INDIETRO

 

 

7 dicembre 2022

 

L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger

 

Tante cose invita a pensare Heidegger in questo libro. Tra queste potremmo considerarne una, come immediata conseguenza di ciò che diceva nelle pagine precedenti, e cioè che, in definitiva, la verità è una fede. Dicendo che l’essere, il non-essere e l’opinione (δόξα) si coappartengono, sta rimarcando una cosa, che poi avrebbe ripreso Zenone ma in un modo forse meno forte di quanto sta facendo Parmenide, e cioè che la conoscenza, la verità epistemica, cioè la verità come la veritas, qualcosa di certo, di certificato, di dimostrato, non è possibile. Dunque, la verità è una fede, si ha fede nella verità, si ha fede che le cose stiano così come io penso, credo, voglio che siano, niente più di questo. Poi, la verità è anche ciò che viene utilizzato, ma viene utilizzato al solo scopo di proseguire a parlare. Ed ecco la logica. La logica invita a concludere con un’affermazione considerata vera, ma al solo scopo di potere proseguire, cioè di poterla utilizzare per fare il passo successivo. La cosa interessante qui, in ciò che sta dicendo Heidegger, è che in queste pagine che adesso leggeremo, ma anche in quelle precedenti, sta parlando del linguaggio, senza mezzi termini e anche, occorre dire, senza accorgersene. Avrebbe anche potuto porsi la questione, ma non lo fa perché si attiene alla questione dell’essere, a lui interessa l’essere. Poi, non si avvede che parlando dell’essere, cercando di definirlo, di descriverlo, non fa altro che mostrarci il funzionamento del linguaggio. A pag. 184. Parla delle negazioni e dice che l’essere rigetta tutte le negazioni perché è “tutto” e, quindi, non ci sono negazioni all’interno dell’essere. Queste negazioni escludono dall’essere qualsiasi divenire; l’essere viene concepito qui nella più pura e netta contrapposizione nei confronti del divenire. Con ciò abbiamo chiarito che cosa viene negato, ma rimane da chiedere come vada intesa tale negazione. Questa negazione non indica qualche cosa che manca all’essere, ma è ciò che l’essere rigetta, caccia fuori di sé. L’unica cosa che risponde perfettamente a ciò che lui descrive è il linguaggio. Che cosa il linguaggio rigetta, caccia via da sé? Il non-linguaggio, perché non può prenderlo in considerazione, perché se lo prende in considerazione diventa linguaggio. Dunque, le negazioni con “senza” non vogliono dire che all’essere manchi qualcosa, che soffra di qualche mancanza, bensì che ciò che viene negato non è degno dell’essere e non gli è conforme. La sua misura è un’altra. Cioè, sono cose che non appartengono all’essere. Se non appartengono all’essere, cioè al linguaggio, vuol dire che non è linguaggio e, se non è linguaggio, il linguaggio non può fare niente, perché se se ne occupa diventa linguaggio e, quindi, non sono più linguaggio. È in questo senso che occorre intendere ciò che dice Heidegger, che l’essere respinge, caccia via da sé il non-essere, pur essendo coappartenente. Adesso vediamo come. A pag. 185. Il secondo gruppo di σήματα positivi. Generalmente, σήματα è tradotto con segni, ma Heidegger preferisce la parola “aspetti”. L’aspetto positivo è quello in base al quale e nella cui prospettiva l’essere stesso può essere scorto, οὖλον (epico-ionico) anziché λον – “tutto”. Ciò però non vuol dire solo “completo”, nel senso di non mancante di alcun pezzo, cioè di “tutti i pezzi l’uno accanto all’altro”, poiché non vi sono in nessun caso “pezzi” con cui possa essere assemblato, né ve ne sono che possa essere staccati. È “tutto” o non è affatto. Questo è il linguaggio: o è tutto o non è, non può mancare un pezzo del linguaggio, deve essere tutto qui e adesso. Totalità: il primo aspetto filosofico esige un guardare nella direzione di una “unità” eccellente. E, allora, ecco i vari aspetti, i vari σήματα. A pag. 186. μουνογενές (μουνο, uno, solo, γενές viene da γενέσις, sorgere): nato da solo, generato da solo, benché in precedenza si fosse detto: assolutamente non generabile. Se è tutto deve essere ingenerato, se è generato vuol dire che c’è qualcosa al di fuori che lo ha prodotto. Non v’è dubbio che γένος significhi “provenienza, stirpe, generazione”, ma nel termine qui in questione l’accento cade evidentemente sul μούνος, “singolo”, “solo”: quindi non due, non l’uno e l’altro, non due sessi. Poi però in 12,5 si dice che nel regno della parvenza ogni nascita deriva dall’έναντίον (separazione) di maschio e femmina. Ma nell’essere non c’è l’“opposto”, bensì il “solo”. L’essere, il tutto, il linguaggio. Quando lui parla di essere cominciate a pensare al linguaggio, è tutto chiarissimo. Nel linguaggio non c’è l’opposto del linguaggio, che sarebbe appunto non-linguaggio. L’essere nasce solo, da solo, da se stesso, genera se stesso: il μουνογενές non è in contraddizione con l’άγένετον, ma costituisce solo la versione positiva di ciò che in precedenza era stato formulato solo in termini negativi. νῦν όμοῦ πᾶν – (nel) presente, tutto in una volta, insieme – il tutto. Il νῦν (presente) si oppone anzitutto al ποτέ (quando); l’essere non è stato “in passato”, ma è “ora”, dove però l’“ora” non intende quell’ora che un attimo fa non era ancora ora, e appena detto già non lo è più, ovvero l’ora fuggevole, mutevole e transitorio. Non è in ogni caso l’“ora” come lo si conosce abitualmente. Si tratta piuttosto dell’ora che dà tutto in una volta insieme il tutto… È come dire che ogni volta che si parla, che si dice, che il linguaggio agisce, il linguaggio è tutto, qui e adesso. …che è in grado di cogliere la totalità, e precisamente in modo tale che non sia necessaria né possibile alcuna successione di uno sviluppo composto di elementi separati, ma prevalga l’όμοῦ. Insieme con il νῦν si dà il πᾶν. Cioè: con il presente si dà il tutto. Dice che non sia necessaria né possibile alcuna successione di uno sviluppo, cioè, esclude il tempo come successione di stati, di punti temporali. Questo tutto esclude questa successione, perché è tutto qui, il passato, il presente, il futuro, è tutto qui, adesso. A pag. 187. L’altro carattere importante di questo tutto è l’uno, l’ἒν. ἒν è il neutro di εἶς, μία. L’“uno”: un’espressione così pallida e generica che difficilmente se ne può ricavare qualcosa, anzi manifestamente non se ne ricava nulla, dato che l’uno si contrappone a tutto ciò che è vario e molteplice. Eppure si tratta di un’espressione che dice assai più di quanto non sembri. Infatti, già il fatto che all’essere vengano attribuiti πολλά μάλα σήματα, “moltissimi aspetti”, indica che l’unità di quest’uno va caratterizzata in modo nuovo. Dice: sì, è uno, ma ha tanti aspetti. Essa contiene per così dire tutto l’essenziale che appartiene all’uno in quanto uno, cioè costituisce l’unità. Per questo abbiamo tradotto ἒν con “unitario”, in quanto essenza dell’uno, cioè in quanto unità accogliente in sé tutto ciò che ha il carattere dell’unitarietà. È ben vero che Parmenide non ci fornisce in merito alcun chiarimento specifico, ma il suo uno è sicuramente più del vuoto uno. In primo luogo, lo ἒν significa l’“uno”, e non due, tre, e così via – il primo, ciò che sta dapprima e prima di tutto (unità in quanto primarietà). In secondo luogo, lo ἒν significa l’uno distinto dall’altro, cioè da qualsiasi cosa che in genere ammetta e rechi in sé l’alterità, la diversità, il cambiamento: l’uno, e quindi lo stesso (unità in quanto stessità). In terzo luogo, lo ἒν significa il semplice, ciò che anche al proprio stesso interno esclude ogni molteplicità, in maniera tale che il molteplice debba essere altro dal semplice stesso (unità in quanto semplicità, elementarità). Inoltre, lo ἒν significa il singolo… /…/ infine, lo ἒν significa l’uno in quanto tutto, οὖλον (unità in quanto totalità). Primarietà – stessità –semplicità –singolarità – totalità. In che senso dunque lo ἒν è unitario? Lo è perché accoglie in sé tutte queste unità: primarietà, stessità, semplicità, singolarità, totalità. Ma allora è ancora l’uno, se torna comunque ad accogliere in sé una molteplicità? Parmenide non si contraddice forse nel modo più grossolano quando chiama l’essere “ἒν” e al tempo stesso dice “πολλά μάλα σήματα”? Noi però – ed è questo ciò che ci mostra, appunto, proprio l’inizio della filosofia – dobbiamo essere estremamente cauti con lo zelo, così diffuso nell’ambito dell’interrogazione filosofica, che ci spinge ad andare sempre subito a caccia di contraddizioni, cullandoci nell’idea apparentemente sicura che le contraddizioni sarebbero senz’altro obiezioni. Ma facciamo attenzione! Quel molteplice che si addice all’ἒν è solo una molteplicità di unità, che si dispiegano dall’uno in quanto unità. Questa molteplicità non distrugge le unità, ma le plasma nella loro piena essenza. Non è quindi un caso che nella scuola di Parmenide (Melisso e Zenone) proprio questo aspetto dell’essere in quanto ἒν sia stato reclamato come il suo predicato più eccellente. E da allora le cose sono rimaste così fino a Hegel – ovviamente senza che ci si facesse un’idea chiara della piena essenza dell’unità… Questi elementi sono raccolti nell’uno, e chi li raccoglie? Il λέγειν, che letteralmente è “raccogliere insieme”. È esattamente ciò che accade con il linguaggio: anche il linguaggio, potremmo dire, è un tutto. È uno? Sì e no. Il linguaggio si determina in infiniti modi, dice infinite cose, ma tutte queste rimangono all’interno del linguaggio, non possono uscire dal linguaggio, in questo senso sono uno. A pag. 190. …l’essere si dà solo al νοεῖν e al λέγειν – alla comprensione concettuale. Qui riprende il famoso frammento 5, “essere e pensare sono lo stesso”, che rimane sempre la questione centrale, non solo in Parmenide, ma anche nelle discussioni che ne fa Heidegger. Ed è questa la modalità del vedere della prospettiva offerta dalla prima via. Mantenere questa via significa però non condividere in nessun momento la via delle comuni opinioni umane. Al tempo stesso quest’ultima via rimane costantemente vicina, dato che indubbiamente anche chi intraprende la prima via resta pur sempre un uomo. Mantenere la prima via significa quindi in sé già non allontanarsi per la terza via, non condividere ciò che essa consiglia, non accettare la prospettiva che essa offre, distogliere lo sguardo dagli aspetti che ha pronti. E quali sono? Essi si determinano in base alla comprensione dell’essere che domina la terza via, secondo la quale essere significa, appunto, mutamento, essere ora così ora altrimenti, essere in quanto divenire… Capite che lui ha già detto questo perché, parlando di coappartenenza di essere e non-essere e δόξα, l’essere non può darsi senza la δόξα e senza il non-essere, così come la δόξα non può darsi senza l’essere e il non-essere, ecc. Ciascuno dei tre necessita degli altri due per potere esistere. A pag. 192. L’essere in quanto άγένητον (ingenerato). L’essere è senza provenienza, poiché dove mai la si potrebbe cercare? Heidegger riprende questo perché su questo Parmenide insiste molto, sul fatto che non ci sia provenienza dell’essere, cioè, sul fatto che non ci sia nulla al di fuori dell’essere, che non ci sia qualche cosa al di fuori del linguaggio. Qualunque cosa poniamo la poniamo ponendola nel linguaggio; quindi, il non-linguaggio è ciò che in nessun modo può essere percepito, recepito, descritto, definito. Parmenide lo dice chiaramente: il non-essere è irrappresentabile, è assolutamente nulla. Supposto infatti che l’essere abbia una provenienza, allora con ciò verrebbe posto un “donde”. Ma quale “donde”? E come può mai l’essere venire “di là”? Appare chiaro che inizia qui la giustificazione dell’άγένητον in quanto aspetto predominante nella prospettiva sull’essere. Cioè: sul linguaggio. Il linguaggio è ingenerato, non c’è qualcosa prima del linguaggio che lo produca. Nel momento in cui il linguaggio, potremmo dire, accade, è già tutto, nel senso che c’è già tutta la possibilità di ogni costruzione. Non è che alcune cose che oggi esistono, non potessero esistere ventisei secoli fa; non possiamo in nessun modo ammettere che ci sia qualcosa fuori dell’essere, che l’essere si generi poco per volta, come apparirebbe in questo caso, che il linguaggio si generi poco per volta; no, si genera tutto assieme, o è tutto o non c’è. Questo lo diceva chiarissimamente a proposito dell’essere, ma abbiamo visto che parla dell’essere ma, di fatto, sta parlando del linguaggio. E, quindi, possiamo dire che anche le invenzioni più recenti erano già presenti ventisei secoli fa, non viste, non colte, ma erano necessariamente presenti, così come tutto ciò che si sarà potuto inventare fra diecimila anni è già presente qui e adesso; non le cogliamo, non le vediamo, ma…

Intervento: C’è una differenza tra il dire che erano già presenti e il dire che, visto che il linguaggio aveva tutte le condizioni per poterle produrre, erano possibili?

Sì e no. La possibilità c’è in quanto c’è l’atto, sono in potenza ma non in atto, non ancora. Ma anche qui, forse, ci sarebbe da precisare. Cosa vuol dire che non sono in atto? Per esempio, che non le vediamo, che non sono colte, ma non possiamo escludere la loro presenza. Se la escludessimo cominceremmo a pensare che il linguaggio non è tutto e, quindi, attende di essere completato.

Intervento: La domanda posta da Sandro riguarda la nostra idea del tempo come successione…

Il tempo come simultaneità. È questa questione temporale di cui parla Heidegger rispetto a Parmenide: è la presenza, è ciò che è presente è tutto, lo diceva prima: l’essere è la presenza, è ciò che è presente qui, non che è presente perché prima non c’era o dopo non ci sarà o sarà diverso; no, perché non tollera mutamento, non c’è la possibilità di variare; sarebbe come dire che adesso non è ancora tutto, dopo lo sarà. Come Severino: in trepidante attesa che finalmente anche l’ultimo astratto diventi il concreto, e allora finalmente la gloria sarà con noi. Tale giustificazione avviene sulla scorta della dimostrazione che la γένεσις è necessariamente non conforme all’essere. Il linguaggio non sorge, non è che prima non c’era e adesso c’è e poi non ci sarà o sarà diverso, no, se c’è è tutto, o c’è o non c’è, non ci sono vie di mezzo. È questa la potenza del pensiero di Parmenide: l’essere, il non-essere, o c’è uno o c’è l’altro; se c’è è tutto, se non c’è è niente. A pag. 193. Sorge un dubbio ad Heidegger. Ci sarebbe quindi sufficiente, per così dire, osservare con attenzione l’essere e constatare che nel suo caso qualcosa come la γένεσις non si dà. Ma si tratterebbe di una indicazione puramente negativa. Dobbiamo quindi sapere già in precedenza in termini positivi qual è l’aspetto di esso, che ne è di esso. Se noi diciamo che la generazione non appartiene all’essere, diamo a intendere di sapere che cosa sia l’essere. Ma lo sappiamo? Quell’essenza dell’essere, così come Parmenide ritiene di averla compresa, ce l’abbiamo davvero così chiara dinanzi al nostro sguardo interno da poterne dedurre con altrettanta sicurezza che, nel suo caso, la γένεσις non si dà, cioè che essa non appartiene all’έόν? Evidentemente no. Non lo sappiamo ancora, dobbiamo pensarci ancora. Questo è il grande messaggio di Heidegger: tutte queste questioni di cui parla sono tutte cose che vanno continuamente pensate, e ciascuna volta pensate di nuovo, come se fosse sempre l’inizio, ogni volta. È ben vero che nell’elenco ricorrono aspetti “in positivo”, ma ciò non significa affatto che siano provati e dimostrati. La dimostrazione di Parmenide non inizia per l’appunto con gli aspetti negativi? Ma se pure l’essenza dell’essere ci stesse chiaramente dinanzi agli occhi, e potessimo constatare che qualcosa come la γένεσις non vi si dà, anche in tal caso la prova richiesta non sarebbe ancora addotta, poiché non si deve mostrare solo che nell’essere non troviamo noi la γένεσις, e nemmeno che essa, di fatto, non vi si dà, ma che essa non vi si può dare in termini assoluti... È questa la questione, che è così come la pone Parmenide, e qui Heidegger è molto preciso. …– cioè non è in nessun caso conforme all’essenza dell’essere. Non è possibile pensare una generazione dell’essere, cioè del linguaggio. Bisogna quindi mostrare che la γένεσις non può assolutamente appartenere all’essere – impossibilità dell’appartenenza –, un’impossibilità di appartenenza che non può mai essere addotta in base al suo semplice non essere lì presente. Ma per una dimostrazione siffatta dobbiamo a nostra volta dimostrare a noi e poter dimostrare l’essere. Ora, questa dimostrazione potrebbe apparire semplice. Se la cosa la riportiamo al linguaggio, ciò che non è linguaggio viene escluso necessariamente dal linguaggio: qualunque cosa il linguaggio consideri come non-linguaggio lo considera come linguaggio, per forza, perché ne sta trattando, perché ne sta parlando. Parlare del non-linguaggio significa mettere questo non-linguaggio in relazione a…, ma se è in relazione a… è linguaggio. Lo abbiamo visto tante volte e Heidegger insiste su questo: essere è essere in relazione e il linguaggio è essere in relazione, è relazione, nient’altro che questo. A pag. 194. Ora, come procede Parmenide nella sua giustificazione dell’άγένητον? Egli pone una domanda. “Poiché quale provenienza mai si può cercare per l’essere?”. Questo “poiché” implica: ammesso e concesso che l’essere abbia una γένεσις, di quale γένεσις mai si tratta? La discussione e la dimostrazione ruotano dunque intorno al che e al come l’essere abbia una γένεσις; ma questo è esattamente il contrario della tesi che dev’essere giustificata. Nel contempo in questa assunzione del contrario è accaduto che l’essere è stato posto in termini positivi, sicché ora bisogna cercare di mostrare di nuovo in modo diretto ciò che è già stato assunto. Bisogna cercare la γένεσις, cioè anzitutto il donde posto che l’essere in quanto tale giunga e debba giungere da qualche parte – donde mai uò giungere? Questa è esattamente la domanda che si pone Parmenide, Heidegger la articola un po’, ma è questa la domanda. Quali possibilità del donde sussistono? Vediamo in che senso Parmenide, subito dopo aver posto la domanda, inizia a discutere le possibilità di un donde della provenienza dell’essere: οὕτε, “né”; dall’intero stato del problema risulta che a questo “né” deve sempre seguire un altro “né”, ma nella versione corrente del testo così come ci è stato tramandato esso non compare. Dobbiamo quindi verificare dove un tale secondo “né” avrebbe potuto (anzi dovuto) trovarsi – cosa che anche in questo caso può essere decisa solo in base alla comprensione del contenuto testuale. Qual è la prima possibilità di un donde per la provenienza dell’essere? Evidentemente non può che essere ciò che non è essere, cioè il nulla. Ecco perché - né dal nulla potrebbe provenire l’essere, né… - quali altre possibilità vi sono oltre al nulla? L’essere, ma questa ovviamente non potrebbe essere una provenienza, per la quale – è chiaro – il donde è sempre un alcunché di diverso da ciò che per l’appunto ne proviene. Ciò che è diverso dall’essere, oltre al nulla è ciò che si dice parvenza (δόξα), il cui carattere peculiare è di sembrare come l’ente, cioè di essere “in qualche modo” eppure non essere. Si affaccia ora il problema della dimostrazione indiretta. Deve dimostrare che l’essere è ingenerato, άγένητον. A pag. 195. Riassumiamo in breve il contesto oggettivo (il testo di Parmenide): nell’elenco degli aspetti dell’essere ricorre, in primo luogo, che esso è senza provenienza. È questa la tesi che va adesso dimostrata. In quanto asserzione negativa essa offre un detto che non può essere detto immediatamente, ma solo mediatamente, cioè chiamando in supporto il positivo corrispettivo, l’essere. In contrasto con la tesi, si assume che l’essere abbia una provenienza. È questa provenienza che ora bisogna indicare. Si va quindi alla ricerca del “donde”. Quali sono possibili? 1) il nulla; 2) l’essere che è “in qualche modo”. Con ciò sono esaurite tutte le possibilità del donde. Quindi, a questo punto a Parmenide non resta altro che considerare queste due possibilità: provenire dal nulla o provenire dalla δόξα. Chiaramente, non proviene da nessuna delle due, però rimane la questione centrale, e cioè che tutti questi tre elementi si coappartengono: uno non proviene dall’altro, non è la sua γένεσις, ma è la condizione della sua esistenza. Se però di entrambe si dice che non vanno nemmeno prese in considerazione, allora non si dà in assoluto alcun donde per una γένεσις dell’essere: tale γένεσις è impossibile. Ne consegue che l’essere è necessariamente, secondo la sua essenza, senza γένεσις, ά-γένητον. Questa dimostrazione può anche essere definita “dimostrazione indiretta”. Noi diciamo: “mostrare immediato”. /…/ …giacché in questo caso non si tratta di dimostrare una qualche tesi nel senso corrente – cioè una tesi che asserisce qualcosa (e precisamente ex negativo) su questo o quell’ente –, bensì del dire (e del dire negativo) che dice dell’essere. Stabilire i generi della dimostrazione è tra l’altro il compito della “logica”, la quale però presta attenzione solo a quel dire e “pensare” che si conosce soltanto anzitutto e perlopiù, cioè il pensare e dire l’ente nella forma già menzionata dell’asserzione /…/ ma non il dire dell’essere in quanto domandare dell’essere, ovvero il filosofare. Qui distingue il domandare, così come lo pone la logica, cioè un domandare nel senso del trovare una risposta, e il domandare dell’essere, che è un domandare che lascia che l’essere domandi. Quest’ultimo ha la sua logica peculiare, di cui non sappiamo praticamente nulla. Ma sarebbe un errore anche ritenere che questa logica potrebbe essere ricavata semplicemente rovistando nei procedimenti della filosofia invalsa finora. Chi ci garantisce infatti che capiremo in modo corretto tali procedimenti, senza rimanere attaccati agli aspetti esteriori, finché non avremo compreso concettualmente qual è, fin dal principio, la sua meta, e quale l’oggetto della sua interrogazione? In ogni caso, ciò che dice la logica del pensiero esatto non vale già di per sé per la logica della filosofia. Quindi, ciò che nella logica, in modo abbastanza superficiale e schematico, si racconta della “dimostrazione indiretta”, non coglie ciò che noi – provvisoriamente – chiamiamo il “mostrare immediato” del filosofare. Non è quindi armati di un manuale di logica che possiamo cimentarci e fare addirittura i pedanti con Parmenide, oppure – cosa altrettanto stupida – elogiare il fatto che egli avrebbe seguito o persino conosciuto il principio di identità e contraddizione; piuttosto, a partire dalla concreta questione che egli pone, dobbiamo contribuire a sviluppare le sue domande, il suo modo di mostrare e di dimostrare, per venire guidati verso ciò che questo mostrare anticipatamente ci presenta. Questo, in fondo, è il progetto di Heidegger: lasciare che siano queste stesse domande a guidarci, non precipitarci a rispondere o, come diceva prima, a trovare delle contraddizioni, non significa niente una cosa del genere; no, dobbiamo lasciarci guidare da queste domande.

Intervento: …

Occorre fare una precisazione, perché, in effetti, qui la logica può essere intesa sia come il modo in cui si argomenta, il modo con cui si costruiscono proposizioni consequenziali. La migliore descrizione, potremmo dire, il miglior racconto è quello che fa Aristotele negli Analitici: racconta come si costruiscono le proposizioni, perché siano proposizioni che possano proseguire. E, allora, se pensiamo la logica in questi termini, certo, la logica è indispensabile, perché ci mostra come costruire proposizioni per potere da lì costruirne altre. Altro, invece, è porre la logica in questi termini, e cioè come lo strumento – che poi è quello che voleva Platone e anche Aristotele, la dialettica – che giunge a cogliere l’ente così com’è. Ecco che, allora, il discorso cambia completamente, allora è un inganno, una menzogna. La logica non può fare una cosa del genere, glielo si può chiedere, ma… A pag. 197. La comprensione dell’essere nel senso della δόξα, secondo cui l’essere avrebbe una sua provenienza. Abbiamo escluso la provenienza dell’essere dal nulla; adesso consideriamo la δόξα. Per dimostrare l’έόν in quanto άγένητον si suppone che l’essere avrebbe una provenienza, e non si tratta di una supposizione escogitata arbitrariamente, giacché si limita all’assumere espressamente ciò che è già implicitamente inteso nella comprensione dell’essere della comune opinione umana. Tutti pensano che le cose arrivino da qualche parte. In genere si pensa così: se qualcosa c’è è perché a un certo punto qualcos’altro lo ha prodotto. Suppore che l’essere avrebbe una provenienza significa quindi condividere l’opinione comune. Noi però non la condividiamo per farla nostra, ma per chiedere ragione di essa, cioè per interrogarci su ciò che essa propriamente intende. Non vogliamo sapere dell’opinione per farla nostra, non ce ne importa niente, ma ci chiediamo teoreticamente quali sono le condizioni di queste opinioni, che cosa le supporta. Infatti, quando ci si chiede perché l’essere debba avere una provenienza si suppone al tempo stesso che abbia un donde, il quale donde deve in ogni caso essere e contenere un altro dall’essere stesso. Qui è la questione del linguaggio. Il linguaggio non può provenire da qualche cosa, ché questo qualche sarebbe fuori del linguaggio, ma se è fuori del linguaggio non c’è nessuna possibilità che produca linguaggio, perché sarebbe nulla. Anzi, abbiamo visto che il non-linguaggio viene scacciato dal linguaggio, perché non può fare niente con il non-linguaggio, e se lo pensa lo pensa come linguaggio, non c’è via d’uscita. Il donde sarebbe ciò che l’essere dapprima e anzitutto non è – e la cosa più ovvia ed evidente che l’essere semplicemente non è, il non-essere, è il nulla. Ecco dunque la domanda: è forse il nulla il possibile donde dell’essere? Parmenide risponde: no. E motiva la sua risposta in due modi: 1) questo donde non è né φατόννοητόν, non lo si può dire né percepire. Il nulla non può in nessun caso essere interrogato né compreso,… È il fuori del linguaggio. …quindi non si può neanche dire né intendere che il nulla sia il donde dell’essere:… Non si può dire nulla. Come faccio a dire che questo nulla è ciò da cui proviene il linguaggio, cioè, che il linguaggio proviene dal non-linguaggio? Non posso neanche dirlo, propriamente. …l’essere in quanto proveniente dal nulla è incomprensibile e indicibile. Ma che cosa vuole dimostrare Parmenide con questa prova? Vuole forse affermare che il nulla non è da prendere in considerazione in quanto donde perché noi non ne possiamo sapere nulla? Si tratterebbe quindi di un ripiegamento nell’asylum ignorantiae? Di una semplice fuga nel non sapere? Una simile interpretazione della prova dimostrativa di Parmenide non coglie l’essenziale. Egli infatti dice di più, dice che il nulla non può in nessun caso essere il donde perché c’è essere in assoluto sempre solo dove c’è dire e percepire. Dove c’è linguaggio, perché l’essere e il linguaggio sono la stessa cosa. Quindi, il linguaggio, l’essere, può esserci solo se c’è linguaggio, è questo che sta dicendo. Vediamo quindi che per il rifiuto del nulla in quanto possibile “donde” per l’essere ci si appella manifestamente alla tesi originaria secondo cui dove c’è essere c’è percepire – dove non c’è percepire non c’è essere. Potete tranquillamente sostituire essere con linguaggio, e vedete che funziona perfettamente. Percepire è il linguaggio, naturalmente, senza linguaggio non percepisco proprio niente. Il richiamo alla tesi originaria (fr. 5: essere e pensare sono lo stesso) esige questa interpretazione, eppure nel momento in cui la ammettiamo come legittima ci troviamo a sollevare subito una pesante perplessità oggettiva contro un simile procedimento. Che cosa può mai significare il fatto di addurre quella tesi originaria sull’essere, laddove essa stessa non è comunque ancora per nulla dimostrata? Sta dicendo: sì, va bene, essere e pensare sono lo stesso, ma… dimostralo! Anzi, laddove non può essere affatto dimostrata, almeno fintanto che, per l’appunto, non viene dapprima mostrata l’essenza dell’essere? Prima devo mostrare l’essenza dell’essere, solo a questo punto posso dimostrare che essere e pensare sono lo stesso. Ma posso dimostrare l’essenza dell’essere proprio perché l’essere, come diceva qui da qualche parte, è φατόν e νοητόν, cioè riguarda il dire e il pensare. Quindi, è qualcosa che necessita di se stessa per potere dimostrarsi. Sarebbe quella cosa che in logica non è ammessa, detta petizione di principio, cioè per dimostrare qualcosa si utilizza ciò stesso che deve essere dimostrato. Ma non è proprio a quest’ultimo compito che serve la dimostrazione dell’έόν άγένητον (essere ingenerato)? Tuttavia per la fondazione di questa dimostrazione non si può certo, assolutamente e in nessun caso, fare appello a ciò che è innanzitutto e in primo luogo da dimostrare. Si tratterebbe della più banale violazione delle più elementari regole della logica…

Intervento: E se il pensare, come lo intende Parmenide, sia la δόξα di cui parla Heidegger? Continua a dirlo: essere è percepire, percepire è essere, come dire che c’è sempre un pensante che agisce e, quindi, parla. Di conseguenza, la δόξα diventa il pensare.

Sì, è una cosa che dice fra le righe, quando dice che comunque si tratta sempre di qualcuno che fa questo, cioè dell’uomo comune, e l’uomo comune è quello che pensa la δόξα. A pag. 199. Posto che il nulla sia il possibile donde per la provenienza dell’essere, allora l’essere deve sorgere dal nulla – apparire scaturendo da esso. Nel nulla dovrebbe trovarsi quindi un motivo del fatto che l’essere, in un qualche dato momento, ne è sorto fuori. Ma quando, precisamente? Non lo si può dire. /…/ Facciamo bene attenzione all’argomentazione di Parmenide: egli non dice che poiché l’essere non può provenire dal nulla, allora esso è άγένητον, bensì che poiché l’essere non può provenire dal nulla, allora esso o c’è in modo assolutamente permanente, oppure non c’è affatto. Egli insomma afferma: se c’è essere, allora esso c’è in modo assolutamente permanente. Se c’è linguaggio c’è in modo permanente, cioè, non c’è uscita dal linguaggio. La parvenza in quanto possibile “donde” dell’essere. La parvenza è la δόξα, l’opinione. Sennonché nemmeno questa tesi è fondata in termini compiuti, nel senso che la possibilità di una provenienza dell’essere non è ancora esclusa in modo assoluto. Rimane infatti pur sempre una seconda possibilità per un donde. Anche se non si tratta del nulla, è pur sempre qualcosa che può comunque corrispondere al “donde”, sempre supposto che quest’ultimo non possa essere l’essere stesso; e questo qualcosa è il πη έόν, l’ente che è “in qualche modo”, ovvero il sembiante, ciò che ha la parvenza dell’essere eppure non è essere. Come stanno dunque le cose con questa seconda possibilità di un donde per l’essere? Ovvero con la sua origine dalla parvenza? Essa va parimenti rifiutata. Per quale via? Richiamandosi alla “forza dell’affidamento”. Affidamento si fa però soltanto sulla svelatezza, e quest’ultima è la svelatezza dell’essere. Uno fa affidamento, si fida di qualche cosa. Per questo all’inizio parlavo della verità come fede. Abbiamo quindi di nuovo a che fare – come nella prima prova dimostrativa – con un appello alla percezione dell’essere, ci si richiama cioè alla tesi originaria, sicché ci ritroviamo di nuovo in un circolo. In forza della comprensione dell’essere non si potrà mai ammettere che accanto alla parvenza e provenendo da essa si faccia avanti qualcos’altro che, appunto, non sia parvenza. Se qualcosa viene dalla parvenza è parvenza, non è essere. Una provenienza dell’essere a partire da lì non è possibile. La parvenza infatti, così come ogni mutamento, è in sé dominata dal “non”, e il “non” (tutto ciò che ha carattere di “non”) non può mai provenire dal nullo (ciò significa, qui, da ciò che è dominato dal “non”). La parvenza in quanto donde non basta per una provenienza dell’essere. Oltre a questa seconda possibilità di un donde non ce n’è in nessun caso un’altra. Se quindi l’essere non può trovare un donde da nessun punto di vista, allora esso è necessariamente senza-provenienza – ά-γένητον –, sempre posto che vi sia, in genere, essere.