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7 ottobre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Capitolo XI. Causalità, meccanismo e contingenza. Attraverso la dottrina del tempo e dello spazio siamo ritornati da capo al nostro concetto dell’unità infinita e immoltiplicabile dello spirito. Il positivo dell’individuo si pone bensì nella molteplicità spaziale, che è anche temporale; ma senza spezzare mai l’unità dello spirito, né poterla mai trascendere. Così dal seno dello spazio abbiamo veduto risorgere lo spirito infinito, e dal seno del tempo lo spirito immortale. C’è qualcosa che è impossibile trascendere: è il linguaggio, ovviamente; non c’è la possibilità di uscirne. Si fa poi un’obiezione e dice: E sia, si potrà tuttavia opporre: avete detto che il passato del tempo e la natura spaziale sono annullati nell’unità dell’atto spirituale; ma avete pur detto che il passato confluisce nel presente. Questo adunque è condizionato dal passato, senza il quale pertanto non potrà concepirsi. Questo gli fornisce l’occasione per incominciare una riflessione intorno alla condizione. Paragrafo 2. Condizione necessaria, e condizione necessaria e sufficiente. La condizione si può intendere in due modi assai diversi: e cioè, come semplicemente necessaria, o come necessaria e sufficiente. La condizione necessaria di un reale (metafisicamente ed empiricamente considerato) è un altro reale, la cui realizzazione rende possibile la realizzazione del primo. La condizione necessaria e sufficiente è un altro reale, la cui realizzazione rende necessaria e immancabile la realizzazione del primo. Nel primo caso il condizionato non si può pensare, senza pensare insieme la sua condizione, ma la condizione si può pensare senza il condizionato; nel secondo caso c’è una relazione assoluta tra condizione e condizionato, e nessuno dei due si può pensare senza l’altro. È la questione che la logica ha da sempre affrontato, e cioè nel condizionale “se a allora b” la b nell’implicazione necessita per essere della a, ma la a non necessita della b; mentre quello che lui intende con condizione necessaria e sufficiente darebbe la doppia implicazione, e cioè “a se e soltanto se b”. La questione della necessità è interessante perché è intesa, sì, come ciò che non può non essere, ma come ciò che non può non essere perché se non fosse allora non sarebbe né questa né nessun’altra cosa. Questa è la definizione di necessità che potremmo dire definitiva, perché è la definizione del linguaggio. È il linguaggio a essere necessario e senza il quale non c’è nessun’altra cosa: tolto il linguaggio, anche tutte queste considerazioni scompaiono. Ed è l’unica cosa che si pone come una sorta di giudizio analitico, non nell’accezione kantiana – per Kant sarebbe una sintesi a priori –, ma analitico logicamente in quanto riguarda la logica formale, e cioè pone un giudizio A=A, il linguaggio = linguaggio: il linguaggio è la condizione, il linguaggio è anche il condizionato, nel senso che è anche ciò che produce, sono la stessa cosa. Ora, Gentile fa qualche considerazione intorno a questa questione. Paragrafo 4. Unità metafisica di causa ed effetto. Ma il carattere propriamente metafisico di una siffatta causalità giace più in fondo, in un principio, del quale la necessità del rapporto tra causa ed effetto è conseguenza, e che è atto a spiegare ben chiaramente perché il prevalere dell’empirismo per opera di Locke e di Hume, e il suo insinuarsi nella metafisica per opera di Geulincx, Malebranche e dello stesso Leibniz, abbia condotto nella filosofia moderna al superamento del concetto di causalità metafisica. La metafisica è concezione dell’unità giacente in fondo alla molteplicità dell’esperienza (quando, beninteso, questa esperienza sia pensata). Metafisica è l’acqua di Talete, in quanto ha in sé la possibilità di tutte le forme più disparate offerte dalla natura all’osservazione sensibile, e ne è il principio; metafisico è l’essere di Parmenide, come quella unità, alla quale il pensiero riduce tutte le cose, volendole pensare; metafisica è l’idea di Platone, in quanto aduna in sé l’essere disperso e fluente nei molti e fuggevoli oggetti dello spazio e del tempo. L’empirismo è quella intuizione del reale che è orientata verso la molteplicità; la metafisica, invece, è l’intuizione del reale orientata verso l’unità. La causalità, rapporto necessario tra due termini del pensiero, dal punto di vista metafisico dev’essere concepita alla luce dell’unità, ossia mediante un’unità che stia alla base della dualità. E la necessità reciproca di concepire l’un termine insieme con l’altro, sì che la realizzazione dell’effetto si presenti come conseguenza necessaria del realizzarsi della causa, come altrimenti si potrebbe concepire se la dualità dei due termini non si risolvesse in un’unità fondamentale? L’empirismo pone la questione in modo differente. Come diceva prima, non riconduce all’unità, ma insiste sul molteplice. Paragrafo 6. Causalità empirica e scetticismo. Ordinariamente si contrappone la causa empirica alla metafisica per questa differenza: che la metafisica è causa efficiente, laddove l’empirica è semplice successione dell’effetto alla causa. Ma l’efficienza della causa è una idea oscura, la quale, ben rischiarata, si dimostra l’unità o identità della causa con l’effetto; perché efficiente è quella causa che si concepisce come condizione necessaria e sufficiente, ossia un reale la cui realizzazione è realizzazione del reale di cui esso è condizione. Poco più avanti. L’efficienza è una deduzione logica che suppone l’identità; e non aggiunge nulla all’identico. E l’empirismo, squarciando la rete di concetti che l’intelletto metafisico intesse intorno a se medesimo e volendo irrompere nella stessa realtà immediata, non può incontrarvi se non assoluta molteplicità: e se alla relazione logica della necessità sostituisce la relazione cronologica della successione di antecedente e conseguente, può farlo soltanto perché non ha coscienza dell’unità che permane tuttavia nella semplice relazione di tempo implicante un’elaborazione soggettiva del presupposto materiale sensibile. Sta dicendo che l’empirismo, che vuole togliere di mezzo la causa efficiente della metafisica, si ritrova comunque di nuovo a reinserirlo perché immagina, ponendo due elementi temporalmente separati, che ci sia una successione, una consequenzialità temporale. Che se raggiungesse questa coscienza nella pura molteplicità, il vincolo causale si spezzerebbe,… Perché a questo punto non c’è neppure la successione cronologica. …e l’empirismo smarrirebbe ogni criterio e mezzo di intelligibilità del reale. Ma quello rimane, nella inconsapevolezza della soggettività del tempo, l’estremo limite al quale si possa spingere la concezione empiristica del rapporto di condizione e condizionato, e l’ultimo punto di appoggio sul quale la negazione dell’unità possa tuttavia reggersi. Se fosse totalmente coerente, ci sta dicendo, dovrebbe anche togliere anche questa connessione temporale, perché è pur sempre una connessione; ma se lo facesse, dice Gentile, perderebbe ogni possibilità di comprendere alcunché. Paragrafo 10. Assurdo della causalità metafisica. Ma, esclusa la possibilità di fermarsi a un punto intermedio tra la metafisica della causalità efficiente e l’empirismo della causalità intesa come semplice concomitanza contingente, è forse possibile arrestarsi al concetto di causalità metafisica, o al suo estremo opposto della causalità empirica? Che il concetto di causalità metafisica, come condizione necessaria e sufficiente, sia assurdo, è ovvio. Il concetto di condizione infatti importa la dualità della condizione e del condizionato, cioè la possibilità di concepire ciascuno dei due termini senza l’altro: possibilità negata dall’apriorità metafisica del rapporto causale, che importa unità e identità dei due termini. Parlare quindi di causalità nel senso metafisico è dire, quando ci si voglia render esatto conto di quel che si dice, cosa priva di senso. La metafisica vuole ricondurre all’uno, ma non può farlo perché rimane sempre una dualità tra condizione e condizionato, che sono diversi. Vi ricordate Hegel: se volessi togliere la condizione dal condizionato, questo non sarebbe più un condizionato, perché non c’è nulla che lo condizioni; dall’altra parte, se togliessi alla condizione il condizionato, non sarebbe più condizione di niente, sarebbe nulla. Ecco, quindi, che questa dualità inesorabilmente persiste, permane, non può togliersi, per cui non c’è più quella unità che la metafisica della causa efficiente vuole raggiungere. A proposito della contingenza… Ricordate i tre modi della modalità aristotelica: necessario, impossibile, contingente. Necessario è ciò che non cessa di accadere; impossibile è ciò che non cessa di non accadere; contingente è ciò che cessa di non accadere. Paragrafo 15. Il principio della filosofia della contingenza. Cita Boutroux. “A qual segno si riconosce che una cosa è necessaria? Quale il criterio di necessità? Se ci si prova a definire il concetto di necessità assoluta, s’è condotti ad escluderne ogni relazione che subordini l’esistenza d’una cosa a quella di un’altra, come a sua condizione. La definizione che vi ho fornito prima di necessario, come ciò che non può non essere perché se non fosse non sarebbe né quella né nessun’altra cosa, in effetti, va oltre questo problema, perché ciò che pone come necessario è appunto la relazione. È la relazione che è necessaria, e il linguaggio non è altro che relazione. Il tipo più perfetto della connessione necessaria è il sillogismo, nel quale si dimostra che una proposizione particolare deriva da una proposizione generale, perché vi è contenuta, cosicché essa era implicitamente affermata nel momento in cui si affermava l proposizione generale stessa. Il sillogismo, insomma, non è altro che la dimostrazione d’una relazione analitica esistete tra il genere e la specie, il tutto e la parte. Sicché dov’è relazione analitica, è connessione necessaria. Ma questa connessione necessaria, in sé, è puramente formale. Ora, sappiamo, dopo Hegel e anche dopo Mendelson, che questa connessione, sì, la poniamo come necessaria, ma non possiamo dimostrarlo. Se la proposizione generale è contingente, la proposizione particolare che se ne deduce, almeno come tale, è ugualmente e necessariamente contingente. Per mezzo del sillogismo non si può giungere alla dimostrazione di una necessità reale se non nel caso che si rannodi tutte le conclusioni a una maggiore necessaria in sé. Questa operazione è compatibile con le condizioni dell’analisi? – Dal punto di vista analitico, la sola proposizione interamente necessaria in sé è quella che ha per formula A=A. Ogni proposizione nella quale l’attributo differisca dal soggetto, come accade quand’anche uno dei due termini risulti dalla scomposizione dell’altro, lascia sussistere un rapporto sintetico come il rovescio del rapporto analitico. Può il sillogismo ridurre e proposizioni sinteticamente analitiche a proposizioni puramente analitiche?”. Parrebbe di no. Paragrafo 16. Contingenza o necessità? A cominciare dall’essere, nella sua massima universalità e astrattezza, si può dire che esso sia necessario? Si può dedurre analiticamente l’esistenza dell’essere dalla sua possibilità, così come dalle premesse di un sillogismo si deduce la conclusione? “Senza dubbio, in un senso, nell’essere non c’è niente di più che nel possibile, poiché tutto quello che è, prima di essere era possibile. Il possibile è la materia di cui l’essere s’è fatto. Se non che l’essere, ridotto così al possibile, rimane puramente ideale: e per ottenere l’essere reale, è forza ammettere un elemento nuovo. In se stessi, infatti, tutti i possibili pretendono ugualmente all’essere, e non c’è ragione, in questo senso, perché un possibile si realizzi a preferenza degli altri. Nessun fatto è possibile senza che sia possibile del pari il suo contrario. Se dunque il possibile resta abbandonato a se stesso, tutto ondeggerà in eterno tra l’essere e il non essere, nulla passerà dalla potenza all’atto. Così, lungi dall’essere contenuto nel possibile, l’essere contiene il possibile e qualche cosa di più: la realizzazione d’un contrario a preferenza dell’altro, l’atto propriamente detto. L’essere è la sintesi di questi due elementi, e questa sintesi è irriducibile”. Ed ecco la contingenza dell’essere. Contingente l’essere, contingente radicalmente tutto ciò che è, in quanto è essere. E se dall’astrattezza dell’essere si viene a grado a grado salendo alla maggiore concretezza della realtà offertaci dall’esperienza, vediamo sempre più restringersi il campo del necessario, allargarsi quello del contingente, e farsi quindi strada sempre più quella libertà, che nella concezione meccanica e matematica del mondo è assurda. Porre l’essere come contingente comincia a dirci una cosa importante per Gentile e anche per noi, vale a dire, l’essere non è necessario che sia, non preesista l’atto ma esiste nell’atto, esiste in atto. È lì, nell’atto, che c’è l’essere, non c’è né prima né dopo. Se lo presuppongo allora mi trovo nella condizione, dice Gentile, di pensare all’essere come possibile, come possibile che sia, perché non è ancora in atto e, quindi, è possibile. Perché si realizzi occorre l’atto. Paragrafo 18. Antitesi tra contingenza e libertà. L’essere, p. es., non è derivabile dal possibile. E sta bene: ma perché? Perché l’essere è essere, e il possibile è semplicemente possibile, scevro di quella realizzazione di sé, che è pure l’esclusione del suo contrario. Ma se, dietro all’essere realizzato che non è il possibile, noi non sappiamo pensare altro che questo possibile, toto caelo diverso, è chiaro che l’essere è pensabile solo in quanto si pensa come immediato: non realizzantesi, ma realtà già posta. La quale è talmente identica con se stessa (immutabile) che neppure può dirsi identica con se stessa: poiché anche l’identità è relazione (di sé con se stesso); e con un termine solo, che non ne abbia un altro di fronte, che sia magari esso stesso, ma sdoppiatosi e postosi contro si sé (che è appunto la relazione spirituale, base di ogni altra relazione), non c’è possibilità di relazione. Come dire che in ogni caso l’essere non è derivabile dal possibile. L’essere, dice, non è derivabile ma accade in atto, accade soltanto nell’atto, potremmo aggiungere nell’atto di parola. Solo a questa condizione, che accada nell’atto di parola, possiamo parlare di essere, sennò non ha alcun senso. Capitolo XII. Paragrafo 2. Il contingente come fatto necessario. Il reale, antecedente della stessa immediata esperienza, è il fatto, che l’empirismo fa conto di non trascendere. Il quale fatto, nella sua assoluta, insuperabile posizione, è quella necessità assoluta,… Qui considera l’altro aspetto, il fatto come semplice necessario: se è fatto è fatto. …che il contingentista crede di metter subito da parte movendo dallo stesso punto di vista della scienza: laddove esso rimane, si può dire, il suo postulato fondamentale. O che la natura, questo mondo dell’esperienza, si prenda nel suo complesso, o che si prenda in ciascuno dei suoi elementi, essa è un fatto: il quale, già effettuato, è legato alla ferrea legge del passato, che infectum fieri nequit… Cioè: il passato non si può modificare. Il fatto è appunto quell’assoluta identità dell’essere con se stesso, che esclude dall’essere anche la possibilità di riflettersi su se medesimo e affermare la propria identità. Identità naturale, bruta. Questo sarebbe il fatto. Adesso vediamo che cosa ha da dire sul fatto, perché posta così il fatto parrebbe essere quella assoluta necessità, di cui parlava prima. Paragrafo 4. Legge e uniformità naturale. …Galileo, uno dei più chiaroveggenti osservatori de’ fondamenti logici della scienza empirica, soleva dire la natura “inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini; per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposte”. Fermissima credenza, la quale per altro non gl’impediva di combattere la pretesa immutabilità della sostanza celeste, che gli aristotelici sottraevano alla continua vicenda di generazione e corruzione propria delle cose naturali, oggetto della nostra esperienza sulla terra. Galileo considerava il fatto una cosa immobile, immutabile, eterna, ma questo non gli ha impedito, invece, di mettere in discussione i cieli di Aristotele, che li considerava immobili ed eterni, immutabili. Immutabilità, dunque, e mutamento continuo, senza che l’una cosa contraddica all’altra. La Legge naturale non è la negazione del mutamento – come pensò Platone e quindi Aristotele con la immutabilità conseguente de’ suoi cieli, dalle cui forme (idee, leggi) doveva venir norma alla natura terrena ma la negazione della mutabilità di questo mutamento. Il quale è un fatto; e se è fatto, è immutabile. È fatto, poiché noi ci proponiamo di conoscerlo; e quindi esso c’è già, ed è nulla curate, come dice Galileo, che alla nostra capacità sieno esposte le sue ragioni e i modi ond’esso è accaduto. Esso, cioè, è posto innanzi a noi, e non da noi, e quindi è indipendente da noi. Paragrafo 5. Il passato come futuro. Or, la distinzione tra i due momenti del passato e del futuro, per cui si parla di “prevedere”, non importa già un prevedere che si aggiunga al semplice conoscere, come atto diverso da questo. Si prevede in quanto si conosce, perché il futuro è presente nello stesso passato del fatto, quale sta innanzi a noi, come fatto compiuto. E però immutabile, vale a dire tale che il pensiero non possa pensarlo come non ancora compiuto e in via di compiersi (ché allora non sarebbe un factum, ma un fieri). Il futuro insomma si prevede sì, ma in quanto nell’oggetto, quale noi empiricamente lo concepiamo, esso è, non già come quel che è già (il passato). Stupenda perciò di verità l’immagine del Manzoni… Questa è una figura retorica, nota come enallage. Se voi andate a vedere i vari manuali di retorica, troverete sempre la stessa citazione di Carducci: “il divino del pian silenzio verde”. È una metatassi, cioè uno spostamento della disposizione, per cui un oggetto, il verde nel il divino del pian silenzio verde, viene messo dopo il silenzio anziché essere posto a fianco del piano; il piano è sì verde, lo può essere, ma il silenzio sicuramente no. L’immagine del Manzoni: E dagli anni ancor non nati Daniel si ricordò. Tipico il caso della previsione astronomica, che non è altro che il risultato di un calcolo matematico su dati già posti. Il calcolo è, per l’astronomo, la conoscenza affatto obbiettiva di situazioni, distanze, masse, velocità già date: sicché quel che apparisce previsione, non è se non proiezione nel futuro di ciò che è antecedente piuttosto all’operazione del prevedere: proiezioni, il cui significato logico si riduce al concetto dell’immutabilità del fatto in quanto tale, e che annulla quindi il futuro nell’atto stesso in cui lo pone. Il movimento della cometa, che sarà a una certa ora avvenire in un punto del cielo, è mutamento continuo; ma è immutabile il fatto del suo mutarsi: e in quanto immutabile, il movimento si definisce, e la previsione ha luogo. La previsione (questa previsione… del passato) sarebbe impossibile, se nello stesso movimento si potesse ammettere una variazione non rientrante nel quadro delle proprietà onde questo movimento si considera già determinato. E allora il movimento non sarebbe più determinato, com’è per ipotesi nella posizione dell’empirista, che l’apprende come un fatto. Sta mettendo in discussione proprio la possibilità stessa di prevedere alcunché, perché il fatto si può prevedere attraverso i fatti, come se il fatto fosse fuori dell’atto; come se nel fatto si trattasse di un qualche cosa su cui non è più possibile legiferare. Qui ci sarebbe da fare una interessante connessione con Severino rispetto a ciò che dice degli eterni. Paragrafo 7. Il fatto negazione della libertà. Per distruggere e superare questo attributo del fatto, bisognerebbe dunque non appellarsi alla novità dei fatti, come fa il contingentista, ma criticare la stessa categoria del fatto, mostrandone l’astrattezza, e come essa si risolva in una categoria ben più fondamentale, in quella cioè dell’atto spirituale che pone il fatto. Paragrafo 15. L’astratto incondizionato. In realtà, l’unità astratta, a cui mettono capo tanto la metafisica quanto l’empirismo, assorbendo la realtà condizionata nella condizione, o questa in quella, è quel che dicesi incondizionato, non nel senso di libero, bensì in quello di necessario: quel necessario che il contingentismo teme e in cui esso precipita. Ora cotesto incondizionato non si può affermarlo senza negarlo, secondo il nostro consueto rinvio dal pensiero astratto al concreto. Questa è l’obiezione più forte alla questione del fatto, appunto, come incondizionato, come ciò che necessariamente è. Giacché, in quanto si pensa, l’incondizionato va pensato, non come puramente pensabile, ma come appunto pensato: ossia come quello che si pone nel pensiero. Incondizionato sì, dunque, ma, in quanto tale, pensiero, o nel pensiero, che ne è perciò la condizione. In altri termini, incondizionato pel pensiero che astrae da sé, e pensa il suo oggetto senza pensare a è, a cui l’oggetto inerisce: condizionato, in quanto l’oggetto così incondizionato è pensato nella sua immanenza al soggetto, e questo è consapevole della propria attività positiva di quell’incondizionato. Insomma, l’oggetto è condizionato dal soggetto, anche se l’oggetto, come puro oggetto astratto, sia incondizionato. È chiaro che per Gentile la questione centrale è sempre questa: qualunque cosa io ponga, compresa qualunque certezza assoluta, incrollabile, immutabile, ecc., la pongo nell’atto di pensarla. Cioè: l’esistenza di questa cosa che io pongo come assoluta, incrollabile, ecc., ha sempre e comunque come condizione il pensiero che la pensa; quindi, non è mai incondizionata. Potremmo dire che è sempre e comunque condizionata dall’atto di parola, da quell’atto che la dice, che la pone dicendola. Paragrafo 16. Il vero incondizionato. Il rapporto poi del soggetto con l’oggetto è quel rapporto di condizionalità, che solo è dato effettivamente di concepire, importando esso l’unità e la dualità insieme, e non obbligando perciò il pensiero né a fermarsi nell’unità che è assurda, né a finire nell’astratta dualità, egualmente assurda perché riproduce in ogni suo elemento la posizione stessa dell’unità. Esso è, evidentemente, il rapporto della sintesi a priori propria dell’atto del pensiero, che si realizza nell’opposizione del soggetto e dell’oggetto, di sé e d’altro da sé. Qui è pienamente hegeliano. Paragrafo 17. Aporie della metafisica e dell’empirismo. L’ignoranza di tale rapporto ci spiega l’origine di tutte le difficoltà già illustrate della metafisica e dell’empirismo. Il condizionato della metafisica infatti, pensato rigorosamente, deve fondersi con la sua condizione, poiché la condizione non è condizione vera e propria, ma è essa stessa il condizionato. Aristotele con celebre argomento dell’assurdità del processo all’infinito credette appunto di potere fare Dio motore immobile, condizione incondizionata o causa prima; ma il suo Dio non può spiegare il mondo come altro da sé;… Questo è il problema di Aristotele: Dio dovrebbe spiegare il mondo come qualcosa che è altro da lui; se è altro da lui non è più in lui, con tutti i problemi che questo comporta. …e da Aristotele perciò si dovrà necessariamente venire a Plotino. Dio come motore non è altro che il movimento che si trattava di spiegare; è la forma stessa, la cui realtà la filosofia indaga nella natura, e così trova già realizzata prima della natura. E insomma la stessa natura, pensata ed ipostatizzata di qua dalla natura immediata: cioè l’opposto del pensiero. Opposto, che è un puro fatto, sempre, in quanto non si coglie nel suo farsi, nel processo del pensiero. Questo è il passaggio dal fatto al farsi. Per Gentile il fatto è sempre e comunque un farsi in quanto posto dal pensiero, cioè dal linguaggio: è una cosa che è sempre in fieri, non è mai fatto, si sta sempre facendo; si fa mentre lo penso, mentre lo dico. È un po’ come il passato: il passato, sì, certo, lo evoco, ma che cosa evoco esattamente? Sto evocando un qualche cosa che si sta facendo, costruendo in questo momento. E qui occorrerebbe inserire un elemento importante: perché ricordo il passato? A che scopo? Cosa direbbe Nietzsche? Per la volontà di potenza. Il passato, quella cosa che chiamiamo passato, è uno degli strumenti della volontà di potenza: il controllo, il dominio. La condizione della metafisica non può spiegare a sua efficienza e produttività, poiché non essa è produttiva, ma è piuttosto un semplice prodotto del pensiero: è un pensiero che suppone l’attività del pensiero che lo realizzi. E l’empirista Hume ha ragione di contro alla metafisica, perché intende profondamente il punto di vista della metafisica. Il quale oppone egli medesimo la causa (la sola vera causa, che è Dio, così per gli Scolastici come per i Cartesiani) al pensiero che la pensa come causa: e, data l’opposizione, non è possibile che il pensiero penetri nell’operare della causa, come dovrebbe, per intenderlo e quindi scorgere la necessità del rapporto onde la causa si connette con l’effetto. … L’empirista, d’altra parte, per serbare alla sua causalità un minimo di valore logico… Lo abbiamo visto, sono come delle monadi, degli elementi separati, irrelati apparentemente tra loro, ma connessi tuttavia da una relazione temporale, perché, diceva giustamente Gentile, se leviamo anche questa… non facciamo più niente. Non potendo altro, crede lecito anche all’empirismo mantenere il vincolo cronologico della successione, che accenna a una certa sintesi, e quindi a un principio di unificazione, accusante l’opera del soggetto. E né anch’egli quindi realizza il suo concetto della pura condizionalità di fatto; e non è possibile che vi riesca, perché anch’egli, come il metafisico, pone tanto il condizionato quanto la condizione di contro al pensiero… Come fossero elementi fuori della parola, fuori del linguaggio. …là dove non è concepibile quell’unità del molteplice, che occorre a lui per la semplice connessione temporale, come al metafisico per l’efficienza. Paragrafo 18. Dialettica della condizione e del condizionato. La sintesi a priori della condizione e del condizionato è dialettica: ed è ovvio per noi che una dialettica fuori del pensiero sia inconcepibile. Si guardi invece nella dialettica del pensiero; e il pensamento della causalità metafisica, come d’ogni altra forma del concetto della condizionalità, si sottrarrà a tutte le difficoltà che abbiamo indicate. Appena si pongono come processo dialettico, cioè come atto. Giacché la difficoltà fondamentale della metafisica consiste nell’intendere in che modo l’uno generi l’altro, e l’identico il diverso. In fondo, è il problema posto da sempre, da Parmenide in poi, quello dell’uno e dei molti: come dall’uno, dall’essere, si producono i molti? E, infatti, per Parmenide non si produce niente. Ma quando la metafisica intenda per Uno l’Io, questo lo troverà appunto autogeneticamente principio dell’altro, del diverso da sé. Come lo produce? Lo abbiamo visto in varie occasioni: lo produce semplicemente quando qualcosa si pone; per il solo essere posto questo qualche cosa comporta l’altro da sé, altro da sé che non è sé. Ma questo altro da sé, che non è sé, c’è nel momento in cui io pongo qualche cosa, non c’è prima. È questo il movimento dell’autoctisi, dell’autoprodursi di qualche cosa; il primo movimento dell’autoproduzione è il linguaggio che produce se stesso. Così, quando l’empirismo acquisti consapevolezza del rapporto immanente dell’altro, appunto come altro, alla sua condizione, che è l’Io, continuerà bensì a vedere l’altro e il molteplice, ma con l’unità e nell’unità. Anche qui, che cosa fa Gentile? Fonde insieme la metafisica e l’empirismo. È un’operazione che anche Hegel a modo suo aveva avviata. Molti pensatori hanno colto la questione, ma non si sono accorti che se non si pone a fianco anche la contraria, la prima non ha valore; ha valore quando si pone anche la contraria: è il procedimento dialettico, né più né meno. È questo che è fondamentale in Gentile, ma lo era forse ancor più in Hegel. Hegel ci diceva che non possiamo mantenere due elementi separati; nell’atto i due elementi sono lo stesso, sono la relazione, ed è nell’atto che diventano unità, che diventano, Severino direbbe, l’eterno. Diventano l’eterno nel senso che è nell’atto che si produce il tempo, il passato, il presente e il futuro, che non ci sono prima dell’atto perché è l’atto che li pone, pensandoli. Quindi, eterno non nel senso di un presente perdurante, ma del tempo che è assente in quanto linearmente inteso, ma come simultaneità. Paragrafo 20. La causa sui. La necessità dell’essere coincide con la libertà dello spirito. Perché l’essere, nell’atto del pensare, è l’atto stesso;… L’essere è l’atto, non c’è un altro essere. Per Hegel l’essere era l’apparire, però con Gentile è come se si precisasse ancora la questione. Sì, è l’apparire, ma appare in quanto c’è l’atto, è l’atto che fa apparire qualcosa. …il quale non è, ma si pone… Non è mai, ma è sempre ponentesi. …(e quindi è libero), non presupponendo nulla (e quindi è veramente incondizionato). Infatti, il linguaggio non presuppone nulla. se presupponesse qualcosa presupporrebbe qualcosa che sarebbe fuori del linguaggio, qualcosa come condizione del linguaggio, e quindi non è linguaggio. Ma questo è improbabile che possa accadere. La libertà è assolutezza (infinità dell’incondizionato), ma in quanto l’assoluto è causa sui. Sui, si badi, che suppone il sé, il soggetto, l’autocoscienza, onde l’essere causato non è effetto, ma fine, valore; il termine a cui si tende, e che si conquista. La quale libertà non è negazione della necessità, se non in quanto per necessità s’intenda la necessità che compete all’astratta oggettività dell’essere; ma coincide con la necessità dell’essere, che è, in concreto, la stesa dialettica dello spirito. Libertà, quindi, coincide con la necessità dell’essere. Ma necessità nell’accezione che indicavo prima, come ciò che non può non essere perché se non fosse sarebbe nulla. È questo che occorre porre in termini molto precisi. Paragrafo 23. L’Io incondizionato e il condizionato. Per uscire dall’imbarazzo, conviene por mente che l’Io trascendentale si pone come empirico; e come tale è condizionato. E se per realtà noi no vogliamo intendere soltanto quello che è nell’oggetto dell’esperienza (esperienza pura), certo la nostra sintesi, onde l’Io è assoluto incondizionato, libero e perciò condizione di tutto, è sintesi puramente gnoseologica, e non reale. Ma intendendo la realtà come solo oggetto, scisso dal soggetto, ne dovremmo ormai essere persuasi, commettiamo uno sproposito; il quale sarà eliminato soltanto se si guarderà più in fondo, alla radice di cotesta realtà, dove l’oggetto è la vita del soggetto, la cui sintesi è perciò assolutamente reale. Dice l’oggetto è la vita del soggetto, il per sé è la vita dell’in sé, è ciò che gli dà vita, è ciò che lo fa essere quello che è, come il significato rispetto al significante. In tutto questo discorso che ci ha fatto ci ha lasciato intendere che non ci sono fatti, ma che ciascuna cosa, fatta oppure no, è sempre in fieri, cioè è sempre in atto.

Intervento: Quindi, anche il pensato.

Sì, certo. Questo è il problema che avevo posto rispetto a Gentile, e cioè che il pensiero pensante non può essere pensato, appunto, se non come pensato. Ma se non posso pensare il pensiero pensante in quanto tale, se non come pensato, allora il pensiero pensante non posso che porlo, potremmo dire con Hegel, come il concreto, o come linguaggio, cioè, come la condizione del pensato. Il pensato sarebbe l’astratto, il pensante il concreto. Il fatto è l’astratto. Io astraggo dal concreto, dal pensante, dal parlante, dall’atto, astraggo qualche cosa, astraggo il pensato, astraggo il fatto. Ma per poterlo astrarre occorre che ci sia il concreto.