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8 gennaio 2025

 

Proclo Commento al Cratilo di Platone

 

Siamo a un punto molto importante. Il discorso, il pensiero occidentale, come abbiamo detto varie volte, è stato costruito. Plotino, Porfirio, Proclo, soprattutto Proclo, direi, ancor più che Porfirio e addirittura più di Plotino, è colui che ha modificato, che è riuscito a modificare il pensiero, configurando quella cosa che poi sarebbe diventata il pensiero occidentale. Facendo un lavoro notevole, perché, in effetti, ha modificato il pensiero inserendo degli elementi che prima non c’erano. Certo, li ha presi da Plotino, quindi da Platone, ma questi elementi sono filosoficamente articolati. Potremmo definire la cosa come apofatismo noetico; se, invece, non vogliamo usare termini filosofici: la costruzione del pensiero sul l’ineffabile. L’apofatismo è quella dottrina usata in teologia, e la teologia apofatica sarebbe la teologia negativa, che si fonda sull’indicibile: Dio non può essere detto, noi possiamo soltanto dire ciò che Dio non è, ma a lui non possiamo accedere perché la nostra mente non è sufficientemente potente. E, quindi, il pensiero costruito - sto parlando del pensiero occidentale - costruito sull’ineffabile è esattamente l’apofatismo noetico. Ora, sappiamo anche perché tutto questo ha avuto un successo nel corso dei millenni, perché questo, che abbiamo chiamato amichevolmente apofatismo noetico, per la volontà di potenza ha costituito un fondamento formidabile perché, essendo ineffabile il fondamento, non potrà mai essere messo in discussione. Non puoi parlarne, non puoi argomentare, non puoi fare niente, è indiscutibile. Ora, tutto il pensiero è stato costruito su questo, ma prima non era così. Questa costruzione, fatta da Proclo, è quella che, per esempio, consente di credere nella veridicità delle proprie o altrui opinioni, ché altrimenti non sarebbe possibile. Non è che uno non ha opinioni, ma le prende per quello che sono, cioè doxa, mentre grazie a Proclo è possibile credere che le proprie opinioni, ciò che si crede, sia vero, perché fa riferimento a un vero, a una verità, a un bello, a un giusto, a un buono, che esistono come idee. Ciò che importa è che il fondamento sia ineffabile; non possiamo conoscerlo. Ma dicevo della volontà di potenza, che ha trovato in questa formulazione la sua modalità più efficace, più potente, e per questo ha avuto successo e continua ad avere successo a tutt’oggi. Tutto ciò che si pensa, si congettura, ecc., è sempre comunque debitore di un’idea di vero, di un bene che c’è, di una giustizia che c’è, nessuno sa bene cosa è, ma c’è. Cosa che una volta non era prima di Platone, di Plotino soprattutto. Personaggi come Democrito erano lontanissimi da una cosa del genere. Eraclito, Parmenide, Anassimandro, Zenone, tutti i sofisti, per loro una opinione, la doxa, era quella che era, in fondo è il “si dice”, niente di più. Non è ancora stata istituita la doxa come episteme. Ora, qui, oltre al Commento al Cratilo di Platone, ho anche delle cose tratte dalla Teologia platonica. Sono sei libri da cui ho tratto soltanto alcune proposizioni, quelle che interessano a noi. Badate bene a cosa dice Proclo. Siamo al capitolo 60. Aristotele stabilisce che l’artefice che lavora al servizio di qualcuno ha più familiarità con la materia, mentre colui che si serve del suo prodotto ha più familiarità con la forma. Platone invece ora stabilisce che l’esecutore d’opera ha familiarità col bello, mentre l’architetto e l’utente hanno familiarità col bene. Cosa che non c’è in Aristotele. Il grande Platone, infatti, non pensa come Aristotele, che non c’è niente di più nobile della forma, ma sa bene che al di sopra del bello c’è il bene e che al di sopra delle essenze della forma c’è Dio. Non come Aristotele che è senza Dio. Ogni opera è bella in vista di un bello superiore, di un bene superiore. Vi dicevo del modificare il modo di pensare: la modificazione del modo di pensare incomincia ad avvenire con queste cose. E ancora, capitolo 68. Poiché i nomi sono imitazioni e copie dell’essenza delle cose… Questo “poiché” è perché è quello che pensa lui. …e sono coordinati con coloro che operano tali limitazioni, ha ragione Socrate nel compiere la sua ricerca sui nomi, fa menzione dell’uno e dell’altro nome di ciascuna coppia, ma dei primi, cioè dei nomi dati dagli uomini, confuta la parvenza e l’assenza di immaginazione; dei secondi, quelli dati dagli dèi; invece, mostra l’ispirazione e il fatto che indicano gli oggetti della ricerca. Indicazione che quelli che sono in ciò ispirati, forniscono a coloro che sono capaci di avere conoscenza sinottica. Qui c’è un altro passo importante: i nomi. Ci sta dicendo: che cosa garantisce che il nome dica la cosa? Dio, non c’è altra garanzia. Ma questo dice anche che è possibile dire le cose come sono. Dopo quasi millecinquecento o poco più anni, Kant pone la cosa in sé, l’essenza della cosa, che non è conoscibile, ma c’è.

Intervento: Tutto questo per la rilettura che fece Porfirio delle categorie. Grande mistificazione.

Sì, infatti, è questa la mistificazione più colossale, quella di cui vi dicevo prima, e cioè la costruzione del pensiero, quindi del discorso, fondato sull’ineffabile. Severino parla di follia a proposito del divenire, per cui la follia dell’Occidente sarebbe pensare che il divenire sia a fondamento di ogni cosa. No, se proprio volessimo parlare di follia, sarebbe questa: la follia di costruire un pensiero fondato sull’ineffabile. Capitolo 72. Se la natura degli dei è priva di figura e incolore e impalpabile, il loro non può esserci l’attività dialettica, ma tale attività, al contrario, verte sulle cose di quaggiù e sul divenire. Cioè, la dialettica, l’argomentazione, non è degli dèi, è degli umani, degli umani che non potendo vedere l’Uno, perché non ci arrivano, allora con la dialettica si arrabattano come possono. È un modo di svalutare in fondo il pensiero umano, la dialettica, la logica, il pensiero in generale; svalutarlo, come già fece Filone di Alessandria: l’uomo è una nullità; in fondo, il compito dell’uomo è di accorgersi di essere nulla di fronte a Dio, questo è il massimo dell’aspirazione.

Intervento: E, guarda caso, data la nullità dell’uomo, si giustificano la presenza delle aporie.

Capitolo 87. Opportunamente ora Platone assume i nomi Theophilus, amanti di Dio, e Nemosithios, memore di Dio, quasi parafrasando le seguenti parole che scrive nel Fedro: solo la ragione del filosofo ha le ali. Infatti, la sua memoria è sempre rivolta, per quanto sia possibile, alle cose di lassù… Questa è per via platonica, e infatti cita Platone chiaramente: la memoria, la rimemorazione delle idee. L’affinità delle anime al divino, infatti, è in funzione dell’amore verso di esso e del ricordo della realtà del Dio, e avere i nomi paterni e intellettivi conviene solo uomini siffatti, cioè affini agli dèi, mentre i nomi differenti alla generazione convengono a coloro che hanno abbracciato la vita indeterminata e materiale. Qui ancora, cioè, il filosofo è quello che più si avvicina alla rimemorazione delle cose, e cioè a Dio, all’Uno. È questo che gli dava la garanzia di essere nel giusto. Capitolo 90. Platone, che nelle etimologie disprezza la materia e si attiene soprattutto alla forma. Platone disprezza la materia e si attiene alla forma. Per Aristotele non era così: forma e materia formano il sinolo, come lo chiama lui, un tutt’uno, non sono scindibili. Lo dice continuamente anche nel De generatione, che non esiste la materia senza la forma, la materia è necessariamente materia formata, materia signata, come dicevano i medioevali, perché senza forma non c’è materia. Che è esattamente la stessa cosa che dice della sostanza: senza le categorie non c’è la sostanza, è la stessa, medesima cosa. Capitolo 101. La nostra anima conosce in modo diviso. La famosa diairesis, divisione: occorre scomporre per conoscere. La indivisibilità dell’attività degli dei, e in modo molteplice la loro unitarietà, e ciò accade soprattutto a proposito del demiurgo, di cui anche il nome, che è uno, noi lo pronunciamo come proposizione, giacché egli dispiega le forme intellettive e provoca le cause intellegibili e le sviluppa nella costruzione demiurgica dell’universo. E, infatti, il Parmenide caratterizza… Bisogna sempre tenere conto che quando si riferisce al Parmenide si riferisce al Parmenide di Platone. …tutto ciò come identità e alterità, e la poesia (cita Omero) dice che in lui ci sono due orci. È una traduzione assolutamente mistica, ovvero gli oracoli degli dèi dice che presso di lui siede la diade, perché egli, il padre, svolge due funzioni: contenere con l’intelletto gli intellegibili e introdurre nei mondi la sensibilità. E che bisogna dire? In effetti, è per questo che gli oracoli lo chiamano trascendente duplice, è lassù duplice. E, insomma, lo celebrano per mezzo della diade. La diade è importante. La diade è la divisione, è la separazione: i due elementi rimangono separati. A questo serve la diade: a mantenere separati l’uno dai molti. Mentre Aristotele, come sappiamo, pone l’entelechia. Ricordate l’etimo di entelechia: ἒν-τέλος-ἕκειν, ciò che ha in sé il fine, ciò che ha un progetto. Capitolo 102. L’anima del mondo dà la vita alle cose che sono mosse da altro. Per queste cose, infatti, essa, l’angolo del mondo e fonte principio di movimento, come dice Platone, sia nel Fedro che nelle Leggi, Il demiurgo invece dispensa assolutamente a tutte le cose sia la vita divina che quella intellettiva e quella psichica e quella che è divisibile nei corpi. Cioè, l’anima del mondo anima le cose, dà vita alle cose, mentre il demiurgo, che è Dio praticamente, dispensa a tutte le cose sia la vita divina che quella intellettiva e quella psichica e quella che è divisibile nei corpi, perché gli sta sopra, è lui che governa tutto. Ma perché l’anima anima le cose, cioè, dà vita alle cose? Perché c’è qualcuno sopra di lei che le fornisce questa opportunità. Capitolo 106. Platone dice che l’intelletto demiurgico fa calcoli e crea il mondo ragionando. Platone, forse, considera divisibili e distinti i pensieri secondo cui il demiurgo costruisce non solo l’universo nella sua totalità, ma anche le sue parti. L’intelletto demiurgico calcola. È il primo matematico, perché soltanto calcolando può ordinare, si può mettere in una successione e, quindi, si può, sì, potremmo dire conoscere, ma soprattutto dominare attraverso il calcolo. Il calcolo imprigiona le cose all’interno della sua struttura e fa diventare ogni cosa calcolata. Capitolo 107. La purezza indica certamente questa sua trascendenza indivisibile e impartecipabile. La purezza di Dio non è partecipabile perché qualunque cosa partecipi di questa purezza ne corrompe la purezza. Infatti, con il termine purezza sono significati non avere contatto con la materia... Qui occorre tenere conto che queste cose, che appaiono di passaggio, sono invece delle proposizioni che costruiscono un pensiero, come questa: la materia è qualcosa di scadente. Cosa presente già in Plotino, però, qui si ribadisce il fatto che la materia è ciò che non deve in nessun modo toccare la purezza, perché ciò che è puro deve essere necessariamente senza materia; quindi, se c’è materia c’è impurità. …e essere indivisibile e l’essere privo di relazione. Questo essere privo di relazione è importante. Qui Proclo non si rende conto o non vuole rendersi conto che, se effettivamente qualche cosa è privo di relazione, non c’è perché, se c’è è in una relazione, perché è un qualche cosa, il famoso λέγειν τί κατά τίνός. Così grande, infatti, è la superiorità di questo Dio rispetto a ogni coordinazione con gli enti inferiori a lui, nonché la sua Immacolata unione all’intelligibile da non avere neppure bisogno della custodia dei cureti... I cureti sono dei personaggi mitologici, quelli che aiutarono Rea a salvare Zeus da Crono. Praticamente, i cureti sono delle guardie del corpo. …come invece hanno bisogno Rea, Zeus e Crono. Questi ultimi, infatti, hanno tutti bisogno della guardia costante dei cureti nel loro procedere verso gli enti inferiori… Hanno bisogno di una guardia del corpo quando procedono verso gli esseri inferiori. Crono, invece, che è fissato stabilmente in se stesso e che si sottrae a tutte quante le cose che stanno dopo di lui, si colloca al di sopra della custodia da parte dei cureti, ma possiede in sé in modo unitario la causa anche di essi. Nella mitologia si trovano i tre personaggi: Crono, Urano e Zeus. Questi tre, in effetti, sono la prima triade, ripresa anche da Plotino, perché Crono è quello che non ha bisogno di nessun altro, quindi, è l’Uno, è l’ineffabile, è quello che esiste solo per sé. Poi, c’è Urano e poi Zeus. Questa sua (Crono) purezza e immacolatezza, infatti, dà sussistenza a tutte le processioni dei cureti e, perciò, negli oracoli si dice che egli contiene la primissima fonte degli dèi implacabili ed è trasportato da tutti gli altri. Vedete intanto come molte affermazioni hanno come riferimento, come referente, gli oracoli caldaici. Quindi, se si tiene conto che questo è stato il fondamento, nonostante che lui detestasse i cristiani, possiamo tranquillamente dire che una buona parte del pensiero cristiano viene direttamente dagli oracoli caldaici. Capitolo 109. Alcuni identificano Crono con la causa unica dell’universo... La prossimità con Plotino è evidente. …per il fatto che è indivisibile e unitario e paterno e benefattore tra gli dèi intellettivi. Costoro che identificano Crono con la causa unica dell’universo sbagliano perché con quella c’è soltanto analogia di nome, in quanto anche Orfeo chiama la prima causa dell’universo Crono, quasi per omonimia con Crono, mentre gli oracoli di tradizione divina, gli oracoli caldaici caratterizzano questa divinità con il termine hapax, solo. C’è una figura retorica, legomenon, che indica un elemento che interviene in un racconto una sola volta. Crono è solo, chiamandolo trascendente, unitario. Chi è solo, infatti, è affine all’Uno. Ci sta dicendo, senza volere probabilmente, come di fatto l’Uno sia una trasposizione da Crono. Crono, Urano, Zeus; Uno, intelletto, anima; padre, figlio, spirito. Capitolo 110. Nessuno pensi però che le attività degli dèi siano divise per il fatto che, come sia detto, la Provvidenza è solo di Zeus. Il convertirsi a sé è solo di Crono… È l’unico che si che si converte solo a sé. Il tendere verso l’intellegibile è solo di Urano. Anche Zeus, infatti, non provvede altrimenti alle cose del mondo se non guardando all’intelligibile. Nella mitologia greca c’è già tutto il neoplatonismo, in fondo, che ha preso a man bassa dalla mitologia greca: Crono è l’Uno, è colui che procede da sé. Zeus provvede alle cose del mondo guardando l’intelligibile, come l’anima, l’anima che anima le cose ma guardando all’intellegibile, sennò non ci sarebbe un ordine. Capitolo 119. A ragione, gli eroi ricevono la loro denominazione da Eros, poiché Eros è un grande demone. Dalla cooperazione dei demoni nascono gli eroi e poiché Eros è generato da Poro, che è migliore, e da Penia, che è ricettacolo del peggiore… Vi ricordate il Simposio: Eros, figlio di Poros e di Penia. …per analogia anche gli eroi Eros li produce da generi differenti. L’ho annotato soltanto così, per curiosità, in effetti. La questione dell’eros, quindi, la connessione tra l’eros e la questione intellettuale, che era presente in Platone, ne parla nel Simposio: la strettissima connessione tra l’eros l’intelletto. Capitolo 135. Ciascun dio, intanto, da sussistenza ai nomi divini, che sono per noi inconoscibili e impronunciabili, anche se psichicamente ci sono in noi tutti i nomi e gli intellettivi e i divini, in quanto conosce se stesso e tutte le altre classi di linee partecipa di tutte e le definisce secondo la propria realtà. Qui, di nuovo, riprende la. questione del nome, che deve dire la realtà. Ma è Dio che dà sussistenza ai nomi divini, è Dio che fornisce ai nomi la garanzia che i nomi dicano le cose. Perché, se non c’è questa garanzia, come per esempio già sosteneva Ermogene, sulla scorta di Aristotele: se i nomi sono soltanto simboli arbitrari, non c’è nessuna garanzia che la parola possa dire la cosa, cioè che le cose si possano dire. Altrimenti, io dico, certo, continuamente cose, ma non so che cosa dico, perché la parola non dice la cosa. E, quindi, per potere affermare “io so come stanno le cose” è necessario che ci sia un Dio che me lo garantisca. Capitolo 142. Bisogna ora intendere in modo sicuro il discorso sui flussi e sui movimenti. Socrate, infatti, non regredisce alla teoria del flusso materiale di Eraclito, perché ciò sarebbe falso, indegno della mente di Platone. Dio solo sa cosa hanno inteso loro del discorso di Eraclito. Al contrario, poiché è lecito interpretare per via analogica il divino attraverso le sue proprie immagini, è lecito interpretare per via analogica il divino attraverso le sue proprie immagini. La connessione, la quale corrispondenza fra l’analogia e il divino. A buon diritto Socrate, scherzando e nello stesso tempo facendo sul serio, assimila a dei flussi le divinità fontali… Delle fonti, quelle da cui nascono le cose. …e che appartengono a Crono, per il fatto che i beni sono sempre incanalati da ciò che sta in alto verso ciò che sta in basso, e perciò con l’immagine dei fiumi, sono celebrate le divinità principali che stanno dopo le divinità fontali, da cui sgorgano perennemente i beni. Dopo la fonte dei beni, infatti, viene considerato il loro principio. È sempre l’immagine di Plotino, in fondo; questa processione discendente - Uno, intelletto e anima - come una fonte che sgorga e che va verso il basso. Capitolo 165. Il termine nutrimento, applicato agli dèi, significa che gli dèi inferiori si riempiono intellettivamente di quelli più elevati. Gli dèi, dunque, si nutrono quando pensano gli dèi che stanno prima di loro e giungono così a perfezione e contemplano le bellezze intellegibili, quali ad esempio, la giustizia in sé, la saggezza in sé e simili, come si è detto nel Fedro. Gli dèi si nutrono di quelle verità che stanno sopra di loro e contemplano le bellezze intellegibili. Il fatto di chiamare bellezza intellegibile la giustizia in sé, la saggezza in sé, quindi la verità in sé, il buono in sé ecc., tutte queste cose ci dice come qui Proclo stia modificando, come dicevo all’inizio, il modo di pensare, imponendo che la saggezza in sé, la giustizia in sé, il vero in sé, ecc., siano delle bellezze intelligibili, cioè, un qualche cosa di intellegibile, di comprensibile, che procede dal Bene assoluto. Ma ci sono queste cose perché queste bellezze sensibili ci sono, esistono e, quindi, esiste la saggezza in sé, esiste la giustizia in sé, esiste la bellezza in sé. Capitolo 172. Occorre che colui che ama la pietà verso gli dèi si attenga scrupolosamente alla giustezza dei nomi divini affinché non si trovi nella condizione di coloro che vengono biasimati da Socrate per gli errori che commettono, a proposito dei nomi Persefone e Apollo, per ignoranza dell’analisi etimologica di questi nomi. Analisi etimologica che lui si inventa, ovviamente, come appare evidente nei Cratilo. Quindi occorre che questa persona, che ama la pietà verso gli dèi, si attenga scrupolosamente alla giustezza dei nomi, che sono inventati da lui, sono sue fantasie. Vedete come attenersi scrupolosamente all’ineffabile. Ecco che ritorna l’apofatismo. In fondo, anche oggi il dettato da parte delle istituzioni, di tutto quanto, è esattamente questo: bisogna attenersi scrupolosamente alla giustezza dei nomi, dice qui Proclo, però, a ciò che è stato deciso essere giusto, ma che non ha nessun fondamento, assolutamente nessuno, così come l’etimologia che fa Platone è tutta fantasiosa, ma bisogna attenersi scrupolosamente. È una scemenza, sì, ma ti ci devi attenere scrupolosamente. Capitolo 176. Vedere la purificazione non solo nella medicina ma anche nella mantica… La mantica è l’arte di prevedere. …indica che in generale la potenza purificatrice di Apollo comprende tutte e due queste arti. La medicina e la mantica. E infatti questo Dio, quei fulgori della sua luce, fa risplendere il mondo e con la sua attività guaritrice lo purifica di tutta la mancanza di misura… La mancanza di misura. Il calcolo. Quando si commette un errore di calcolo, per un qualsiasi motivo può accadere, ecco che allora interviene la mancanza di misura: si perde la purezza perché è impuro. …che deriva dalla materia… Cioè, dai molti. …compiti che appunto, anche quaggiù, ripetono i medici e gli indovini: i primi, in quanto purificano i corpi, i secondi, in quanto per mezzo di aspersioni e sulfurazioni rendono puri se stessi e i loro discepoli. E, infatti, come dice Timeo, anche l’universo gli dèi purificano, o col fuoco o con l’acqua. Operazioni che anche gli indovini imitano, e perciò anche le teurgie prescrivono di prepurificare in questo modo gli evocatori e i medium. E le purificazioni che precedono i ritmi iniziatici sono adottate non solo dagli indovini ma anche dai telesti…. Abbiamo visto la volta scorsa, che i telesti sono quelli che conoscono i modi per piegare gli dei al proprio volere. …allo scopo di eliminare dal rito che si sta compiendo tutto quello che gli è estraneo, e in verità è proprio del Dio Apollo anche il potere di ridurre le diverse forme di purificazioni all’unica sua potenza purificatrice. Dappertutto, infatti, Apollo ha la funzione di unificare la molteplicità riconducendola ad unità. Ecco, questa è la purificazione: ricondurre i molti all’uno. In questo modo, togliendo i molti, togliendo la materia, finalmente ci si purifica. Capitolo 178. E giacche Socrate si è guardato bene dal chiamare questa grandissima dea Leto da lete, oblio, forse a causa della immaturità del giovane Ermogene, si potrebbe dire anche questo come appropriato aleto, e cioè che essa suscita nelle anime l’oblio dei mali. Lete, da cui poi alètheia. Ed è il turbamento della confusione, propria della generazione, in preda al cui ricordo l’anima non sarebbe più capace di fissarsi negli intellegibili. Il ricordo, infatti, dice Plotino… È interessante, la nota dice che è l’unica citazione delle Enneadi da parte di Proclo. …riduce a ciò che è ricordato e come Mnemosyne risveglia, ricordo degli intelligibili, così Leto dona l’oblio delle cose materiali. Qui, questa sorta di etimologia non è irrilevante, perché ci dice che secondo il neoplatonismo alètheia sarebbe far uscire dall’oblio, cioè una remunerazione delle idee che stanno lassù, e non qualcosa che esce dall’oscurità o qualche cosa che ancora non è apparso, ma è qualcosa che è dimenticato. L’alètheia, quindi, è una rimemorazione, un ricordare ciò che l’anima ha visto quando era ancora attaccata all’Uno. Il ricordo riconduce di nuovo all’Uno, uscire dall’oblio significa rimemorare, cioè, ritornare al ricordo, quindi, all’Uno.

Iniziamo ora a leggere alcune proposizioni della Teologia Platonica, sempre di Proclo. Sono sei libri. Dal libro primo: questa è la cosa più interessante per quanto riguarda noi. Si delinea un altro principio fondamentale, teologia platonica... Stesso titolo che diede poi Marsilio Ficino, anche lui ha scritto una teologia platonica. …il simile si conosce attraverso il simile. La legge dell’analogia. In ogni ente e fenomeno del mondo materiale sono poste le tracce che rimandano al principio originario. Ogni ente ed ogni fenomeno sono altresì riconducibili, per analogia e per emanazione, ai fondamenti primi e immateriali. Questa è la verità insita in ciò che appare. Vi rendete conto di ciò che sta dicendo Proclo? Il simile si conosce con il simile, quindi l’analogia, la divina analogia, come la chiamerà a un certo punto, funziona perché ogni cosa procede da ciò che la precede. Quindi, l’implicazione è garantita dal fatto che ciò che segue, segue necessariamente ciò che precede e non arbitrariamente, come aveva sostenuto Aristotele, ma necessariamente, perché il simile si conosce attraverso il simile e, quindi, il fenomeno contiene ancora, c’è ancora in qualunque fenomeno, una traccia di ciò che lo ha generato, e cioè l’Uno. Infatti, a partire, dall’enade, l’intelletto risulta apparentato all’Uno… Le enadi sono quegli elementi che connettono l’Uno con le altre cose. L’anima e gli enti risultano perfetti secondo la loro propria natura. L’enade aggiunge alle realtà secondarie, già dotate di innata perfezione la partecipazione alla proprietà che viene loro dal grado che le precede nella gerarchia, proprietà che altrimenti non posseggono per natura. Aristotele se ne era accorto perfettamente che non procedono affatto per natura, A non segue affatto B, io lo decido, ύμάρχειν, è un comando: se A allora B, va bene. Sì, certo, ma non c’è al mondo nulla che garantisca che effettivamente “se A allora B”. Perché queste proprietà, connesse con l’implicazione, non le posseggono per natura, ma necessariamente per processione. È necessario o che gli dèi sappiano per natura che a loro spetta la cura provvidenziale delle entità da loro generate, il far sussistere le realtà seconde e il garantire loro vita e senza unita, avendo già in sé la causa originaria dei beni insiti in tali realtà; oppure, che non sappiano tutto questo, cosa nemmeno lecita da dire. E, infatti, è assurdo, come possono ignorare le cose belle che loro sono causa della bellezza? Dio sa che cosa succede nel mondo? Certo che lo sa, lo sa, non solo perché lo ha creato lui, perché continua, perché non può ignorare una cosa bella. Perché non può ignorarla? Perché la bellezza appartiene al Bene assoluto, e l’Uno è Bene assoluto, quindi la bellezza gli appartiene e, quindi, non può ignorarla perché è lui stesso. Vedete come l’apporto di Proclo sia stato fondamentale per ciò che prima indicavo come modificazione del pensiero, perché prima il pensiero non era così. È stato lui, sì, certo, dopo Platone, dopo Plotino e Porfirio, ma è stato lui a stabilire, a istituire certi elementi fondamentali, quelli della processione, che sono quelli che governano tutto il pensiero. Cioè, ha detto perché il pensiero può essere vero, perché una mia opinione è vera, e può essere vera se ha Dio come garante, naturalmente. Tutte cose che, come dicevo prima, di Plotino e del neoplatonismo non esistevano. La doxa non aveva nessuna garanzia, era un racconto. Ma qui diventa episteme perché si agganciata la doxa all’Uno, cioè, ciò che si dice, se è vero, viene necessariamente dall’Uno. E l’Uno è il Bene assoluto, e se viene dall’Uno ciò che segue è altrettanto vero: se è vera la premessa è vera la conclusione.