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7 settembre 2022

 

I presocratici di Diels-Kranz

 

Zenone di G. Colli

 

Le cose che stiamo facendo ci stanno conducendo al punto in cui saremo in condizione di affrontare e intendere il problema di tutti i problemi in ambito filosofico: il problema dell’essere. Lo affronteremo e lo articoleremo come si deve. Per adesso posso solo fare un accenno. L’essere è sempre considerato sotto due aspetti: l’aspetto copulativo e quello esistentivo o esistenziale. Quello copulativo è semplice: “A è B”, cioè, mette in relazione due termini, che da quel momento sono appunto in relazione. L’aspetto esistentivo non dice, invece, che “A è B”, ma che “A è”, cioè, pone l’accento sull’esistenza di A. La “A è”, certo, ma cosa? Intanto, è qualcosa; per potere dire che “A è” è necessario che sia qualcosa, se fosse nulla non potremmo dire nulla. Qui dobbiamo seguire il suggerimento di Parmenide: “sulla via del non-essere non ti ci mettere”, perché non c’è niente lì, non trovi niente, perché è fuori del linguaggio, non c’è nulla. Quindi, una direzione è questa, che tanto l’essere copulativo quanto quello esistentivo sono due momenti dello stesso. In genere, vengono tenuti separati: una cosa è la copula, che mette in relazione una cosa con l’altra, altro è l’esistenza; sì, certo, ma l’esistenza è l’esistenza di qualcosa, non di nulla. In questo senso, dunque, sono due momenti dello stesso.

Intervento: …

Il problema è quello dell’uno e dei molti. È il problema che ha posto Zenone di Elea, cittadina in provincia di Salerno. Zenone ha fatto un lavoro interessante e Colli coglie questo aspetto che pochi altri hanno colto, e cioè che Zenone è stato il primo “inventore” della dialettica, dell’argomentazione contro qualcuno. Zenone voleva difendere la posizione di Parmenide dai suoi detrattori – per Parmenide l’essere è immobile e non c’è movimento – e l’obiettivo di Zenone era quello di dimostrare che chiunque sostenesse il contrario cadeva in contraddizione. Quindi, ha “inventato” la dialettica. Ora, non è che l’abbia inventata ex nihilo, era già presente, ma l’ha utilizzata in modo più determinato. La dialettica è nata per questo motivo, per vincere un agone dialettico, vincere, quindi, convincere. Questa dialettica, che poi con Aristotele viene chiamata logica, ha lo scopo di vincere contro qualcuno. Per Zenone non si tratta della ricerca della verità, lui non vuole, attraverso le sue argomentazioni dimostrare l’incontrovertibilità della sua tesi, lui vuole unicamente confutare quello che dice l’altro, dimostrando che la tesi dell’altro è autocontraddittoria: è questo quello che vuole fare. È il primo che fa una cosa del genere; gli autori presocratici, che abbiamo considerato prima, non si sono mai posti questo problema. Pensate a Eraclito, a Parmenide, a Democrito, a Anassagora, a Anassimandro: a loro non è mai importato nulla di dimostrare ciò che stavano dicendo. E questo è interessante perché, se non c’è questa esigenza di dimostrare contro qualcuno, è come se, come diceva Colli da qualche parte, i presocratici lasciassero parlare la cosa senza dimostrare niente, coglievano la cosa e dicevano, senza l’esigenza appunto della dimostrazione. Si deve dimostrare quando si vuole convincere qualcuno della bontà della propria idea, della propria tesi, sennò perché dimostrare? Ora leggiamo qualcosa di Zenone. A pag. 513. Fr. 13. Non sappiamo forse che il Palamede di Elea… Era Platone che lo chiamava così: Palamede di Elea. Palamede è un personaggio della mitologia, forse inventato o forse no; comunque, era famoso perché sembra che abbia inventato la scrittura. Quindi, Palamede era un personaggio di rilievo. …sapeva parlare con arte tale. Che, a quanto lo ascoltavano, le medesime cose apparivano una e molte, immobili e in movimento? Fr. 14. Dato che la parola ha molteplici significati, se si ritiene – sia da parte di colui che interroga sia da parte di colui che è interrogato – che la parola ne abbia uno solo (come, per esempio, benché l’essere e l’uno abbiano molti significati, tuttavia sia l’interrogato sia Zenone che interrogano suppongano che < essere e uno> ne abbiano uno solo, per concludere che tutto è uno)… Questa è l’obiezione che faceva Aristotele. Tale discussione verrà condotta o secondo il senso della parola, o secondo il pensiero di colui che è interrogato. Asseriscono che Zenone di Elea per primo abbia scritto dialoghi. Invece Aristotele, nel primo libro Sui poeti, sostiene che sia stato Alessandro di Stiria o di Teo. Fr. 15. Delle molteplici argomentazioni formulate da Zenone, che sono quaranta, Socrate ne prende una sola e formula obiezioni contro di essa… Occorre tenere conto che di Zenone non è rimasto nulla, ci sono soltanto le testimonianze di chi, come per esempio Aristotele, sembra avere avuto a disposizione i libri di Zenone, andati poi perduti; infatti, tutte le testimonianze sono in buona parte di Aristotele, poi di Simplicio, di Alessandro, di Sesto Empirico, oltre al Parmenide di Platone, in cui c’è il dialogo tra Zenone e Socrate. Questo Zenone di Elea fu detto dalla doppia lingua, non in quanto dialettico, come lo era quello di Cizio, o perché confutava o perché provava la medesima cosa, ma perché era dialettico nella vita, in quanto diceva una cosa e ne pensava un’altra. Fr. 16. Dicono che Zenone dicesse che, se qualcuno fosse stato in grado di spiegargli che cos’è l’uno, egli avrebbe potuto ammettere l’esistenza delle cose. Dice se qualcuno fosse stato in grado di spiegargli che cos’è l’uno. Sì, certo, in un certo qual modo è semplice, ma nel determinarlo, come sappiamo bene, devo dire delle cose che non sono l’uno, cioè, per determinarlo occorrono i molti. Solo a questa condizione, quindi, se l’uno può essere spiegato, dice, egli avrebbe potuto ammettere l’esistenza delle cose, ma questa esistenza delle cose a questo punto è sempre un’esistenza determinata da altro, non è l’esistenza in quanto tale. A pag. 519. Fr. 21. Zenone di Elea, polemizzando contro coloro che mettevano in ridicolo la dottrina del suo maestro Parmenide, la quale dice che l’essere è uno, e procedendo in sua difesa, cerca di dimostrare che è impossibile che esista realmente la molteplicità. Infatti, egli dice, se esiste la molteplicità, dal momento che questa è costituita da unità, di cui la molteplicità è appunto costituita. Se, dunque, dimostreremo che è impossibile che esistano molteplici unità, è evidente che sarà impossibile l’esistenza della molteplicità, perché la molteplicità è costituita da unità. Se è impossibile che esista la molteplicità, e se, d’altra parte, è necessario che esista o l’uno o la molteplicità, poiché non è possibile che esista la molteplicità, non resta che ammettere che esista l’unità… – Parmenide dice che di queste cose che si vedono nessuna appartiene al tutto; Zenone di Elea eliminò tutte le difficoltà della questione, dicendo che nulla esiste. A pag. 521. Fr. 25. Quattro sono gli argomenti di Zenone intorno al movimento, che presentano difficoltà per chi li voglia risolvere. Il primo argomento è quello che nega che vi sia movimento, per la ragione che ciò che si muove deve giungere alla metà prima del termine, come si è detto in precedenza. Perciò l’argomento di Zenone cade in errore… Questo è Aristotele nella Fisica. …nel ritenere che non sia possibile, in un tempo finito, percorrere spazi infiniti e toccare a uno a uno elementi infiniti. Questo è il problema, cioè, misurare l’infinito con il finito. È un problema antico, ma a tutt’oggi è rimasto, di sicuro è rimasto fino all’Idealismo tedesco (Kant, Schelling, Hegel): come fare corrispondere la filosofia della natura alla filosofia dello spirito. La filosofia della natura oggi la chiamano Fisica, la filosofia dello spirito è il pensiero: come può il pensiero rendere conto di ciò che vedo, delle cose? È questo il problema che pone Zenone. Il famoso esempio di Achille e la tartaruga: lo vedo che Achille sorpassa la tartaruga, però, adesso, calcoliamo e vediamo come Achille ha fatto a raggiungere e a sorpassare la tartaruga, cioè, misuriamo. Quindi, il problema è quello della misurabilità o non misurabilità: è possibile commisurare l’infinito attraverso il finito? Sì, oggi si può, ci sono dei trucchi che consentono di fare quello, cioè aggirano il problema e bell’e fatto. Ma il problema persiste, perché mettere insieme il finito con l’infinito comporta la necessità di far sparire l’uno a vantaggio dell’altro, in questo caso far sparire l’infinito a vantaggio del finito, cioè, far diventare tutto finito. Sì, certo, ma il problema è come. Qui Aristotele dice Le cose infinite secondo la quantità non è possibile toccarle in un tempo infinito, ma per quelle che sono infinite per divisione è possibile, perché lo stesso tempo è infinito nello stesso modo. Sarebbe l’infinito attuale. Nell’infinito potenziale non posso toccare tutte le cose presenti, per esempio tutti i numeri naturali, ma nell’infinito attuale dice che è possibile. Però, qui l’infinito attuale sembrerebbe il caso in cui posso toccare l’infinito in un tempo finito, perché l’infinito attuale è limitato. Però, questo sposta solo la questione, perché che cosa posso toccare nell’infinito? Posso toccare il limite, ma se volessi toccare tutti gli elementi dell’infinito attuale, ricado esattamente nel problema di prima: come li tocco tutti? A pag. 527. Fr. 2. Nel suo scritto, contenente numerose argomentazioni, Zenone dimostra, in ciascuna di esse, che coloro che affermano l’esistenza della molteplicità cadono in contraddizione. Era questa l’intenzione di Zenone: fare cadere in contraddizione chiunque osasse mettere in discussione le parole di Parmenide e per questo ha inventato, per così dire, la dialettica. Uno di questi argomenti è quello in cui dimostra che “se gli esseri sono molteplici, questi sono grandi e piccoli a un tempo: grandi tanto da avere grandezza infinita, e piccoli tanto da non avere affatto grandezza”. E con questo argomento dimostra che ciò che non ha né grandezza, né spessore, né massa, non può neppure esistere. “In effetti, se venisse aggiunto a un altro essere – egli dice – non lo renderebbe maggiore; infatti, non avendo alcuna grandezza, quando venga aggiunto ad un altro, non può produrre aumento in grandezza. Non sono tanto gli argomenti in quanto tali che sollecitano il pensiero, quanto piuttosto la questione che sta ponendo. È una questione straordinaria, e cioè che per controllare, per dominare è necessario misurare, cioè calcolare. Ma per calcolare devo avere un sistema di riferimento. Anche l’argomentazione è un calcolo; infatti, si può utilizzare il calcolo proposizionale, è sempre un calcolo. Il calcolo è sempre un contrapporre un qualcosa a qualcos’altro, è un contrastare continuo, è quella cosa che Eraclito avrebbe chiamato πόλεμος. Dunque, la misurabilità, la calcolabilità che deve calcolare l’infinito, perché l’infinito è il significato di ciò che io voglio calcolare; nel senso che se io considero qualche cosa - e voglio sapere se questa cosa la posso dominare, la posso controllare – devo poterne controllare tutti gli aspetti, tutte le parti, tutto ciò di cui è fatta. Ed è qui che sorge il problema: quand’è che avrò finito di contare? Come abbiamo detto tante volte, è un problema che non ha una soluzione, né può averla; è il problema del linguaggio, è il problema anche dell’essere, è lo stesso problema, non fa differenza, perché si tratta di misurare qualcosa che non è misurabile, perché è infinito. Quindi, il problema è sempre quello dell’uno e dei molti, tant’è che dice al Fr. 3. A pag. 529. Ma perché si dovrebbe parlare tanto di questo, dal momento che si trova nello scritto di Zenone? Zenone, infatti, dimostrando, con un ulteriore argomento, che se le cose sono molteplici, le medesime cose saranno a un tempo e finite e infinite, scrive testualmente quanto segue: “Se gli esseri sono molteplici, è necessario che essi siano tanti quanti sono e non di più e neppure di meno. Ora, se sono tanti quanti sono, devono essere finiti. E se sono molteplici, gli esseri sono infiniti. Infatti, fra l’uno e l’altro di questi esseri ci saranno sempre di mezzo altri esseri. Qui è la controargomentazione nei confronti di Aristotele, che invece voleva che l’infinito attuale fosse dominabile: ci sono i due limiti, comincia qui e finisce lì; sì, va bene, ma quello che c’è dentro, come lo gestiamo? Infatti, fra l’uno e l’altro di questi esseri ci saranno sempre di mezzo altri esseri, e fra l’uno e l’altro di questi ce ne saranno altri ancora. E così gli esseri sono infiniti”. In questo modo Zenone dimostra che la molteplicità delle cose è infinita mediante la dicotomia. Fr. 4. Ma anche Senofane, Zenone di Elea e Democrito, secondo i Pirroniani sono scettici. Zenone, infatti, nega il movimento, argomentando in questo modo: “Ciò che si muove, non si muove né nel luogo in cui è, né nel luogo in cui non è”. Fr. 5. L’argomento di Zenone sembra escludere che esista lo spazio, ponendo la questione nel modo che segue: Se esiste lo spazio, sarà in qualche cosa: infatti ogni cosa è in qualche cosa; ma ciò che è in qualche cosa è in uno spazio. Perciò anche lo spazio sarà in uno spazio. E questo proseguirà all’infinito. Dunque, lo spazio non esiste. Cosa ci interessa qui della questione, propriamente? Non tanto la questione se ci sia lo spazio o no, sappiamo bene che non c’è argomentazione alla quale non sia possibile controargomentare, ma ci sta dicendo come funziona la dialettica, come di fatto la dialettica non sia altro che una costruzione volta ad annientare l’interlocutore. Qual è il sistema? Lo ha detto prima, il sistema è quello di dare a ciascun termine un significato preciso e di utilizzare quello e nessun altro. Anche qui, naturalmente, riguardo alla questione dello spazio, basta modificare la definizione di spazio e salta tutto. Però, è così che si fa, è così che muove la dialettica, cioè, attraverso un inganno in fondo, e cioè dà per acquisito che un termine abbia quel significato, che poi è quello che voglio io. È come se per potere argomentare Zenone dovesse in un certo qual modo misconoscere ciò stesso che lui ha posto, cioè, un termine non può esser solo quello…

Intervento: Esclude il molteplice…

E, invece, deve porlo necessariamente come uno. Ma perché proprio quello e non un altro? Per argomentare dialetticamente occorre utilizzare questo trucco, cioè si attribuisce un significato a un termine e si dà per acquisito che il significato sia quello. Qui si pone un’altra bella questione, e cioè che parlare, al di là della dialettica – ma parlare è anche dialettica – è determinare qualcosa, e determinare è dire che cos’è una certa cosa e attenersi a quella. Qui torniamo alla questione del verbo essere: se dico che A è B, vuol dire che sto dicendo che A è B e non che A è Z. Perché A è B? Perché io ho stabilito così, perché mi fa comodo stabilire questo, non c’è un altro motivo. Però, non posso non farlo, parlando lo faccio ininterrottamente, non posso non determinare parlando. Come dicevo prima, parlare è determinare incessantemente.

Intervento: Come fa la logica. Quando inizia la sua argomentazione fornisce la definizione dei termini che usa…

Sì, fornisce la sua grammatica e in base a quella agisce con le sue regole di inferenza, la sua punteggiatura. La logica fa questo: utilizza solo formule ben formate, e le formule ben formate sono quelle che si attengono ad alcuni criteri fondamentali e in base a questi criteri stabilisce qual è una formula ben formata. Quando la proposizione è costruita nel modo che il logico vuole, attenendosi a tutte queste regole, allora dice che è una formula ben formata e, quindi, può essere utilizzata dalla logica, sennò non può essere utilizzata; perché se incominciamo a dire che quella cosa è una variabile ma che potrebbe anche essere un costante, allora non funziona più niente, la logica non ammette una cosa del genere. Fa come se questi elementi, di cui è fatta, fossero enti di natura; dice che sono enti di ragione, ma poi, di fatto, li tratta come enti di natura, quindi, immobili, inamovibili: sono quello che sono. Perché sono così? Perché l’ho deciso io. Mentre generalmente si pensa che la A sia A per virtù propria, ma non è niente di per sé. Adesso leggeremo alcune cose di Colli, che ho trovato interessanti. A pag. 21. Zenone è un intelletto di estrema raffinatezza, che presuppone tutto uno sfondo storico in cui situarlo, ma di cui non riusciamo a sapere quasi nulla. Le aporie da lui suscitate sono così al di là della banalità ed hanno così sapiente sottigliezza teoretica che non si è mai riusciti a superarle. Zenone ha enunciato una posizione finale della filosofia; tuttavia nella storia della filosofia si trova all’inizio: così che non riusciamo a vedere come le sue enunciazioni siano storicamente maturate. Zenone è discepolo di Parmenide, e va visto in continua relazione col maestro… /…/ Ma la dipendenza teoretica di Zenone da Parmenide non basta ancora a spiegare il livello della sua razionalità: i frammenti di Parmenide che ci sono rimasti sono sì un abbozzo di impostazione razionale, ma hanno ancora un’esposizione dogmatica. Zenone invece sviluppa il discorso con una argomentazione razionale, e questo costituisce un fatto del tutto nuovo. Può trattarsi di una sua originalità – per cui gli si darebbe una notevole autonomia rispetto a Parmenide, anche se dal punto di vista contenutistico ne dipende – oppure di un suo modo di condurre l’argomentazione che presuppone una storia precedente che vada al di là anche di Parmenide, ma che non possiamo identificare. /…/ Le aporie suscitate da Zenone non vanno per nulla prese con leggerezza, dal momento che grandissimi pensatori, quali Aristotele e Kant, nella Critica della ragion pura, hanno tentato di superarle. Parmenide e l’eleatismo sono un punto di partenza e di riferimento per tutta la filosofia greca. Platone, ad esempio deriva strettamente da Parmenide, a cui si è rifatto come a nessun altro filosofo anteriore. Quanto a Socrate, non si riesce a definire se sia stato solo uno spunto o se tutto Platone si ispiri a lui. La stessa teoria delle idee è strettamente legata alla impostazione di Parmenide, e quindi, attraverso Platone, tutto il pensiero greco fino a Plotino – in cui Parmenide è particolarmente vivo – è sotto l’influenza dell’eleatismo. A pag. 53. Un elemento di grandissimo interesse: “…la loro ipotesi dell’esistenza dei molti va incontro a conseguenze ancor più ridicole della tesi che l’uno esiste”. Questo Zenone diceva contro i detrattori di Parmenide. Poi il dialogo platonico si svolge nel senso di dimostrare che, se l’uno esiste, a lui vano assegnati tutti gli attributi contraddittori. Qui è l’elemento enigmatico del Parmenide di Platone: c’è da chiedersi se, distrutta l’ipotesi che i molti esistono, e distrutta l’ipotesi che l’uno esiste, non si vada verso uno scetticismo assoluto. L’ipotesi dei molti, si noti, andava contro la dottrina delle idee, che deve moltissimo agli eleati. In questo dialogo però sono gli stessi eleati che confutano la dottrina delle idee. Sfugge alla comprensione l’intenzione che aveva Platone nello scrivere questo dialogo. Zenone ha ammesso implicitamente che le tesi di Parmenide erano attaccabili dal punto di vista razionale, e contrattacca in modo radicale: la sua difesa consiste nel distruggere gli avversari e non nell’eliminare le proposizioni mosse a Parmenide dai suoi avversari. Quindi, quasi volgendosi verso l’eristica: vincere a qualunque costo. Sembra che si voglia sviluppare solo il gioco dialettico in sé, la lotta fino all’estremo, e non la ricerca della verità: siamo quasi in una posizione relativistica. Zenone è qui in una posizione di ϕιλονικία, di “desiderio di vittoria”. Forse – Zenone dice che il suo libro fu scritto da giovane – tale posizione eristica era un effetto di gioventù; forse si può interpretare che Zenone da anziano non ci si sarebbe più messo. A pag. 67. Il testo continua: “Zenone afferma che il punto non è”. Qui si tratta evidentemente del punto inesteso e perciò indivisibile: un tale punto non esiste in quanto non ha grandezza (se invece l’avesse sarebbe divisibile, la dicotomia non lascia scampo); ma se non ha grandezza, “sommato non aumenta e sottratto non diminuisce”. Questo ci sembra realmente di Zenone: è la sua critica dell’uno. L’uno da Zenone è fatto uguale all’indivisibile, cioè al punto senza grandezza, e perciò è inesistente. Se non ha grandezza, dice Zenone, non esiste. Naturalmente, qui Zenone si riferisce ai sensibili: non è che se una cosa non ha grandezza allora non esiste. Per esempio, la bontà non ha grandezza, ma noi diciamo che esiste. Chiaramente, qui occorrerebbe una riflessione intorno all’esistenza, quindi, intorno al verbo essere. Ma le questioni, così poste da Zenone, non hanno soluzione, perché lui le ha poste in modo tale che non possono averne. A pag. 75. Leggiamo ora il passo di Simplicio che riporta la citazione di Teofrasto: “Come attesta Alessandro, era riferito in questa forma da Teofrasto, nel primo libro delle Opinioni dei fisici (a proposito di Parmenide): ciò che è al di là di ciò che è non è, ciò che non è non conta nulla; dunque uno solo è ciò che è”. Si confronti Aristotele (Metaph. 1001 a 29) con Teofrasto: in Teofrasto abbiamo un anello in più dell’argomentazione originale rispetto ad Aristotele, che nella sua solita espressione sintetica lo ha ritenuto superfluo. Teofrasto è uno preciso, riporta tutto; invece, Aristotele non voleva fare una storia della filosofia, a lui interessava delle tesi per poterle confutare; quindi, tantissime volte salta dei passaggi che, secondo lui, sono irrilevanti, ma che invece possono essere utili per intendere bene quello che diceva Zenone. Teofrasto non dice quello che è il presupposto dell’argomentazione di Parmenide, che cioè l’essere e l’uno sono in sé. Questo invece dice Aristotele, perché è proprio quello che vuole negare. Vedete come anche la tradizione ci tramanda, che non solo nelle traduzioni, ma anche nella trasmissione in questo caso di frammenti, è tutt’altro che indifferente la posizione di chi tramanda questi frammenti. Dal presupposto Aristotele salta subito alla conclusione: “ci sarà grande difficoltà ad ammettere che oltre all’essere e all’uno possa esservi ancora qualcos’altro, voglio dire che gli esseri siano più di uno”. In Teofrasto è invece riferito il passaggio: se l’essere è in sé (Aristotele), allora quello che è altro dall’essere non è. Il passaggio che lega dialetticamente il presupposto con l’ipotesi particolare del logos (cioè “ciò che è al di là di ciò che è non è”) non ci è documentato da Aristotele, ma lo ricaviamo da Teofrasto. Quello che riporta Teofrasto, in fondo, è la posizione di Parmenide: ciò che non è non è; perché, come diceva giustamente Parmenide, non posso esprimerlo, non posso dirlo, non posso pensarlo, non posso fare niente. Invece, Aristotele intende e traduce che ci sarà grande difficoltà ad ammettere che oltre all’essere e all’uno possa esservi ancora qualcos’altro, voglio dire che gli esseri siano più di uno, cioè, gli esseri sono più di uno, li vedo, sono tanti, ma dimentica il passaggio intermedio, quello che riporta Teofrasto e che è la posizione di Parmenide, e cioè che il non-essere non è, perché non è esprimibile, non è dicibile, non è pensabile. Quindi, o c’è soltanto l’essere, e allora l’essere è uno, oppure c’è anche il non-essere, ma del non-essere non possiamo dirne niente. Come dice, giustamente, Parmenide: da questa via non ti ci mettere, ché non vai da nessuna parte. Teofrasto aggiunge rispetto ad Aristotele un altro anello: “ciò che non è, è nulla”. Aggiunge la tesi di Parmenide. Io ritengo che anche questo passaggio esistesse nel testo parmenideo: la conferma la vediamo nella prosa secchissima di Teofrasto, più esplicita ma più succinta di quella di Aristotele. Questo anello merita di essere considerato: “ciò che è diverso dall’essere in sé non ha alcuna realtà in assoluto”. Qui viene negata la Parmenide la realtà del non-essere, realtà che invece pongono Democrito e Platone per superare le difficoltà parmenidee. Il non-essere, dice Parmenide, non ha valore metafisico. Dire che non ha valore metafisico non è altro che dire che non lo posso affermare, non lo posso stabilire, non lo posso porre. Questo passaggio nega addirittura in anticipo il modo con cui Democrito e Platone tenteranno di superare l’argomentazione. A pag. 77. Il rapporto tra Simplicio e Alessandro non è del tutto chiaro. Sono due tra i personaggi che ci hanno tramandato, trascritto, interpretato i vari frammenti dei presocratici. Ma l’importante è aver potuto stabilire un’argomentazione di Parmenide, di cui ci è stato possibile – grazie alla tradizione indiretta – ricostruire anche la formulazione quasi alla lettera: è un caso rarissimo. Nel far questo ci si è serviti di Aristotele e di Teofrasto: garanzia del nostro modo di procedere è l’indipendenza di Teofrasto da Aristotele, mentre Alessandro dipende da Teofrasto. /…/…che ci interessano che per Zenone: in primo luogo, “tutto è uno”. Da un passo di Aristotele sappiamo che era un logos di Zenone; ma, mentre abbiamo potuto ricostruirne l’andamento dialettico in Parmenide, non siamo in grado di fare altrettanto con Zenone. In secondo luogo, la discussione ha interessato per la storia della dialettica greca: anche il metodo dialettico, a questo punto, ci sembra introdotto da Parmenide, senza naturalmente togliere a Zenone il merito del suo sviluppo in tutti i sensi. Questo per dire come funzionano le questioni. A pag. 79. La tesi cui giunge Zenone, che l’essere sia nulla, per Aristotele è gravissima, e perciò lo attacca proprio nel suo presupposto, che esiste solo ciò che ha grandezza. In realtà non è lecito criticare qui Zenone per essersi limitato al campo della corporeità: egli, nella sua indagine riguardo all’essere e all’uno, assume in questo logos (qui logos è da intendere come “posizione teorica”) l’ipotesi che l’essere sia corporeo e, dopo aver assunto questa ipotesi, ricava che allora l’essere è nulla. Qui Zenone assume l’ipotesi dell’essere corporeo, in altri logoi l’ipotesi dell’essere non corporeo, non è perciò corretto da parte di Aristotele criticarlo nella sua ipotesi. Aristotele non era nuovo a questo genere di operazioni, e lo abbiamo visto con Protagora, si muove con molta disinvoltura rispetto a ciò che altri hanno detto. Zenone dunque attacca l’uno indivisibile, e c’è da chiedersi se stia muovendo una polemica contro le posizioni teoriche di quelli che stabilivano appunto un tale uno corporeo indivisibile, come l’atomo che porrà Democrito dopo Zenone. Io (Colli) ritengo che Zenone non stia polemizzando con nessuno, ma che stia traendo le conseguenze di posizioni dialettiche poste da lui stesso: in questo caso, che l’essere sia corporeo. L’ha posto come principio. È esattamente ciò che dicevamo prima rispetto al funzionamento della dialettica: si stabilisce che una certa cosa è così, la si prende come principio e da lì si parte con l’argomentazione. Ma ciò che dovrebbe fare il pensiero teoretico è appunto interrogare, mettere in discussione questi principi. Per questo, anche tutte le argomentazioni di Zenone sono estremamente discutibili, anche perché muove da presupposti che possiamo – in questo Aristotele non aveva tutti i torti – non ritenere necessari: non è necessario partire da questo presupposto, possiamo partire anche da un altro e, quindi, cambia tutto. È vero, certo, ma non è questo che a noi interessa, non è la tecnica dialettica-argomentativa, è irrilevante; è, invece, rilevante la questione che Zenone sta ponendo, e cioè quella della misurabilità dell’infinito attraverso il finito: è possibile, si chiede, oppure no? Se no, perché? E questa è la questione, è sempre questa la questione. A pag. 84. Uno di tali argomenti è quello in cui dimostra che “se gli esseri sono molti, sono grandi e piccoli insieme: tanto grandi da avere grandezza infinita, tanto piccoli da non avere più grandezza affatto”. E in questo argomento mostra che ciò che non ha né grandezza né spessore né massa non può nemmeno esistere”. Chiaramente, muovendo dal presupposto che sta parlando di elementi corporei. Ma la cosa è più interessante quando invece parla di elementi che non sono corporei, come il finito e l’infinito. È lì che si gioca tutta la questione: uno e i molti. A pag. 94. La dimostrazione di Zenone è effettiva: non ha vizi di forma, e va accettata anche per il contenuto che afferma. I commentatori in genere non hanno sottolineato questo punto. Chiamiamo X = τό ὅν, “l’essere” di cui si discute e di cui si vuole provare l’inesistenza; A = τό ἕτερον, “l’essere” cui x viene aggiunto;… Il qualche cos’altro che aggiungiamo all’essere. …Zenone dice A = A+x… L’essere è uguale all’essere più qualche cos’altro. …quindi x = A-A, cioè x = 0. C’è qui una trattazione puramente matematica; come dimostrazione matematica non c’è niente da dire; x è uguale a zero, cioè è positivamente nulla. Sì, se naturalmente si accoglie tutta questa posizione particolarissima di Zenone. Che valore ha una dimostrazione del genere? Abbastanza scarsa, nel senso che si potrebbe controargomentare abbastanza facilmente. Ma non è tanto questo che importa, quello che importa è il fatto che Zenone volesse controbattere i detrattori di Parmenide: questo era il suo obiettivo, da raggiungere costi quello che costi, anche a costo di affermare cose discutibili, che mettono sì in difficoltà l’interlocutore, ma a condizione che l’interlocutore accetti le sue premesse. E se non le accetta? È un disastro. A pag. 101. Può darsi invece che Zenone non voglia contestare la possibilità del movimento reale sensibile (da cui deriverebbe la condanna dei sensi), ma che il movimento sia per lui ben reale, e che lo scopo di queste aporie sia la constatazione dell’incapacità della ragione umana di spiegare razionalmente quello che i sensi ci offrono. Qui Colli ha centrato la questione: l’incommensurabilità tra la filosofia della natura e la filosofia dello spirito, l’incommensurabilità tra il finito e l’infinito. Perché ciò che vedo non è commensurabile alla mia ragione? La ragione, come sappiamo, calcola, e qui sta il problema. Come dicevamo, né Eraclito né Parmenide si sono posti la questione della dimostrazione, perché è qui che sorge il problema: quando si vuole dimostrare. Perché questa aporia di Zenone, quella di Achille e la tartaruga? Perché voglio dimostrare quello che vedo. Cosa significa che lo voglio dimostrare? Che lo voglio controllare, che lo voglio dominare, dominare l’ente. Per dominare l’ente devo calcolare, devo misurare. Sarebbe come dire che la volontà di potenza, nel momento in cui si avvia, cioè nel momento in cui si avvia il linguaggio, già lì in questo momento, proprio perché vuole determinare, si scontra con l’indeterminabilità di qualunque cosa. La ragione umana, dice, non spiega razionalmente quello che i sensi ci offrono; ma il problema è il volere spiegare, è il volere misurare, è il volere trasporre in calcolo. A quali condizioni io posso calcolare?

Intervento: Calcolo una volta che ho stabilito delle regole…

Dici bene: una volta che hai stabilito. Ma queste regole sono enti di ragione, non enti di natura. Il problema, dunque è questo, ma Colli l’ha colto senza dargli il peso che meritava, perché invece è una questione fondamentale. Non sono tanto le argomentazioni di Zenone, sì, vanno bene, certo, ma sta tutto qui il problema: l’incapacità della ragione di spiegare razionalmente quello che i sensi ci offrono, cioè, ciò che appare. I sensi ci offrono questo, ci offrono il φανεσθαι, l’apparire di qualche cosa. L’οσία, la sostanza, è un’abbreviazione di παρουσα, l’apparire di ciò che appare così come appare: questa è la sostanza per i Greci. Io vedo, ma nel momento in cui vedo, per potere dire, pensare che ho visto qualcosa, lì interviene il calcolo, la misurazione. Ma questa misurabilità è infinita. Ciò che appare, potremmo dire, l’immanente, ciò che c’è, come lo domino, come lo controllo? Misurandolo, e qui aveva ragione Protagora: l’uomo è misura di tutte le cose. Certo, perché ci siano le cose deve misurarle, e le cose sono un prodotto di questa misurazione, non esistono prima che le misuri, prima che le calcoli. In questo senso, il calcolo fa esistere le cose, ma in un senso diverso da come pensano i matematici.