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7 dicembre 2016

 

Anche se dico “domani”, non dico questo “domani” semplicemente come un vuoto “domani”, bensì sempre come un “domani” per ciò che “domani” farò o ciò che “domani” accadrà. Anche se il per che cosa è ancora tanto indeterminato, al tempo appartiene questo rimandamento a…, ovvero l’accennare verso un fare o un accadere. Perciò chiamiamo questo carattere del tempo, cioè quello per cui esso è sempre tempo per qualcosa, il carattere dell’accennatività. Questo carattere della accennatività è proprio del tempo stesso. Perciò questo “per” del tempo non ha nulla a che fare con una “intenzionalità” nel senso di un atto di un io-soggetto, dunque di un rapportarsi umano a qualcosa, di un umano esser-rivolto a…, che soltanto una qualche cosa al tempo, attraverso cui esso viene successivamente riferito ad altro. La accennatività appartiene al tempo stesso e non a un “io sono rivolto a qualcosa” di un soggetto. (pagg. 80-81) La questione qui per Heidegger è quella di far intendere la questione del tempo come un essere per qualche cosa, ma è il tempo a essere per qualche cosa non la persona, l’io-soggetto, cioè come qualcosa di intenzionale. In questo Heidegger si discosta molto dall’umanesimo, in generale dall’esistenzialismo che vuole porre l’uomo come prioritario su ogni cosa. In una famosa lettera a Sartre lui rinnega questa posizione, non mette l’uomo come prioritario, lui dice sì, certo, ‘uomo è quell’ente particolare che può cogliere l’essere dell’ente ma ciò che a lui interessa non è l’uomo, se non come quell’elemento che può accedere all’essere, ma è l’essere che a lui interessa, e l’essere è sempre per qualcosa, è il progetto e il progetto è sempre per qualcosa. Quindi, per Heidegger si tratta sempre di mantenere ben precisa questa distinzione tra ciò che per lui è l’essere, il progetto, l’essere per qualcosa, e invece una intenzionalità, perché l’intenzionalità presuppone una volontà del soggetto, io voglio fare questo, mentre, quando lui dice che ciascuno si trova “gettato” nel progetto non c’è propriamente qualcosa di intenzionale da parte di un soggetto ma è il fatto stesso di esistere, questa stessa esistenza è l’essere progettati continuamente. Quindi, l’essere per qualche cosa non è qualcosa che si aggiunge al tempo, no, potremmo dire addirittura che è il tempo stesso. Poi, prosegue: Da questa caratteristica temporale del “per”, della accennatività, che per noi è percepibile nello “avere tempo”, si deve distinguere un altro carattere del tempo. Percepiamo questo ulteriore carattere, se diciamo: “ora che (da) parliamo l’uno con l’altro”, o “allora, quando Kennedy venne assassinato”, o “poi, quando sarà martedì grasso”. Questo secondo carattere del tempo, lo chiamiamo l’esser-datato del tempo. Qui non si intende meramente una data nel senso della data  del calendario. Si tratta qui di una datazione più originaria, sulla quale soltanto è fondato il datare calendaristico. L’esser-datato del tempo, in certe circostanze, può essere del tutto indeterminato, nondimeno l’esser-datato del tempo appartiene necessariamente al tempo. Il che significa che questo esser-datato del tempo non è altro che l’essere del tempo, essere per qualcosa. Difatti, prosegue: D’altronde, già nel discorso greco sul tempo, questo viene, non espressamente, inteso sempre anche come tempo per…, restò però, per tutte le posteriori teorie del tempo, nascosto dalla dottrina aristotelica del tempo in quanto susseguirsi della sequenza di ora. È chiaro che qui c’è una questione importante perché, ponendo la questione del tempo così come la sta ponendo Heidegger, e cioè come qualcosa che non appartiene alla volontà del soggetto, sembrerebbe quasi porlo fuori dall’uomo, come se il tempo esistesse senza l’uomo, il che però non è. In effetti, Heidegger sta continuando a dire e a insistere su ciò che già insisteva in Essere e tempo dove già allora si poneva la questione dell’essere, nel suo testo originario la “e”  era la e di congiunzione, però si potrebbe dire che l’essere “è” tempo, cioè l’essere è il trovarsi presi in un “tempo per”. Adesso la dico in modo un po’ rozzo, c’è prima il progetto, c’è prima l’essere gettati in questo continuo progettarsi, e poi c’è il tempo, il tempo non è altro che questo “per” del progetto, datato perché è sempre riferito comunque a qualcosa che si riferisce immancabilmente all’essere, cioè, torno a dire, al progetto. L’uomo è essere in quanto progetto, c’è sempre questa posizione ferma di Heidegger per cui si tratta sempre e comunque nell’uomo di trovarsi preso nell’essere un “progetto per”, perché l’essere, il Dasein, l’esser-ci qui in questo momento, ma sono qui in questo momento, con tutta la mia storia, in quanto to progettando qualcosa, sto per fare qualcosa o dovrà accadere qualcosa. Ma questi sono i modi in cui si determina, si caratterizza, si configura il progetto di volta in volta. Ponendo in prima istanza il progetto, Dasein, l’esser-ci, Heidegger dice che non è tanto l’uomo che decide per sé quello che vuole o che non vuole fare, questo rientra ancora abbastanza nella chiacchiera, perché l’uomo, secondo Heidegger, deve perseguire il progetto autentico, ma qual è il progetto autentico? Quello che va verso l’apertura, quello che va verso il disvelarsi delle cose, quello che continua a domandare, questo è l’unico progetto autentico, tutti gli altri progetti, per es. domani voglio andare a fare una certa cosa, ecco, questi rientrano nella chiacchiera, rientrano nei progetti del “si dice”, del “si fa”, ecc. Per lui il progetto autentico dell’uomo, quello che dovrebbe costituirlo in quanto tale, è il domandarsi continuamente, diciamo così, intorno all’apertura, cioè il volgersi verso ciò che sempre si apre e ciò che si apre è qualche cos che riguarda strettamente il progetto, perché il progetto è verso qualche cosa e per qualche cosa, questo qualche cosa di cui è “per” è un’apertura. Prosegue a pag. 83 dicendo: La dottoressa B. domandava: “possiamo “avere tempo” solo proprio perché noi, in quanto uomini, siamo nel tempo?”. In altri termini: è dunque il nostro “essere nel tempo” che fonda il nostro avere-tempo? Cioè, uno può avere tempo perché è già nel tempo. Ma che cosa significa: essere nel tempo? Questo “essere nel tempo” è per noi qualcosa di del tutto familiare a partire dal modo di rappresentare scientifico-naturale. Cioè, il tempo come elemento naturale. Nelle scienze della natura, tutti i processi  della natura vengono calcolati in quanto processi procedenti “nel tempo”. È questo che consente di calcolare le cose, c’è l’uno, poi c’è il due e dopo il tre. Soltanto, anche il rappresentare quotidiano trova già accadimenti e cose che durano “nel tempo”, che sussistono “nel tempo”. Quando parliamo di un “essere nel tempo”, tutto dipende però dall’interpretazione del “nel”. Per vedere qui più chiaramente, domandiamo semplicemente: “il bicchiere davanti a me sul tavolo e nel tempo o no?”. Il bicchiere è in ogni caso già semplicemente-presente e resta semplicemente-presente anche se non lo guardo. È qui indifferente da quanto tempo esso già vi sia e se permanga ancora. Se, però, esso è già semplicemente-presente e permarrà in futuro semplicemente-presente, ciò significa che dura per un tempo, dunque che dura “in” esso. Manifestamente, ogni durare ha a che fare con il tempo. Domanda: con questo rinvio al durare, abbiamo già sufficientemente determinato lo “essere nel tempo” del bicchiere? Questa domanda conduce a quella non meno importante: lo “essere nel tempo” del bicchiere è identico allo “essere nel tempo” dell’uomo esistente? Qual è la questione che si sta ponendo qui? Si accorge che è necessario che qualcosa perduri, che qualcosa sussista. Ora, a questo punto, a noi interessa un aspetto particolare, e cioè che nel tempo che, come abbiamo visto, è un tempo per qualcosa e non appartiene alla volontà dell’uomo, in questo tempo qualcosa perdura, anzi, verrebbe quasi da dire che il tempo non è altro che il perdurare di qualcosa. Che cosa perdura nel tempo? Che cosa può perdurare nel tempo? L’essere per qualcosa, cioè l’essere nel progetto, perché se non perdurasse non potrebbe esserci progetto, perché nulla potrebbe perdurare per qualche cosa perché sarebbe già un’altra cosa, quindi è necessario che perduri perché possa costituirsi e mantenersi il progetto, perché possa esistere il progetto. A pag. 84. Sono state da ultimo nominate due questioni: a) la questione del rango riguardo al tempo dell’orologio e al tempo di solito a noi già dato. Il tempo dell’orologio, nella cui caratterizzazione abbiamo infine trovato il susseguirsi di una serie di ora, è il tempo più originario, o esso è una modificazione, proveniente dal tempo di solito a noi già dato, di cui abbiamo già conosciuto alcuni caratteri? Quindi, è qualcosa di originario o l’abbiamo imparato? b)l’altra questione circa lo “essere nel tempo” contiene innanzitutto una particolare difficoltà, in quanto attraverso il “nel” viene supposto che il tempo sia qualcosa come un contenitore, qualcosa di genere spaziale. Così, per esempio, Bergson dice che il tempo con cui calcoliamo sarebbe un tempo spazializzato, che questo tempo sarebbe spazio. Fino a qual punto questo sia un errore, lo dovremo ancora vedere. Presumibilmente, queste due questioni, circa il rango e circa lo “essere nel tempo”, si coappartengono. Un po’ come due facce della stessa cosa. Poco dopo sempre a pag. 85: “Io non ho tempo” è dunque una negazione, epperò non lo è. Il tempo per andare a sciare mi manca, ho sì tempo, ma non lo ho “d’avanzo per”. Di nuovo torna il “per”. Per ciò, non ho tempo a mia disposizione, in un certo modo mi è preso. Quando neghiamo qualcosa in modo tale, che non lo escludiamo semplicemente, ma, piuttosto, lo teniamo fermo proprio nel senso che ad esso manchi qualcosa, questa negazione si dice una privazione. Lui dice che non si può dire di non avere tempo perché non lo si ha propriamente, si è già da sempre nel tempo, cioè si è già da sempre presi in un qualcosa che è “per” qualche cos’altro. Il fatto notevole è che tutta la Loro professione medica si muove nell’ambito di una negazione nel senso di una privazione. Giacché Loro hanno a che fare con la malattia. A uno che viene da lui, il medico domanda: che cos’è che non va? L’esser sano, lo star bene, il sentirsi non è semplicemente svanito, è disturbato. La malattia non è la mera negazione della situazionalità psico-somatica. La malattia è un fenomeno di privazione. In ogni privazione risiede la essenziale appartenenza a ciò a cui qualcosa manca, a cui qualcosa viene meno. Questa sembra essere una ovvietà, è però enormemente importante, in quanto la Loro professione si muove in questo ambito. Nella misura in cui Loro hanno a che fare con la malattia, in verità hanno a che fare con la salute, nel senso di una salute che manchi e che deve essere di nuovo riconquistata. Il carattere della privazione viene per lo più misconosciuto anche nella scienza, come quando, per esempio, i fisici parlano della natura materiale come di una natura morta. Può esser-morto solo ciò che può morire, e può morire solo ciò che vive. La naturale materiale non è una natura morta, bensì essa è senza vita. Corrispondentemente, lo stato di quiete non è una mera negazione del movimento, bensì la sua privazione, vale a dire, una specie dell’esser mosso, altrimenti, per esempio, dallo esser in quiete non potrebbe mai scaturire un nuovo esser mosso. Il numero 5, che non può muoversi, non può neanche essere una formazione in quiete. (pagg. 85-86) Non possiamo dire che il numero 5 è in quiete o in movimento. Nel seminario del 21 gennaio 1965 uno psichiatra riporta ciò che diceva un suo paziente e dice a pag. 92: All’inizio dell’ultima parte del nostro seminario di gennaio collochiamo un testo tratto dal lavoro di Franz Fischer, Raum-Zeit-Struktur un Denkstörung in der Schizophrenie. Come dice l’autore, il testo deriva dall’anamnesi di un giovane schizofrenico, visitato e osservato nello stadio subacuto, e la cui psicosi, a parte delle turbe temporali e mentali, non avrebbe presentato particolarità essenziali. L’autore continua testualmente: “Esperienza 3. Osservando la lancetta di un orologio da parete, il paziente dichiarava quanto segue: Che cosa dovrei fare con l’orologio? Devo guardarlo sempre. Sono irresistibilmente spinto a guardare l’orologio. Quanto tempo c’è, io sono sempre di nuovo diverso. Se l’orologio alla parete non ci fosse, dovrei morire. Non sono io stesso un orologio? Ovunque in tutti i posti? Ma io non posso diversamente, si cambia troppo. Ora osservo di nuovo l’orologio, la lancetta e il quadrante e che esso cammina. Ciò si scinde come da se stesso e io vi sono presente, ma non posso cambiare niente. Sempre di nuovo mi dico che è un orologio, ma queste cose non stanno affatto bene insieme: la lancetta, quadrante e il fatto che esso cammina. C’è qui un’impressione particolare, come se esse si fossero sganciate l’una dall’altra, e invece sono insieme. C’è, però, qui ancora qualcos’altro. Sono del tutto stupito, non ho ancora mai esperito-e-vissuto qualcosa di simile. La lancetta è sempre di nuovo diversa, ora essa è qui, poi avanza in certa misura a salti e cambia direzione. È sempre di nuovo un’altra lancetta? Forse c’è qualcuno dietro alla parete, che infila dentro continuamente una nuova lancetta, ogni volta in un posto diverso. Devo pur dire che non è un orologio che funzioni, quello che salta e si trasforma. Ci si dedica all’osservazione dell’orologio e si perde il filo che conduce a se stessi – poiché io stesso sono un orologio, dappertutto in me; poiché cammina sempre così confusamente. Tutto questo sono io stesso – mi perdo, quando osservo l’orologio alla parete. È un correre via da se stessi, sono fugace e non ci sono più. So soltanto che l’orologio salta intorno con molte lancette e che non può essere ricomposto tanto bene. Ora è di nuovo abbastanza con l’orologio da parete, ma non per mia volontà, e devo di nuovo collocarmi nell’altro posto, nell’altro modo. Come ho detto: io sono l’orologio vivente, sono dappertutto un orologio – viene e va continuamente. Quando poi mi tiro fuori di nuovo, perché tutto va così confusamente, guardo allora di nuovo lì verso l’orologio da parete, esso mi può aiutare, così come l’albero davanti alla finestra. I rumori non sono tanto buoni.” Ora, come deve essere interpretato questo testo? In primo luogo notiamo che il redattore del racconto del paziente inizia con la proposizione seguente: “Osservando la lancetta di un orologio da parete, il paziente dichiarava quanto segue”. Si dovrà domandare se, in questo resoconto, si tratti anche effettivamente dello stato di cose indicato. Cioè, se le cose stanno proprio così. In secondo luogo, colpisce il fatto che il paziente non parli affatto del tempo e di un altro dato cronologico, bensì parli dell’orologio. Egli parla insieme, alternativamente, dell’”orologio da parete” e dell’”orologio”. Una volta parla dell’orologio da parete, che lo spinge irresistibilmente a guardare verso di esso. Poi è di nuovo – non per volontà sua – “abbastanza con l’orologio da parete, e devo di nuovo collocarmi nell’altro posto, nell’altro modo”, cioè dal guardare l’orologio alla parete all’osservare e rimirare un “mero” orologio, smembrato, non più ricomponibile, non più funzionante, che salta, che non è più di fronte a lui sulla parete, bensì è, per così dire, senza luogo. Qui dobbiamo ricercare la discrepanza decisiva, da cui dipende tutto. Una volta si tratta del rapporto del paziente con l’orologio da parete, la seconda volta, quando egli viene trascinato nell’altro modo, si tratta del rapporto con il mero orologio. “Mero” qui vuol dire: senza un luogo determinato, senza un ambiente circostante familiare. Alla distinzione delle due cose, l’orologio da parete e il mero orologio, corrisponde la distinzione del rapporto con l’orologio da parete e con il mero orologio. Perché questo tizio si rapporta in modo diverso, così diceva. Il rapporto con l’orologio da parete è un guardare verso di esso, (di là). Nell’uno verso l’altro di là, il paziente è portato dal familiare orologio da parete a se stesso ed è così presso se stesso. Cioè, nel primo caso questo orologio da parete lo riconosce, è familiare, quindi, lo riporta a se stesso, cioè io mi riconosco perché sono in un ambiente familiare, c’è l’orologio da parete e io sono io.  Il rapporto con il mero orologio è un osservare, un rimirare, un tendere ad esso, tale che questo osservare viene, per così dire, risucchiato dall’osservato e così l’osservatore può rinvenirsi solo ancora nell’osservato e in quanto questo, e può dire perciò: io stesso sono l’orologio (nota bene: non l’orologio da parete). Allora, finché c’è l’orologio da parete lui ha un riferimento familiare, e tutto va bene, poi però irrompe un’altra figura, il mero orologio, l’astrazione dell’orologio. Questo rapporto con il mero orologio, dice lui, è un osservare, un tendere a esso, come se questo osservare il mero orologio lo risucchiasse all’interno del mero orologio, e così l’osservatore può rinvenirsi solo ancora nell’osservato, lui diventa l’osservato dall’orologio, che lo risucchia all’interno. Difatti, lui dice: Ciò nel senso di: io stesso ho il carattere di un orologio, per questo può dire “io sono l’orologio”, è diventato l’orologio che lui guarda. Cioè, viene risucchiato da ciò che osserva, che è come dire che questo modo di osservare non è puro, non c’è il puro osservatore e l’osservato, ma c’è l’osservatore che viene risucchiato da ciò che osserva. Non è lontanissimo, anche se ovviamente in modo diverso, da ciò che Heidegger diceva rispetto all’opera d’arte: l’opera d’arte apre un qualche cosa per cui, chi osserva l’opera d’arte, è come se venisse risucchiato nel Mondo che l’opera d’arte apre in quel momento. Quindi, non è mai un osservare puro e semplice, è sempre un essere-gettati in ciò che si osserva, nel Mondo che l’opera d’arte apre, mostra, esibisce. Qui, però, egli non traspone fuori di se stesso all’orologio, nulla di psichico, nulla di “soggettivo”, nulla di interiore, bensì egli è talmente preso dall’osservato, che non ha più affatto alcuna distanza da esso, alcun viso-a-viso e perciò “perde il filo che conduce a se stesso. “Mi perdo”, vale a dire: egli perde il suo essere-se-stesso. (pag. 94) Ci sarebbero molte questioni da rilevare qui, però, intanto sta ponendo qui le basi per dire che quando io osservo qualcosa, per esempio osservo la natura, accade qualcosa del genere? Posso io osservare in modo puro, limpido, la natura per quella che essa è? Oppure, nel momento in cui io guardo qualcosa, io sono risucchiato da questo qualche cosa che osservo, per cui io, l’osservatore, e l’osservato è come se entrassero in relazione, laddove non c’è più una così netta distinzione tra l’osservato e l’osservatore. Lo stesso discorso potrebbe farsi fra soggetto e oggetto, anche se questa distinzione è stata inventata per tenere le cose ben distinte tra loro: io sono il soggetto e quello lì è l’oggetto. Intervento: … Nel racconto dello schizofrenico c’è un dettaglio importante. Dice: “io stesso ho il carattere di un orologio. Perciò egli può dire: io sono un orologio, dappertutto in me.” Quindi, io sono l’orologio, questo orologio che l’ha rapito diventa lui stesso. Certo, l’orologio ha il potere di rapirlo ma, nel momento in cui l’ha rapito, lui diventa l’orologio, è lui che ha il potere, è il modo con cui lui riacquista il suo potere: io divento questa cosa che mi ha rapito. Qui si apre uno sterminio di cose perché… pensate alla propaganda, tutto questo che sta dicendo ci aiuta a intendere meglio come funziona la propaganda, come funziona la comunicazione, perché c’è l’eventualità che ogni forma di comunicazione sia una propaganda. Ora, dicevo, questo orologio mi rapisce, (cosa fa la propaganda? Rapisce, come l’orologio), sento che l’orologio ha il potere di prendermi, perché, per esempio,  la propaganda dice delle cose a cui io credo, mi dà delle verità e ciò i conferma nel mio sapere, nel mio potere, quindi mi rapisce. Ma a questo punto sarebbe l’altro a essere quello potente e io totalmente privato del potere perché sono stato rapito, in genere una persona che è stata rapita n ha nessun potere, è in mano al rapitore, ma non è proprio così in questo caso, perché la persona che è stata rapita dalla propaganda, diventa lui stesso ciò che la propaganda dice. A questo punto, come il tizio che diventa l’orologio, ritrova il suo massimo potere. Questa cosa che è potentissima perché mi ha rapito lo divento io, io sono quella cosa lì.  Qui non ha torto Heidegger che dice: Qui, però, egli non traspone fuori di se stesso all’orologio, nulla di psichico, nulla di “soggettivo”, nulla di interiore, bensì egli è talmente preso dall’osservato, che non ha più affatto alcuna distanza da esso, alcun viso-a-viso e perciò “perde il filo che conduce a se stesso. “Mi perdo”, vale a dire: egli perde il suo essere-se-stesso. Come lo recupera? Diventando lui ciò che l’ha rapito. In effetti, che cosa c’è di psichico in tutto questo? Se noi, per esempio, riflettiamo su tutta la teoria psicoanalitica di Freud, tutto questo sfugge alla psicoanalisi perché la psicoanalisi gioca tutta intorno a identificazioni, all’inconscio. Intervento: Il tizio ha rinunciato alla sua identità per il potere. Esatto. La recupera dopo quando ha ritrovato lui stesso il potere. Poi, Heidegger prosegue: In che modo, tuttavia, gli giova il guardare l’orologio da parete, in che modo l’orologio da parete, in quanto cosa, gli offre un sostegno? Per comprendere ciò, dobbiamo ben distinguere il suo rapporto con l’orologio da parete dal suo rapporto con il mero orologio. Qui il fatto decisivo è che l’orologio da parete, proprio perché gli sta di fronte, in certo modo gli si rivolge, mentre l’orologio, in cui egli viene trascinato dentro, non è affatto più di fronte. L’orologio da parete lui lo vede, è lì, il mero orologio invece non c’è, non lo vede. Qui sta la distinzione fondamentale: infatti, uno lo vede perché gli sta di fronte, è familiare, lo riconosce, l’altro no. Il mero orologio non lascia sorgere più alcun rapporto con lui stesso. Egli è talmente dissolto nel mero orologio, che può dire di essere egli stesso un orologio. Poi, però, egli deve tentare di nuovo la liberazione nel viso-a-viso all’orologio da parete. Lui vede l’orologio da parete e sta tranquillo, poi compare il mero orologio, l’idea dell’orologio, la “orologità”, direbbe Platone. In questo attimo, in cui egli sta di nuovo di fronte ad una cosa e può mantenersi nello stare di fronte, ha un mondo. Il suo mondo, dove c’è l’orologio da parete, dove tutto è riconoscibile, familiare. Quando, però, è poi abbastanza con lo stare di fronte, egli è allora di nuovo in balia dell’orologio osservato, vale a dire, strappato dal mondo, spinto via. Ciò che è familiare in qualche modo rassicura, però, interviene un qualcos’altro, la sua idea di questo orologio che, ovviamente, è sempre un orologio. È come se avvertisse, questo non lo dice Heidegger, nell’orologio che ha di fronte anche un qualche cosa che non è affatto familiare, che non riconosce più. È ciò che Freud diceva rispetto all’Unheimliche, c’è qualche cosa di assolutamente familiare che a un certo punto, non si sa bene come, diventa qualche cosa di assolutamente infamiliare, indomestico e ingestibile. Corrispondentemente, anche “l’albero davanti alla finestra” è per lui un mondo-ambiente, che gli permette di abitare, che può offrirgli un soggiorno abituale, naturale. “I rumori non sono tanto buoni”. Per che cosa non sono tanto buoni? Come aiuto. Vale a dire: un uomo non può esistere con dei meri rumori, che non rimandano a nulla, tanto poco quanto con il tempo come mera serie di ora. (pag. 95) Questo è eccezionale, perché ci sta dicendo che questi rumori, che non sono tanto buoni, e perché non sono buoni? Perché sono rumori, non rinviano a niente. Lui dice un uomo non può esistere con dei meri rumori, questo vale anche come metafora, non può esistere in mezzo a rumori che non rimandano a nulla, tanto poco quanto con il tempo come mera serie di ora, come pura astrazione. L’uomo esiste in quanto preso nel Mondo, nel progetto in cui esiste e per cui esiste; fuori da questo Mondo, in mezzo ai rumori che non rinviano a niente, non può vivere, non esiste, perché non c’è nessun rinvio, cioè, non c’è nessun segno, non c’è nessun significato. Senza significato l’uomo non può esistere, alla fine è questo che sta dicendo. Prosegue Occorre una riflessione critica sui concetti e le rappresentazioni guida, con cui l’interprete lavora. L’interprete è qui lo psichiatra. L’arte dell’interpretazione è l’arte del corretto domandare. Che lo pone in una posizione differente da come comunemente si intende la interpretazione, come il dare a una certa cosa un certo significato all’interno di un certo ambito stabilito. No, lui dice che l’interpretazione è il corretto domandare. Nel caso in discussione non si tratta né del tempo, né della struttura temporale, bensì del diverso rapportarsi all’orologio da parete e al mero orologio, che entrambi non sono affatto intesi come misuratori di tempo. Cioè, non sono orologi, sono un’altra cosa. Heidegger riusciva a porre le questioni appunto come domande, quindi aprendo orizzonti totalmente differenti da quelli soliti a cui si è abituati dalla teoria psicoanalitica che, essendo monolitica e unilaterale, manda sempre nella stessa direzione, tutto quello che accade va in quella direzione. Lui dice un “un diverso rapportarsi”, sta tutto lì, un rapportarsi in modo diverso. In una interpretazione, innanzitutto non si tratta propriamente affatto di come qualcosa debba essere spiegato, bensì della visione del dato di fatto fenomenologico. Cioè, del tenere conto di ciò che si manifesta, di ciò che appare, senza spiegarlo ma ponendolo come problema, come domanda, interrogazione. Qui abbiamo scoperto anche che l’intero testo, che abbiamo letto, non ha immediatamente proprio niente a che fare con il problema del tempo. Tuttavia, la dilucidazione del testo era solo un rozzo tentativo di mostrare come si debba impostare una interpretazione: non mirando ad un supposto “Erlebnis interiore…  l’Erlebnis è l’evento, l’accadimento … bensì domandando come sia determinato il rapporto alla cosa, come la cosa autentica sia un rimando al mondo. In che modo qui il problema del tempo entri pure in gioco, non è ancora visibile sul fondamento di ciò che è stato detto. Nell’interpretazione di questo testo era essenziale, anzitutto, solo la scoperta che non si tra di due diversi orologi, bensì del medesimo orologio da parete, che è dato a lui, al paziente, una volta in quanto orologio da parete, e l’altra volta solo ancora in quanto mero orologio che lo ammalia e consuma. Solo laddove c’è un che di medesimo, qualcosa, in diverso modo “scisso”, può concernere l’uomo. Qui è di grande interesse perché coinvolge la questione della differenza, di cui anche la semiotica si è peraltro occupata. Solo laddove c’è un che di medesimo, qualcosa, in diverso modo “scisso”, può concernere l’uomo. La pura differenza no, non può concernere l’uomo, perché la pura differenza, assoluta, differenza originaria, non è qualcosa che lo concerne, che lo riguarda, è un puro concetto vuoto, che non significa niente, che non può significare niente, perché, lui lo ha appena detto, occorre qualcosa che sia lo stesso per potere pensare che sia scindibile in vari aspetti, come ad esempio l’orologio da parete e il mero orologio o qualunque altra cosa. Occorre che qualcosa sia lo stesso per potere essere diviso o manipolato, in qualunque modo a ciascuno appaia più opportuno, ma se non c’è qualcosa che appare come lo stesso, qualcosa dunque che si disvela, l’aletheia, se non c’è l’aletheia non c’è nessuna possibilità che non solo qualcosa sia scisso ma che possa concernere l’uomo, e ciò che concerne l’uomo è ciò che gli appare. Da qui la fenomenologia, il fenomeno, ciò che si mostra, ciò che appare, ciò che si disvela, ciò che esce dal nascosto e mi appare, come mi appare? Mi appare attraverso il dire, il legein, il dire che raccoglie, che mette insieme e che può mostrare ciò che sta apparendo, e se non ci fosse il logos andremmo malissimo. Il “medesimo” è ciò che vede, ciò che gli appare, l’orologio da parete. Se non ci fosse stato nessun orologio da parete, tutto ciò non sarebbe mai esistito. Subito dopo dice Arrivammo a dire: questo bicchiere è nel tempo, in quanto esso dura. Che cosa vuol dire “dura”? che mi si mostra per quello che è, mi si mostra in quanto stesso, è per questo che posso vederlo, che c’è, e posso dire che è nel tempo ma per la sua durata, per il rimanere quello che è. La differenza assoluta dice che una cosa non rimane quella che è e quindi non appartiene all’uomo, semplicemente. Questa è la conclusione inevitabile. Intervento: quando si dice le cose ci sarebbero lo stesso anche senza il linguaggio…  Qual è l’obiezione? Che senza la parola non ci sarebbe quel mondo all’interno del quale la cosa è quella che è. Quella stessa affermazione che dice che le cose esisterebbe lo stesso è già essa stessa inserita all’interno di un progetto, di un sistema di pensiero che consente di dire questo, che consente di pensarlo, altrimenti non esisterebbe. E quindi anche il bicchiere che esiste nel tempo, che dura nel tempo, significa che dura nel tempo per qualcosa. Se non ci fosse questo “per qualcosa” non ci sarebbe neanche il bicchiere, non avremmo nessun motivo per percepire il bicchiere. Certo, non è semplice pensare queste cose, però, pongono delle obiezioni a un modo di pensare comune, che è anche quello della psicoanalisi, rispetto al fatto che le cose siano di per sé.