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7-9-2016

 

Sentieri interrotti (1950)

Pagina 23: Che cosa nell’opera è in opera? L’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità. (ovviamente parla dell’opera d’arte ma forse potremmo anche estendere la questione e porla in questi termini: che cosa è in opera parlando? “L’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità cioè l’avvenire, l’accadere della verità”. È questo che fa di un qualche cosa un’opera d’arte. Quando parla del “mondo” in cui per esempio c’è la famosa scarpa della contadina, il “mondo” non è solo l’utilizzo che fa la contadina della scarpa ma il “come” viene utilizzata da questa contadina all’interno del suo mondo, cioè il significato: ciò che fa dell’opera l’opera d’arte è il suo significato, ma significato nell’accezione dell’essere cioè del “mondo”, l’opera d’arte fa vedere, esibisce, mette in luce il mondo in cui ciò che è rappresentato esiste, cioè il modo in cui esiste nel mondo che lo fa esistere) Ma se la realtà dell’opera non può essere determinata che attraverso ciò che nell’opera è in opera (cioè l’apertura dell’ente, il suo farsi evento della verità) come staranno le cose per quanto concerne il nostro assunto iniziale (che era la domanda) la determinazione della realtà dell’opera d’arte? (Che cosa qui determina la realtà dell’opera d’arte? Che cosa fa dell’opera d’arte un’opera d’arte? Dice poco dopo, che due cose sono apparse chiare) Da un lato gli strumenti per comprendere il carattere di “cosa” dell’opera, i concetti di “cosa” predominati, ma questi sono apparsi inadeguati (cioè il sapere come è fatta la scarpa eccetera) dall’altro ciò che presumevamo di poter assumere come più prossima alla realtà dell’opera, il basamento “cosale” non rientra a questo modo nell’opera d’arte (il basamento cosale, cioè il materiale di cui è fatto) Se non si tiene conto di quanto sopra, si finisce di vedere nell’opera un mezzo a cui viene aggiunto una sovra struttura che dovrebbe portare con sé l’artistico. (cioè la cosa e appiccico sopra un’altra cosa, che sarebbe l’“artistico”, cioè la faccio diventare un’opera d’arte, che non è propriamente) Ma l’opera non è affatto un mezzo fornito aggiuntivamente di un valore estetico, l’opera non è qualcosa di simile, così come la mera cosa non è affatto una cosa a cui manchino i caratteri del mezzo cioè l’usabilità, la fabbricazione. /…/ Ciò che conta di più di tutto è il primo aprirsi di una prospettiva secondo cui è possibile accedere al carattere di opera dell’opera, al carattere del mezzo del mezzo e al carattere di cosa della cosa, solo se ci impegniamo a pensare l’essere dell’ente (cioè il significato di tutte queste cose) A tal fine è necessario che crollino le barriere dell’ovvio e che siano messi da parte i falsi concetti abituali. Pagina 25: L’opera d’arte apre a suo modo l’essere dell’ente (questa è la questione centrale di tutta la questione dell’opera d’arte) nell’opera ha luogo questa apertura cioè lo svelamento cioè la verità dell’ente, nell’opera d’arte è posta in opera la verità dell’ente, l’arte è il porsi in opera della verità, che cos’è dunque la verità perché si realizzi temporalmente come arte? Che cos’è questo porsi in opera? (qui dice esattamente che cos’è per lui l’opera d’arte, ciò in cui si pone, si mette in opera la verità dell’ente, ma qual è la verità dell’ente? La verità dell’ente è il suo manifestarsi nell’essere, se volete trasporre la cosa in termini semiotici “la verità del significante è il significato” perché è il significato che dà luce al significante, cioè lo fa essere significante. Perché dice:) Ricerchiamo in primo luogo la realtà dell’opera, in che consiste? se pur in modi diversi le opere d’arte rivelano tutte un carattere di cosa (sono cose) il tentativo di concepire il carattere di cosa dell’opera con l’aiuto dei concetti abituali di cose è andato incontro al fallimento, non solo perché questi concetti non afferrano la cosità ma perché ponendo in questione l’opera sul fondamento del suo substrato cosale, l’avvolgono in pre concetti che impediscono l’accesso all’esser opera dell’opera (ci fissiamo su dei dettagli, su dei particolari come se dovessimo comprendere per esempio la “statua del Bernini” facendo a pezzi il marmo e vedendo dentro cosa c’è. Non sapremo mai nulla della statua del Bernini dopo che l’abbiamo spaccata) Non è dunque possibile scoprir nulla circa la “cosità” dell’opera finché non si è chiarito il puro stare in sé dell’opera. (il puro stare in sé non è nient’altro che l’opera che si manifesta, che si mostra, che attraverso l’essere cioè ciò che la pone in luce questa opera si mostra per sé stessa. È il concetto di Gelassenheit di cui dicevamo l’altra volta del “lasciar essere”, che come dicevamo non è abbandonare qualcosa ma lasciare che la cosa, possiamo dirla così, “parli da sé”, senza volerla sezionare, senza volerla manipolare. “Parli da sé” cioè mostri il suo essere, vale a dire mostri ciò per cui quella cosa che mi appare è quella che è per me nel progetto, è quella che è, per me, in questo momento, cioè mi appare così in questo momento perché la sto guardando in questo momento e questo momento è storico cioè tiene conto di una quantità di questioni, di interrogazioni, di saperi eccetera che intervengono tutti qui e adesso, “io” sono tutte queste cose) Ma è possibile accedere all’opera in sé stessa? Perché ciò potesse felicemente riuscire bisognerebbe poter sottrarre l’opera a tutti i rapporti che essa ha con ciò che essa stessa non è (per esempio il rapporto con me) onde lasciarla da sé riposare in se stessa, ma questo è proprio lo scopo ultimo dell’artista stesso, lasciare essere l’opera nel suo puro sussistere in se stessa. È proprio della grande arte, e di questa soltanto qui si discorre, il porsi dell’artista di fronte all’opera come qualcosa di indifferente, come una specie di momento passeggero annullantesi nell’oprare stesso in vista della produzione dell’opera. (cosa vuole dire che l’artista si pone in modo indifferente? Che lascia essere ciò che il suo progetto lo guida a fare, per usare i termini di Heidegger) /…/ Ma l’opera è ancora opera se è sottratta a ogni sorta di rapporto? Non è proprio dell’opera essere al centro di rapporti? Certamente, bisogna però stabilire di che genere di rapporti si tratta (prima aveva detto che cosa succede se si tolgono tutti i rapporti, è un problema, e infatti dice “è proprio dell’opera essere al centro di rapporti”) In che rientra l’opera? A quanto pare essa rientra unicamente nel dominio che in virtù sua risulta dischiuso, infatti l’essere opera dell’opera è presente soltanto in questo dischiudimento (il dischiudimento non è nient’altro che il venire in luce, λήθεια, uscire dal nascondimento) Abbiamo detto che nelle opere è in opera il farsi evento storico della verità, il rinvio al dipinto di Van Gogh si proponeva di indicare questo evento solo così il problema dell’essenza e delle storicizzazioni possibili della verità (qui fa l’esempio del tempio che viene eretto, costruito, ed è presente in sé) Eretto l’edificio riposa sul suo basamento di roccia, questo suo supporto saldo e tuttavia non costruito stando lì l’opera tien testa alla bufera. Il suo sicuro stagliarsi (del tempio) rende visibile l’invisibile regione dell’aria, la solidità dell’opera fa da contrasto al moto delle onde rivelandone l’impeto con la sua immutabile calma, l’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono così la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono. (In seguito all’erezione del tempio tutte queste cose che vivono insieme con il tempio, diventano parte integrante, non del tempio ma del “mondo” del tempio.) Questo venir fuori e questo sorgere come tali e nel loro insieme è ciò che i greci chiamavano originariamente φύσις (questo è molto interessante, tutte le cose che, diciamola così, convivono con il tempio, sono tutt’uno, non c’è il tempio e poi c’è il grillo e poi c’è l’aquila e poi c’è l’aggeggio, ma tutte queste cose costituiscono un tutto, un insieme, costituiscono la verità del tempio che è fatta di tutte queste cose cioè del mondo in cui questo tempio si trova) Essa (la φύσις) illumina a un tempo ciò su cui e ciò in cui l’uomo fonda il suo abitare, noi la chiamiamo “la terra” (la φύσις dice dunque “illumina a un tempo ciò su cui e in cui l’uomo fonda in suo abitare” cioè attraverso tutto ciò che lo circonda, l’uomo è tutto con ciò che lo circonda non è isolabile dai rapporti che ha con tutto ciò che lo circonda, questa è un questione molto importante da intendere perché è la questione dell’essere in Heidegger, è la questione centrale in tutto il pensiero di Heidegger e interessa anche la questione psicanalitica e cioè la persona, per lui l’uomo, il parlante potremmo dire esiste, è quella serie di rapporti che intesse nel suo mondo, cioè non solo con la terra, con le cose che gli stanno appresso immanenti, cose intangibili, ma con il suo mondo e cioè con quello che prima indicavo con “tutto” che dà un senso alla terra cioè alle cose che ci sono, l’essere sarebbe il mondo e la terra l’ente. Quindi si tratta di rapporti cioè il parlante esiste perché non è all’interno di questa serie di rapporti, è questa serie di rapporti, se preferite, di connessioni, di rinvii, cioè l’uomo è questa serie di connessioni, di rinvii non è che lui è lì da una parte e dall’altra ci sono i rinvii, no, lui è questi rinvii, questo è molto vicino a ciò che diceva Peirce. Peirce dice che l’uomo è un segno, un segno fra segni ma un segno particolare perché è l’unico segno per il quale altre cose sono segni, per una pietra che sta in un ruscello, il ruscello che le scorre sopra la testa non è un segno ma lo è per l’uomo che osserva il sasso. Questi segni hanno di particolare che sono segni per altri segni, per esempio sono segni per l’uomo il quale è un segno, il quale è segno per altri segni, e gli altri segni sono segni per altri segni e così via all’infinito, che è quella cosa che comunemente si chiama semiosi infinita. Quindi vedete che la questione che pone qui Heidegger non è marginale, è una questione centrale e ne va di tutto il pensare. Considerare il parlante non come un qualche cosa preso in mezzo a varie relazioni, cioè lui sta qui e lì ci sono le relazioni che intesse con tutte le altre storie, no, lui è questa connessione, lui è questa combinatoria, il segno dopo tutto è una connessione ...

Intervento: quindi io potrei anche dire che l’uomo è differance?

Per Derrida l’uomo in quanto segno procede dalla differance, la differance per Derrida è ciò che avvia il dire, è quella linea muta che è la condizione del segno, si potrebbe pensare ovviamente che la linea sia fuori dal linguaggio, fuori dalla parola, ma Derrida se ne accorge, lì infatti vacilla un pochino perché da una parte è costretto a dire che non può essere fuori dal linguaggio però al tempo stesso se è la condizione del dire pone questa linea in una posizione difficile da sostenere, quindi per Derrida è un effetto, una produzione della differenza) Noi la chiamiamo la “terra”. (tutte queste cose che sono significanti) Da ciò che intendiamo con questo termine occorre tener ben lontano ogni idea di massa materiale stratificata o di pianeta in senso astronomico (l’energia è uguale alla massa moltiplicata per la velocità della luce al quadrato, E = MC2 che è la celeberrima formula di Einstein. Einstein ha intuito, e anche realizzato entro certi limiti, un progetto straordinario e cioè la trasformazione della massa in energia. Idea che è stata la direttrice per altri fisici insieme con lui per la costruzione della bomba atomica) La terra è ciò in cui il sorgere riconduce come tale tutto ciò che sorge come nel proprio nascondimento protettivo, in ciò che sorge è presente la terra come la nascondente proteggente (è semplice la terra protegge e nasconde, il significante protegge e nasconde che cosa? Il significato, lo protegge perché lo comporta necessariamente, perché è lì insieme con il significante ma lo nasconde perché il significante non è il significato, lo nasconde e per Heidegger lo ha nascosto da sempre, dal momento che tutto il pensiero occidentale da quando esiste ha scambiato l’essere per l’ente, pensando di parlare dell’essere si è sempre parlato dell’ente) Eretto sulla roccia il tempio apre un mondo e lo riconduce nello stesso tempo alla terra, solo allora si rivela come suolo natale (erigo un tempio e sta piantato lì sulla roccia bello saldo, da quel momento quel tempio apre il mondo per tutto ciò che lo circonda, tutto ciò che in qualche modo ha a che fare con quel tempio, l’insetto che gli cammina sopra ecco, dice lui, solo allora si rivela come suolo natale cioè soltanto in quel momento in cui costruisco il tempio tutto ciò che esiste insieme con il tempio nasce, concetto che adesso va a spiegare) Non accade mai che uomini, animali, piante e cose siano dapprima semplicemente presenti e conosciuti come semplici oggetti (badate bene, non accade mai che delle cose siano riconosciute come semplici oggetti, non accade mai dice) per divenire poi casualmente il contorno adeguato del tempio, che a sua volta si sarebbe un giorno semplicemente aggiunto alla restante realtà. Ci avviciniamo invece a ciò che è solo procedendo al rovescio, posto che abbiamo occhi per vedere come tutto ciò avvenga al rovescio, ma il semplice capovolgimento per sé preso non chiarirebbe nulla, stando lì eretto il tempio conferisce alle cose il loro aspetto e agli uomini la visione di se stessi, questa visione resta attuale finché l’opera è tale, finché dio non fugge via da essa (perché prima diceva che dio esiste in quanto dio perché è dentro il tempio, allora è dio perché acquista lì la sua funzione, se lo metto fuori è niente) Lo stesso vale per la statua di dio votatagli dal vincitore durante la lotta non si tratta affatto di una specie di ritratto eseguito perché sia possibile sapere come il dio è fatto ma di un’opera che lascia essere presente dio stesso e pertanto è dio. (questa statua messa dentro il tempio acquista una funzione mentre messa lì rivela un qualche cosa, rivela la presenza del dio ma non perché chiama il dio da qualche parte, ma perché da quel momento il mondo che il tempio ha costruito comporta la presenza di dio e allora da quel momento c’è il dio) Lo stesso dicasi delle opere in parole nella tragedia eccetera /…/ allora di nuovo in che cosa consiste l’esser opera dell’opera? Quando un’opera è ospitata in una collezione o presentata in una mostra si dice che essa viene esposta, ma questa esibizione è radicalmente diversa dalla esposizione vera e propria cioè dalla costruzione di un palazzo, dall’erezione di un monumento, dalla rappresentazione di una tragedia durante un celebrazione, l’esposizione vera e propria è erezione nel senso del votare e del celebrare, esporre non significa in questo caso il semplice collocare, votare significa consacrare nel senso che nell’esposizione dell’opera viene aperto il sacro in quanto sacro e viene invocato il dio nell’aperto del suo essere presente (cioè tutto ciò esiste, acquista un suo senso all’interno del progetto in cui accade tutto ciò, è questo che sta dicendo, la cosa si manifesta non perché la espongo, non perché la metto lì perché passino le persone a guardare, no, l’esposizione vera e propria è il rivelare il progetto entro il quale tutto questo è stato attuato, rivelare questo progetto è rivelare l’essere, fare sorgere l’essere all’interno del quale poi appaiono, compaiono tutti i significanti, le cose) Il “mondo” non è il mero insieme di tutte le cose, numerevoli, innumerevoli, note, ignote, il mondo non è neppure una semplice rappresentazione aggiunta alle somma delle cose semplicemente presenti (tutte le cose presenti, tutte queste le chiamiamo “mondo”, generalmente si considera così ma Heidegger no,) Il mondo si mondifica (diventa mondo nella sua propria essenza) ed è più essente dell’afferrabile e del percepibile in cui viviamo fiduciosamente, il mondo non è un possibile oggetto che ci stia innanzi e che possa essere intuito, il mondo è il costantemente inoggettivo a cui sottostiamo fin che le via della nascita e della morte e della grazia e della maledizione ci mantengono estetizzati nell’essere (ci mantengono vivi nell’essere) il mondo dunque dove cadono le decisioni essenziali della nostra storia (sta parlando del mondo come del Dasein) da noi raccolte e lasciate perdere, disconosciute e nuovamente ricercate e lì si “mondifica” il mondo (cioè lì c’è l’ “esserci” tutte queste cose, le decisioni prese, non prese, rinviate e attuate, tutto, tutto ciò che mi riguarda, tutto ciò di cui sono fatto, tutto ciò che mi ha condotto, come dicevo tempo fa, in questo istante a essere qui con voi a leggere queste cose) La pietra è priva di mondo, le piante gli animali sono senza mondo, essi appartengono al velato afflusso di un ambiente di cui fanno parte, la contadina al contrario ha un mondo in cui soggiorna nell’aperto dell’ente (cioè per lei le cose significano, per il sasso dentro al ruscello le cose non significano perché non sono segni) il mezzo con il suo affidamento (all’affidarsi al mezzo, dare fede) a questo mondo una necessità e una vicinanza appropriate. Con l’aprirsi di un mondo ogni cosa acquista il ritmo del suo sostare e il suo muoversi, la sua lontananza e la sua vicinanza, la sua ampiezza e il suo limite (cosa vuole dire con “l’aprirsi di un mondo”? Quando il mondo si apre? Quando io avvio un progetto. Quando sono progettato, allora si apre il mondo, se sto nella chiacchiera faccio niente) nel farsi mondo del Mondo, si delinea l’ampiezza in cui si dona o si rifiuta il custodente favore degli dei (questa ampiezza è l’apertura, l’apertura dell’essere in cui l’ente si manifesta) L’opera in quanto è opera dispone l’ampiezza (ecco che comincia a delinearsi ma in fondo l’aveva già detto, perché un’opera d’arte è un’opera d’arte? Perché fa questo?) in quanto l’opera dispone quell’ampiezza, “disporre” significa qui in primo luogo porre in libertà la pienezza dell’aperto e ordinare questa pienezza nell’insieme dei suoi tratti, in una sola parola Gelassenheit “lasciar essere” /…/ L’opera in quanto opera, se è opera, espone un mondo. (quale mondo? Per esempio quello della contadina, il suo mondo cioè tutto ciò che appartiene a quel mondo, a quel significato, a quella rete di connessioni all’interno della quale quella scarpa è quella scarpa particolare che evoca tutte quelle cose perché quella scarpa è quella rete di connessioni che la rendono ciò che è) L’opera in quanto opera mantiene aperta l’apertura del mondo (e questo è il motivo per cui affascina, per cui attrae, perché mantiene aperta l’apertura, è come un’interrogazione, è come un domandare, l’opera d’arte se è tale è una domanda, una domanda che apre verso un mondo, verso un significato, verso un progettare. Anche per esempio elaborando delle questioni, quando si trova una questione interessante, una domanda interessante, questa domanda apre un mondo cioè apre un progettare in quella direzione, in questo senso apre un mondo, un mondo cioè una rete di connessioni, di relazioni, di interrelazioni

Intervento: …

È come se venisse risucchiata in quel mondo, non è la scarpa in quanto tale. Per Heidegger se l’opera d’arte è tale allora questa opera d’arte è come se in qualche modo seducesse, nel senso letterale di “se-durre” cioè trae a sé chi la guarda, mostrandogli, esponendogli l’apertura di un mondo. È chiaro che Heidegger si riferisce prima di tutto a un’opera d’arte che sia tale e che chi la guarda sia una persona che abbia una certa sensibilità, infatti una scolopendra non ci vede nessun mondo) /…/L’opera in quanto opera è ponente qui nella sua stessa essenza (l’opera pone qui il suo mondo, lo mette sotto gli occhi, lo espone, lo illumina) Ma che cos’è ciò che l’opera pone-qui (pone-qui come se fosse un tutt’uno, indissolubile) /…/ All’esser opera dell’opera appartiene l’esposizione di un mondo (adesso l’ha detto in un modo che più chiaro non si può) in base a questo principio qual è la natura di ciò che solitamente si chiama il materiale di lavoro dell’opera? (Cioè ciò di cui è fatto) Il mezzo in quanto determinato dall’usabilità e dal bisogno subordina a sé ciò di cui è fatto la materia, la pietra ad esempio è impiegata e usata nella fabbricazione di quel mezzo che è la scure, la pietra è assorbita nella usabilità (qui sta parlando della tecnica) la materia è tanto migliore e adatta quanto più si subordina senza resistenza all’esser mezzo del mezzo (ogni cosa deve essere subordinata, e l’essere subordinata alla sua usabilità è la tecnica) il tempio al contrario in quanto espone un mondo non fa sì che la materia scompaia ma la fa emergere nell’aperto del mondo dell’opera (qui possiamo già cogliere la distanza abissale tra l’opera d’arte, intesa come la intende lui ovviamente e la tecnica: tra il progetto autentico e la chiacchiera del si dice) Nel tempio (cioè nell’opera d’arte) la materia scompare (come nel quadro, la materia di cui è fatto, la tela, il materiale, il colore eccetera) la roccia (del tempio) si immedesima nel sorreggere e nel riposare in se stessa e diviene così roccia, i metalli si fanno lampeggianti e lucenti, i colori splendenti, i suoni risonanti, la parola dicente, tutto ciò si fa innanzi perché l’opera si ritira nella massa e nel pesantore della pietra, nella saldezza e nella flessibilità del legno. Ciò in cui l’opera si ritira e ciò che in questo ritirarsi essa lascia emergere la chiamiamo la “terra” (l’immanente, l’opera d’arte si ritira nella sua materia, cosa vuole dire che si ritira? Che scompare in quanto opera d’arte per diventare materiale di cui è fatta) la terra è la emergente custodente, la terra è l’assidua infaticabile non costretta (sarebbe l’ente, il significante, che è ciò che è sempre lì, assiduo, non costretto, immanente, contingente ciò che appare, ciò che viene incontro) Sulla terra e in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo, esponendo un mondo (non la terra ma un mondo) l’opera pone qui la terra, il porre qui è assunto nel significato rigoroso del termine, l’opera porta e mantiene la terra nell’aperto di un mondo, l’opera lascia che la terra sia una terra (lasciare che la terra sia una terra, cos’è che lascia che un ente sia un ente, cioè lo lascia essere? Torniamo alla Gelassenheit, è l’essere che fornendo all’ente la sua enticità, lo lascia essere quello che è, così come il significato fornendo al significante il suo significato, lo lascia essere quel significante che è, quindi dice che l’opera lascia che la terra sia una terra, lascia che le cose siano quelle che sono, cioè lascia essere, riposare in se stesse e cioè tutte le cose così come la roccia su cui posa il tempio, anche quella roccia rimane quella che è ma perché io possa lasciarla essere questa roccia che sorregge il tempio occorre che tutto questo sia all’interno di un mondo, cioè sia all’interno di quel significato che fa essere il tempio un qualche cosa che a quel punto fa parte di ciò che lo sostiene, fa parte di ciò che lo circonda, tutto ciò che interviene. La terra è tutto ciò che costituisce gli enti e che affiancano tutta la realtà che affianca il tempio, lasciarla essere questa terra, la realtà se volete o l’ente, lasciarla essere significa non volerla dominare, se non si desidera dominare, ammesso che ciò sia possibile, allora si può lasciare essere la terra terra, le cose cose, gli enti lasciarli essere quello che sono anziché volerli conoscere, manipolare, elaborare) Perché questo porre-qui la terra deve aver luogo in modo tale perché l’opera si ritiri in essa, che cos’è la terra perché debba giungere al non nascondimento (cioè al disvelamento) proprio in questo modo? La pietra è greve e denuncia così il suo pensatore ma questo pesantore mentre ci si contrappone ci rifiuta ogni penetrazione in se stesso (se tentiamo di coglierlo facendo a pezzi la pietra, ecco il discorso di prima, i frammenti non ci riveleranno mai qualcosa di interno) la pietra si ritira nella costante impenetrabilità nella gravezza dei suoi frammenti (Questa è la terra che risulta nascondente e conservante, che conserva il significato della cosa e non lo lascia mostrare se non attraverso il suo essere) Se cercheremo di raggiungere il nostro scopo ricorrendo a una bilancia, il pesantore si perderà in un calcolo di un peso, avremo senz’altro ottenuto una determinazione numerica ma il pesantore – l’idea di pesantore, il concetto – ci sarà sfuggito. Il colore splende e vuole solo splendere, quando pretenderemo di scomporlo in un calcolo di vibrazioni (sapete che il colore è vibrazioni) ci sarà già sfuggito (il lasciar essere è queste cose) esso si manifesta solo integro e inesplicito, (cioè se lo si lascia essere) La terra destina al fallimento ogni tentativo di penetrare in essa e condanna al fallimento ogni indiscrezione calcolatrice (questo è il fallimento della scienza, il suo limite invalicabile) Quest’ultima (indiscrezione calcolatrice) potrà assumere l’apparenza del dominio e del progresso sotto forma di oggettivazione tecnico-scientifica della natura, tale dominio non è che un’impotenza della volontà aperta e illuminata in se stessa, la terra appare soltanto se è garantita e conservata come la essenzialmente indischiudibile, sottraentesi (rimane chiusa allo sguardo penetrante della scienza, il pesantore lo posso misurare, posso fare tutto quello che voglio ma il pesantore rimane chiuso) ad ogni dischiudimento e mantenentesi in un costante rifiuto (potremmo dirla così “la cosa si rifiuta alla scienza” ed è questo il limite invalicabile della scienza, lì dove si infrange inesorabilmente e immancabilmente) Tutte le cose della terra, essa stessa, nel suo tutto scorrono in un reciproco accordo (questo è molto greco antico) ma questo scorrere non è un dissolversi, ciò che qui scorre è il pacato corso della delimitazione che confina ogni essente presente nel suo esser presente (ciò che scorre è il continuo manifestarsi delle cose che appaiono, nel loro apparire illuminate dall’essere, cioè del mio progetto) Così in ognuna delle cose chiuse in se stesse si accampa un identico non conoscersi, la terra è l’auto chiudentesi per essenza, porre qui la terra significa porla nell’aperto come l’auto chiudentesi (porla nell’aperto dell’essere, ma una volta che si pone si chiude, l’ente mi impedisce di entrarci dentro e sapere che cos’è, se volete dirla in modo molto spiccio, è come se dicesse che l’ente non posso conoscerlo se non alla luce dell’essere, e posso saperne perché mi appare.