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7-10-2015

 

Ciò che ci interessa di Heidegger non è tanto la sua filosofia, che può valere quanto qualunque altra, ma il modo di procedere, il modo di portare la domanda alle estreme conseguenze, cioè interrogare al di là di ciò che comunemente si fa o, come direbbe lui, problematizzare. Questo ha dei risvolti notevoli perché significa che ciascuna volta in cui si parla, si pensa di qualunque cosa, questo qualcosa di cui si parla è un problema, qualunque cosa sia è un problema, non nel senso in cui si intende comunemente il problema, cioè un ostacolo da superare, è un problema nel senso che pone in essere una situazione tale per cui ciò che si sta dicendo è al tempo stesso quello che è ma non può essere quello che è. Questo è il problema, infatti poi Severino si avvicina alla questione in questo testo, κατά τ χρεν Destino della necessità, ma anche in altri. Pensare questo in un certo modo è pensare l’essenziale, vale a dire ciò che, parafrasando Heidegger, è da pensare. Ciò che accade mentre si parla comporta questo problema sempre e inesorabilmente, e non c’è via d’uscita, non c’è via d’uscita nel senso che ciascuna volta, ciascuna cosa viene fermata, viene stabilizzata, viene detta, viene determinata, ma questa determinazione che consente l’uso di quella parola interviene soltanto come un comando che impone di determinare qualcosa al solo scopo di poterla utilizzare. Ma questa cosa che viene determinata e è determinata da altre cose, non può determinarsi da sé, qualunque cosa io dica per determinare qualcosa dico un qualche cosa che non è quella cosa ma è un’altra cosa che io gli attribuisco. Ci si trova di fronte a una situazione paradossale, in cui già soltanto nell’atto di determinare qualcosa, determinando qualcosa lo determino tramite altro, e questa per altro è la questione della metafisica come abbiamo accennato, che cosa comporta questo? Innanzi tutto un modo differente di porsi nei confronti di ciò che si sta pensando, di ciò che si sta dicendo, nel senso che a questo punto diventa sempre più difficile eludere il fatto che si è presi all’interno di un gioco, di un gioco linguistico di cui di volta in volta si accolgono delle regole al solo scopo di fare procedere il gioco. Questa rimane probabilmente la cosa più importante da pensare, da interrogare, da considerare e valutarne gli effetti, anche perché pone come dicevo in una posizione assolutamente particolare dove non c’è più nulla che non sia un gioco: se voglio fissare questa cosa, per fissarla ho bisogno di altre cose, per fissare queste altre cose ho bisogno di altre cose e così via all’infinito in un processo che la semiotica indica come la semiosi infinita senza però trarne tutte le implicazioni che invece in parte Nietzsche, in parte Heidegger hanno colto molto bene. Per Nietzsche affermare qualcosa è un inganno, la verità è illusione perché una volta che l’ho fermata non ho trovato niente, l’ho semplicemente fermata per poterla utilizzare, ma per fermarla devo determinarla, per determinarla di nuovo ho bisogno di altri elementi. È un gioco ininterrotto e non interrompibile. Il fatto che non ci sia modo di arrestare questa cosa situa il parlante inesorabilmente all’interno di un gioco linguistico, un gioco linguistico di cui mano a mano reperiamo nuovi aspetti, nuove indicazioni anche. Tutto questo è in un certo qual modo una breve introduzione a ciò che dice Severino nel primo capitolo del “Destino della necessità” dove parla dell’Occidente e della la volontà di potenza. Severino considera la questione della libertà e della schiavitù che lui fa risalire a quella parola che Platone usava per indicare il movimento oscillante tra l’essere e il non essere: ἐπαμφοτερίζειν. Qualcosa esce dal nulla e poi torna nel nulla, questo è ἐπαμφοτερίζειν e la libertà è attribuita all’ente, all’ente che può compiere questo movimento, uscire dal nulla per tornare nel nulla. E la schiavitù è il mantenere almeno provvisoriamente qualcosa nel nulla, non consentirgli di accedere all’essere, in questo senso è schiavitù, nel senso che è bloccata. Questo non può avvenire a lungo perché se le cose divengono comunque torneranno nel nulla prima o poi, quindi tanto la libertà quanto la schiavitù sono due facce della stessa cosa, cioè del divenire, dell’ente considerato come diveniente. Questi due aspetti costituiscono la “tragicità” della condizione umana e cioè il fatto di essere in qualche modo consapevoli del fatto che tanto la libertà, quanto la schiavitù, e cioè il divenire delle cose non consente nessuna stabilità, nessuna fermezza, nessuna certezza. Questa posizione di incertezza e tragicità, è qualche cosa che indica come l’inconscio, ciò che non ha accesso alla consapevolezza, alla coscienza, ciò che non appare nel discorso delle persone o meglio appare come detto ma non come pensato realmente. Questo comporta che permanga sempre nel discorso occidentale un qualche cosa appunto di inconscio che costituisce la base, il fondamento di ogni follia. Cos’è la follia per Severino? Pensare che ciò che è sia ciò che non è, questa è la follia, e nel divenire appunto c’è questo “essere è non essere”, perché se le cose divengono vuole dire che prima non sono e poi sono, e questa è la base di ogni alterazione psichica, della nevrosi per farla breve: Nelle scienze psicologiche la persuasione che l’ente sia niente è considerata come uno dei tratti più caratteristici delle malattie mentali. Per Freud la “rimozione” che sta alla base del processo di formazione delle nevrosi, delle psicosi, è un espellere l’ammalato dalla vita reale, un renderlo estraneo alla realtà (generalmente si pensa così) il malato si persuade cioè che la realtà, quella che per lui è insopportabile, è un niente qualcosa va in conflitto cioè non può accoglierlo e allora viene rimosso e diventa inconscio. Anche Pierre Janet ricorda Freud aveva indicato nella perdita de la fonction du réel uno dei tratti specifici del nevrotico e perdere questa funzione significa appunto trattare la realtà come un niente, tutta la casistica raccolta da Laing (Laing era un psichiatra molto famoso negli anni ‘70) nello “Studio di psichiatria esistenziale” riguardava soggetti che considerano un niente se stessi o la realtà circostante o che si sentono considerati come un niente, nella follia dell’uomo occidentale diventa esplicito il senso greco della cosa, esso determina cioè una svolta decisiva anche nella storia della follia giacché non si limita a guidare il costituirsi della logica scientifica e quindi della logica della psicologia ma introduce nella follia stessa il senso esplicito dell’ente e del niente e anzi nella follia scopre il proprio volto autentico la persuasione della nientità dell’ente che rimane invece costantemente occultato in ogni dimensione della “normalità”, anche la follia e il senso comune o il “buon senso” dell’Occidente vengono progressivamente conquistati dal senso che l’ontologia greca conferisce alla cosa cioè sul fondamento dell’ontologia greca che il folle e l’uomo di buon senso incominciano a parlare dell’ente e del niente, la follia dice che l’ente è niente, il buon senso dice che l’ente non è niente, la psicologia riconosce al buon senso e a se stessa il carattere della “normalità”, la psicologia si riconosce come normale, ma nella “normalità” dell’Occidente rimane nascosta e operante quella persuasione della nientità dell’ente che diventa esplicito nel linguaggio della follia, nella malattia mentale diventa esplicita l’anima dell’Occidente e cioè il tratto essenziale che nascosto, implicito domina e guida l’intero comportamento psicologicamente “normale” della civiltà occidentale. Nell’alienato mentale la scienza tenta quindi di combattere la malattia da cui essa è completamente posseduta e di cui è completamente all’oscuro. (Ho trovato interessante questo passo di Severino, in effetti eravamo anche già arrivati alla questione ponendo talvolta l’inconscio come il linguaggio, però qui Severino aggiunge ancora un elemento e cioè ciò che è inconscio nel discorso occidentale non è tanto l’avere rimosso un qualche cosa che dava fastidio, anche, certo, cioè non sta dicendo che Freud abbia torto, semplicemente occorre andare oltre, occorre “problematizzare” la cosa, pensare la cosa, e Severino qui ha pensato questo, che ciò che costituisce l’inconscio e che viene rimosso nel discorso occidentale è questo: l’ente è niente. Questo non si può affermare perché se lo si affermasse sarebbe folle, è solo il folle che lo può fare, appunto perché è folle, che è un po’ come in Pirandello “Il berretto a sonagli” in cui soltanto se è folle può dire certe cose, ecco per Severino ciò che si potrebbe dire “da folli” è che l’ente è niente.  La persona “normale” non può dire che l’ente è niente, perché sarebbe considerato folle, quindi non lo può dire, non tanto per non essere considerato folle ma non lo può dire per potere continuare a esistere. Per potere continuare, in riferimento a Nietzsche, la volontà di potenza. Per Nietzsche la volontà di potenza è il divenire, il divenire è l’essere, e l’essere è volontà di potenza, ma se questa cosa non può dirsi, e non può dirsi perché sarebbe una follia, per Severino, vi rendete conto che il tacere questo è la condizione per potere sì continuare a parlare ma soprattutto per potere praticare la volontà di potenza, perché in caso contrario non sarebbe possibile: se non c’è “divenire” non c’è il superpotenziamento, non c’è la creazione, non c’è la poίesij, la poesia, nell’accezione heideggeriana del termine, e se non c’è creazione non si mette in atto la potenza. La creazione è produrre qualcosa dal nulla …

Intervento: creazione che per Severino non esiste?

È la follia, l’affermare che essere è niente, che è la follia del discorso occidentale, la sua “tragicità”, di fatto la contraddizione estrema del discorso occidentale. È questo l’inconscio del discorso occidentale e la sua contraddizione assoluta, la contraddizione da cui non ha uscita perché continua a pensare il divenire: se il principio di non contraddizione comporta l’incontraddittorietà della cosa, se questa cosa non è contraddicibile allora è identica a sé, se è identica a sé è eterna, cioè non muta, non c’è variazione, non è più “diveniente”, soltanto se è diveniente perde la sua identità, se questa identità permane e non può togliersi allora è eterna …

Intervento: allora il discorso occidentale violerebbe il principio di non contraddizione?

Esattamente, il discorso occidentale è impiantato sulla negazione del principio di non contraddizione, pur accogliendolo nel parlare comune, però accogliendo il divenire e cioè dicendo che le cose divengono di fatto si situa in un paradosso che non ha soluzione, paradosso perché negando il principio di non contraddizione nega la negazione stessa. Dunque l’inconscio per Severino è un po’ il senso greco della cosa, e cioè il trovarsi a considerare il divenire cioè che le cose divengono senza potere provare una cosa del genere, senza poterla argomentare, senza potercisi basare perché di fatto è auto contraddittoria; se tutto il discorso occidentale è autocontraddittorio si crea qualche problema o può crearsi qualche problema, per Severino, le nevrosi: qualche cosa che è a fondamento di tutto è auto contraddittorio, e non può essere eliminato, e non potendo essere eliminato costituisce l’insicurezza. Qui ci sarebbe però da fare una connessione con la volontà di potenza, e partiamo da Nietzsche: volontà di potenza, superpotenziamento, divenire, produzione, poίesij eccetera, tutto ciò che viene prodotto si porta appresso una contraddizione irrisolvibile perché è fondata sul divenire. Ma se, come dice Severino, è questa contraddizione che si porta appresso tutto il discorso occidentale a produrre quella sensazione di insicurezza, di fragilità, di bisogno di qualche cosa che soddisfi, allora è proprio a partire da questo che si istaura la volontà di potenza, cioè la volontà di controllare, di estremo controllo di quel paradosso che il divenire nel suo essere stesso produce. È una possibilità, ed è sicuramente da pensare. Provo a dirla in un modo più semplice: è la fede nel divenire che si porta appresso questo paradosso insanabile, cioè che le cose sono e non sono, e proprio questo divenire è la condizione della volontà di potenza, divenire che non è altro che l’effetto della metafisica, come lo stesso Nietzsche e Heidegger abbondantemente hanno posto. Il linguaggio è una struttura metafisica, il linguaggio è divenire, ed essendo divenire non può che portare, indurre alla volontà di potenza, cioè al controllo di ciò che non può più controllare, vale a dire questo paradosso, diciamo così, che sta all’origine ed è la condizione stessa del divenire.