le penso io, perché io le vedo così, quindi, sono così, non possono essere in un altro modo. La vita si è appropriata delle sue possibilità, manifestandole espressamente, e per la precisione da tre punti di vista, i tre ϐίοι. I tre ϐίοι: il piacere, quello politico e quello teoretico. Aristotele pone in luce quest’ultimo ϐίος, quello teoretico, come la possibilità autentica dell’esistenza umana. Gli altri due ϐίοι gli offrono invece l’occasione di stabilire due tipi di τέλη: 1. ήδονή (piacere), 2. τιμή (rispetto). Dice però che è il terzo, il Βίος θεωρητικός, quello teoretico, la vita del pensiero, il pensiero vivente, il pensiero pensante.