7 agosto 2024
Plotino Enneadi
Siamo alla quarta enneade, ottavo trattato. A pag. 759. Empedocle disse che è legge per le anime peccatrici di cadere quaggiù: egli stesso, esiliato dal dio, è qui disceso perché ebbe fede nella “folle discordia”: perciò egli non ha chiarito il problema, credo, più di quanto abbiano fatto Pitagora e i suoi seguaci, che su di esso, come su molti altri, fecero soltanto delle allusioni. A Empedocle poi la forma poetica impediva di essere chiaro. La folle discordia sarebbe il πόλεμος, quel πόλεμος che Eraclito chiamerà padre di tutte le cose. E, in fondo, questa discordia, che non è altro che la co-appartenenza dei contrari, è anche quella cosa di cui parlava Aristotele nel De anima, quando dice che l’entelechia è ciò da cui sorge tutto, cioè, dai contrari, dagli opposti. Ma per Plotino si tratta della folle discordia, cioè di qualche cosa che deve essere eliminato. Quindi, non la pone come motivo, come occasione di qualunque cosa, ma come ciò che deve essere eliminato. A pag. 765. Ma quando guarda a ciò che è prima di essa, l’Anima pensa; quando guarda se stessa, si conserva; quando guarda ciò che lei posteriore, l’anima ordina, regge e governo su di esso. Poiché l’universo non poteva fermarsi al piano dell’Intelligenza, dal momento che c’era la possibilità che qualcosa d’altro venisse dopo, inferiore sì ma necessario, essendo necessario anche ciò che è sopra di essa. Nel capitolo 4 ci spiega come le anime abbiano questo impulso a tornare all’intelletto, a tornare all’Uno. A pag. 767. L’anima, dopo la sua caduta, è imprigionata e messa in ceppi ed agisce soltanto per mezzo dei sensi, poiché è impedita di agire, almeno all’inizio, mediante la sola intelligenza. Essa è, come si dice, nel sepolcro e nella caverna; ma quando si volge al pensare, si libera dalle catene e risale, non appena la reminiscenza le abbia offerto l’avvio alla contemplazione dell’Essere: essa infatti conserva sempre un qualcosa che, malgrado tutto, rimane in alto. Si hanno così le anime che necessariamente posseggono una duplice vita e vivono, in parte, della vita di lassù e, in parte, della vita di quaggiù, ora più dell’una, quando possono unirsi maggiormente all’Intelligenza, ora più dell’altra, quando o per loro natura o per cause accidentali accade loro il contrario. Dice o per loro natura. Ma qual è la natura delle anime? Intanto, procedono dall’Uno, ovviamente, e procedendo dall’Uno dovrebbe essere solo questa la loro natura, o ne hanno un’altra? Ed essendo un’altra, da dove arriva? Quando dice che Dio le semina, bisogna intenderlo nel senso in cui egli rappresenta Dio nell’atto di parlare e di fare un discorso; cioè, egli immagina, nella sua ipotesi, che tutto ciò che esiste nella natura dell’universo sia come generato e creato, e rappresenta come successive quella realtà che divengono e sono eternamente. Quindi, la natura viene dall’Uno. A pag. 769. Non deve esistere soltanto l’Uno; altrimenti tutte le cose rimarrebbero nascoste. Ecco, qui ci avviciniamo alla quinta enneade, che è più teorica. …non possedendo nell’Uno una forma di spinta; né esisterebbe alcuna una cosa se l’Uno rimanesse immobile in se stesso; non ci sarebbe la pluralità di questi esseri che sono generati dall’Uno, se da lui non avesse avuto origine il processo degli esseri che costituiscono l’ordine delle anime. Supponiamo che sia così; ma, allora, perché non se ne è stato tranquillo dov’era, immobile, in tutta la sua magnificenza? Perché ha dovuto produrre altre cose? A che scopo? Per farsi onorare, ecc.? Per la stessa ragione non dovettero esistere soltanto anime, senza che apparissero cose prodotte da esse: poiché appartiene alla natura di ciascun essere di creare qualcosa dopo di sé e di esplicarsi procedendo da un seme, da un principio indivisibile, sino al termine ultimo che è il fenomeno sensibile. Appartiene alla natura di ciascun essere? Perché? Perché accade così ai viventi qua sulla terra? Sì, può darsi. Vedete come ogni cosa che accade, che lui osserva, che vede, si pone come ipostasi, cioè: è così. Il termine anteriore rimane eternamente nella sua sede propria, ma quello che vien dopo è come generato da una potenza ineffabile… Quello che viene prima è l’antecedente, quello che viene dopo è il conseguente: se A allora B. Quindi, il termine anteriore rimane quello che è e il secondo sopraggiunge generato da una potenza ineffabile. …qual è quella che esiste negli esseri superiori, la quale non poteva arrestarsi come se fosse delimitata da invidia: essa deve procedere perennemente sino a che tutte le cose raggiungano l’ultimo grado agli ultimi limiti del possibile; e questo avviene per opera di un’immensa potenza, che diffonde se stessa su ogni cosa e non può sopportare che nulla rimanga senza esserne partecipe. È curiosa questa cosa. L’Uno non può sopportare? Ma che razza di Uno è? Eppure è così che dice ed è così che è sorta tutta la civiltà occidentale: questo va sempre tenuto presente. A pag. 773. E l’Anima totale, cioè l’Anima del tutto, ordina l’universo con quella parte di sé che è rivolta al corpo e si mantiene in alto senza fatica, poiché soltanto la sua parte inferiore ordina il Tutto, non mediante il ragionamento come noi, ma con l’intuizione intellettiva come fa l’arte che non opera per calcolo. Non è dato sapere che cosa sia esattamente l’intuizione intellettiva, non ce lo spiega. A pag. 775. Quarta enneade, nono trattato. Sono sei enneadi divise in nove trattati, totali 54, che era un numero che piaceva tanto a Porfirio. Tra l’altro, la quinta enneade è la più corposa teoricamente. Porfirio l’ha messa come quinta, ma in realtà sarebbe potuta essere la prima, solo che lui ha deciso altrimenti. Molti però concordano che la quinta doveva essere posta come prima. Noi diciamo che l’anima di ogni singolo individuo è una perché è presente tutta in ogni punto del suo corpo; ed è realmente una in questo modo poiché non ha una parte di sé in un certo punto del corpo e un’altra in un altro punto... Ecco, qui insiste nel dire che l’anima è una ma anche molteplice. Il fatto che sia una e molteplice insieme, questo è previsto se tutto quanto è dominato dall’Uno. Abbiamo detto varie volte che la contraddizione è prevista, c’è; l’importante è che questa contraddizione – prima l’ha chiamata la folle discordia – sia gestita e non sia lasciata libera di andarsene dove le pare. A pag. 781. Ma come dunque essa (l’anima), che è sostanza unica, può trovarsi in molte? È l problema dell’uno e dei molti, che abbiamo già incontrato. O essa è tutta intera in tutte, oppure le molte sostanze derivano dalla sostanza intera ed unica, che permane in se stessa. Dunque, essa è una e le molte sostanze risalgono ad essa, la quale, in quanto è una, dà se stessa alla molteplicità e insieme non si dà: cioè, essa è capace di offrirsi a tutte e di rimanere, non di meno, una; si immerge infatti nello stesso tempo in tutte e tuttavia non è separata da nessuna: un identico, dunque, nei molti. Che lui ammette, certo. Ma, intanto, c’è l’identico che eventualmente compare nei molti, ma l’identico è sempre prioritario; e, poi, questa contraddizione, questa aporia, questa discordia, è comunque controllata dall’Uno. Lui fa questo discorso perché si rende conto che la conoscenza ha bisogno dell’unificazione. Infatti, dice verso la fine: Ma se è scientifico (il procedimento) esso contiene in sé, potenzialmente, tutti gli altri. Lo scienziato che sa, riconduce in una conoscenza tutte le altre in virtù di connessioni logiche; e il matematico mostra, con la sua analisi, che un teorema contiene in sé tutti gli altri che lo precedono e per i quali l’analisi è possibile, nonché i teoremi ulteriori che si generano la essa. Queste virtù dell’anima appaiono incredibili a causa della debolezza umana e sono offuscate per opera del corpo; ma lassù, al contrario, tutto è ben chiaro, fino al minimo particolare.
Intervento: Sostanzialmente afferma che la contraddizione è un problema che emerge perché c’è la materia…
Certo. La materia, cioè il non-essere, non si può eliminare, è ciò che utilizza l’anima per animare le cose, la materia. E, quindi, c’è sempre questo problema di fare coincidere l’uno con i molti. Non si riesce a trovare il sistema, cioè, lui lo trova in questa maniera: l’anima ha comunque sempre due aspetti, uno che guarda in su, l’altro che guarda in giù. Quello che guarda in giù è quello che vede la materia e la forma, la informa, letteralmente; quello che guarda in su, invece, vede, mantiene i contatti con l’Uno. Ora siamo alla quinta enneade. A pag. 793. Ma per quale causa le anime, pur essendo parti del mondo superiore e appartenenti completamente ad esso, si sono dimenticati di Dio loro Padre e ignorano se stesse e Lui? Per loro il principio del male fu la temerarietà. Quindi, la temerarietà è la causa del male. D’altra parte, il peccato originale è il peccato di superbia. Il peccato di superbia è il non sottomettersi alla volontà di Dio. In tal modo soddisfatte di quella loro manifesta decisione, dopo aver abusato del loro movimento e aver corso in senso contrario, una volta allontanatesi di molto,… Quanto non si sa. …ignorarono finalmente se stesse e il loro e il loro luogo di origine: simile a fanciulli che, troppo presto rapiti ai loro genitori e allevati per molto tempo lontani da loro, non riconoscono più né se stessi né genitori. Le anime dunque, non vedendo più né Lui né se stesse, disprezzandosi, per ignoranza della loro schiatta, e stimando tutte le altre cose più che se stesse, stupirono sbigottite di fronte ad esse e si meravigliarono e si staccarono con tutte le loro forze dalle cose dalle quali si erano allontanate con disprezzo. È dunque evidente che la causa di quella totale ignoranza di Dio è la stima delle cose terrene e il disprezzo di se stessi. Le cose terrene sono sempre foriere di malefatte. Infatti il perseguire e l’ammirare una cosa vuol dire, per chi la persegue e l’ammira, confessare nello stesso tempo di essere inferiore, ma chi si pone al di sotto delle cose che nascono e muoiono e si crede la più spregevole e caduta delle cose, non saprà mai pensare nell’animo suo né la natura né la potenza di Dio. Questo è interessante perché, da una parte, invita decisamente alla sottomissione, però, è una sottomissione che deve essere consapevole: mi sottometto, sì, volontariamente, ma a qualcosa che è assolutamente superiore a tutto; solo a questa condizione mi sottometto. A pag. 795. Perciò ogni anima rifletta anzitutto su questo:… Adesso consiglia anche alle anime su che cosa devono riflettere. …che essa ha generato tutti i viventi, infondendo in essi la vita; quelli che nutre la terra e che nutre il mare, quelli che abitano nell’aria e gli astri divini che sono nel cielo, che ha generato il sole e questo cielo immenso e lo ha adornato; essa lo fa girare in un determinato ordine, pur essendo una natura diversa dalle cose che ordina, muove e vivifica: l’anima perciò vale necessariamente più di esse, poiché, mentre queste nascono e muoiono, qualora essa le abbandoni o dia loro la vita, essa invece sussiste eternamente poiché non abbandona mai se stessa. Questo è il suggerimento che dà all’anima: pensare queste cose, perché non si umili, sennò si avvilisce e casca ancora più giù e… A pag. 799. L’Intelligenza non ha nulla che non pensi, ma pensa non come uno che cerchi, ma come uno che possiede. Questa è la trovata di Plotino: l’Intelligenza, se è Intelligenza, se mette in atto l’intelligenza, si mette in atto attraverso la ricerca, la domanda e l’interrogazione; ma non come una che cerca qualche cosa, perché questo qualche cosa ce l’ha già. E allora se lo possiedi, che cosa cerchi a fare? Ogni suo essere è Intelligenza, è ente e il loro insieme è tutto-Intelligenza e tutto-essere; l’Intelligenza fa sussistere l’essere nel pensiero, e l’Essere, in quanto è pensato,… Questa è una questione su cui lavoreranno molti teologi medioevali: le cose esistono perché sono, sì, in Dio, nel suo pensiero, ma nel momento in cui lei pensa – anzi, per Cusano, nel momento in cui le dice – allora sono. Non che esistono da quel momento, perché sono sempre esistite in lui, ma nel momento in cui lui le dice – il Verbo – allora, sono. Ma causa del pensiero è qualcosa di diverso, che è anche causa dell’Essere. Per ambedue c’è dunque una causa diversa da loro. Ma essi coesistono insieme e non si separano mai; eppure sussiste quest’uno che risulta da una dualità, in quanto è insieme Intelligenza ed Essere, pensante e pensato: Intelligenza in quanto pensa, Essere in quanto pensato. Vedete che anche la questione che affronta Gentile è molto antica: pensiero pensante e pensiero pensato. Pensiero pensante, di fatto, è l’intelligenza, intelligenza che non può essere colta, la si coglie soltanto attraverso l’essere, che è ciò che l’intelligenza pensa. L’intelligenza pensa, ecco l’essere, il pensato. Quindi, noi cogliamo sempre soltanto l’essere, mai l’intelligenza in quanto tale. Ecco dunque i Principi primi: Intelligenza, Essere, Alterità, Identità; ma è necessario aggiungere il Movimento e Riposo: il Movimento perché l’Intelligenza pensa, il Riposo affinché sia identico a se stesso. È pure necessaria l’Alterità affinché ci siano il Pensante e il Pensato: infatti, se elimini l’Alterità, si avrà una mera unità e il silenzio; e poi l’Alterità è necessaria affinché le cose pensate si distinguano fra loro. Vedete come ammette assolutamente l’alterità, non può negarla, è necessaria. Ed è necessaria l’Identità perché l’Intelligenza è una con se stessa e tutti gli esseri hanno qualcosa in comune: la loro differenza è l’Alterità. Dalla pluralità di questi Principi derivano il Numero e la Quantità, e la Qualità è il carattere proprio di ciascuno di essi. Da questa, come da principi, procedono le altre cose. Tutte cose che sembrano quasi venire da Aristotele, perché le cose che dice, tutto sommato, potrebbero anche apparire sensate, se non fosse che lui pone al di sopra di tutto l’Uno. Poi, in fondo, a pensarci bene, è il motivo per cui tutto questo discorso che fa lui ha avuto così tanto successo. Perché, vedete, se uno volesse fare l’avvocato del diavolo, come si suole dire, potrebbe dire: beh, la scienza, che è quanto di meglio l’umanità abbia prodotto in questi millenni, non sa spiegare tutto, non sa né può spiegare tutto; dunque, c’è qualche cosa che rimane inspiegato. Che cos’è questo qualche cosa, che rimane non spiegato né spiegabile dalla scienza? Il discorso comune immagina che questo qualche cosa, che la scienza non sa né può spiegare, ci sia, sia un qualche cosa, perché dice: lo sento. Per esempio, un sentimento lo sento, e la scienza non sa spiegarmi perché io mi innamoro di Rosetta anziché di Genoveffa, non lo può spiegare; eppure, sono cose che ci sono, e ci sono perché le sento. È questo che sostiene tutto quanto. Ora, questo sentire dentro è una cosa inventata, per il greco antico non c’era questa storia, anzi, il sentire dentro non esisteva proprio. Questo sentire dentro è un’invenzione di Plotino, bella e buona, che però ha avuto un’enorme successo, perché quello che sento dentro non può essere contraddetto. Chi può contraddirmi se io sento un qualunque sentimento? Lo sento io e se lo sento vuole dire che è vero. Quindi, Plotino ha fornito, consapevolmente oppure no, questo non lo sappiamo, ha fornito un modo della certezza che non ha bisogno di argomentazioni. E questo è fondamentale, perché se ha bisogno di argomentazione è sempre possibile contro argomentare. Ma se è fuori dell’argomentazione, se è al di sopra o al di là, se trascende ogni argomentazione, allora non può essere confutato e, quindi, è necessariamente vero. Lo dice Plotino: non puoi argomentare, questa cosa, se non la senti, allora è colpa tua perché non ti sei aperto a Dio, alla grazia, dirà più tardi Agostino, ma sei rimasto chiuso in te stesso, nelle tue paure, ecc. Si possono inventare infinite cose. Ma la cosa importante è che è riuscito in questo modo a dare la colpa: se non riesci a sentire questa cosa, è colpa tua. Non è perché non c’è, no, c’è, e se tu non la senti è perché non ti sei aperto a Dio, quindi, è colpa tua. È assolutamente perfetta come struttura argomentativa, retorica: se non mi dai ragione è colpa tua; è colpa tua che non vedi, non capisci, che non hai ricevuto la grazia divina, è colpa tua perché sei troppo legato alle cose terrene.
Intervento: Questo discorso si lega alla questione della sottomissione…
Sì. Questa cosa che io sento dentro di me, questo sentimento, che non si sa bene di che cosa è fatto, non si sa niente, ma io so che c’è perché lo sento. Non è che lo sente, lo ha costruito, naturalmente, ma questa idea è chiaro che allude a un qualche cosa che trascende; quindi, se io sento questa cosa vuol dire che qualche cosa c’è e che mi fa provare queste cose. A pag. 801. Poiché il numero non è primo; l’Uno è prima della Diade, e la Diade è seconda e, generata dall’Uno, è limitata da esso, mentre l’unità è illimitata per se stessa; il numero è, per così dire, sostanza e anche l’Anima è numero. Qui prende le distanze in modo definitivo da Aristotele. L’uno e il due sono definitivamente e irrimediabilmente separati: prima c’è l’uno e dopo c’è il due, prima c’è l’uno e poi ci sono i molti, prima c’è la δύναμις e poi c’è l’ἐνέργεια. Aristotele diceva che l’uno e il due sono la stessa cosa, non c’è prima uno e poi l’altro, sono lo stesso; quindi, non posso mettere prima uno e poi quell’altro. Capite che questo per Plotino è assolutamente inaccettabile, assolutamente, gli faceva crollare tutto. Non solo Plotino, anche il pensiero venuto dopo, perché comunque viene da lui. Il numero, di cui si parla lassù, e la Diade sono ragioni formali e Intelligenza… Il numero è la ragione formale, cioè, la forma che qualcosa assume, e l’Intelligenza è ciò che informa. Ma c’è da un lato la diade indefinita, concepita come substrato, e, dall’altro, c’è il numero che nasce da essa e dall’unità; ciascun numero è forma come se venisse informato dalle forme che entrano in esso: perciò esso è informato in un modo dall’Uno e in un altro da se stesso, com’è nel vedere che passa all’atto… C’è un vedere che può vedere, ma, se non c’è niente da vedere non vede nulla, ma può passare all’atto quando c’è qualcosa da vedere. È lo stesso discorso che faceva rispetto al pensiero: pensiero pensante e pensiero pensato. …il pensiero, infatti, è una visione che vede, due cose che sono una cosa sola. Sì, sono una cosa sola, certo, ma sempre a condizione che siano gestite dall’Uno. Solo allora possono essere una cosa sola, perché, dice, il numero di cui si parla lassù, la Diade, sono ragioni formali e intelligenza, sono entrambi queste cose. Ma, dice, da una parte c’è la Diade, il due, l’ᾂπειρον indefinito, l’indeterminato, dall’altro c’è il numero che nasce da essa e dall’unità; ciascun numero è forma, come se venisse informato. Il numero è forma e, in quanto forma, è uno. Ma questo uno viene della Diade, ma questa Diade viene dall’Uno, che è quello che poi gestisce tutto quanto.
Intervento: C’è un qualche influenza del pitagorismo su Platone?
Certo. Platone praticamente si è formato con i pitagorici; anzi, sopra l’Accademia c’era scritto “non può entrare chi non è geometra”; geometra, non nella nostra accezione contemporanea, ma di esperto nel numero, nel calcolo. Quindi, sì, non solo c’è una derivazione, ma c’è una formazione con i pitagorici. A pag. 803. In realtà, dobbiamo riconoscere che ciò che nasce di lassù, nasce senza che Egli si sia mosso, perché, se qualcosa nascesse solo dopo un suo movimento, il generato sarebbe terzo dopo di Lui e il suo movimento, e non secondo. È dunque necessario, se c’è un secondo dopo di Lui, che esso esista senza che Egli si muova, né che lo desideri, né che lo voglia, né che si compia un movimento qualsiasi. In che maniera, dunque, e che cosa dobbiamo pensare del Primo, se Egli resta immobile? Un irradiamento che si diffonde da Lui, da Lui che resta immobile, com’è nel sole la luce che gli splende tutt’intorno; un irradiamento che si rinnova eternamente, mentre Egli resta immobile. Tutti gli esseri, finché sussistono, producono necessariamente dal fondo della loro essenza, intorno a sé e fuori di sé, una certa esistenza congiunta, alla loro attuale virtù, che con un’immagine degli archetipi dai quali è nata... A pag. 805, Noi diciamo che l’Intelligenza è immagine dell’Uno solo perché dobbiamo parlare con una certa chiarezza: è necessario anzitutto che l’essere generato sia un secondo genitore e conservi molti caratteri di Lui, e che la somiglianza con Lui sia come quella della luce col sole. Ma Egli non è Intelligenza! Come può dunque generare l’Intelligenza? È perché rivolgendosi a se stesso, Egli contempla, e questa contemplazione è Intelligenza. Di fatto, ciò che percepisce un’altra cosa è o sensazione o intelligenza … sensazione, linea ed altro…; ma il cerchio può essere diviso, mentre l’Uno non può esserlo. Ricordiamoci bene che l’Uno è unità, ma è anche la potenza di tutte le cose: perciò il pensiero, distaccandosi, diciamo così, da quella potenza, contempla le cose di cui Egli è potenza: altrimenti non sarebbe Intelligenza. Ecco, qui c’è il nucleo del pensiero di Plotino. Come procede questa Intelligenza? È l’Uno che contempla se stesso. Contemplandosi, questa contemplazione è un atto di Intelligenza, in questa contemplazione sorge l’Intelligenza. Infatti tutti gli esseri derivano da Lui, poiché Egli non è limitato da nessuna forma. Egli è soltanto Uno, se fosse tutto, farebbe parte che gli esseri. Perciò Egli non è nulla di ciò che è nell’Intelligenza, ma da Lui derivano tutte le cose, le quali sono anche essenze, in quanto sono già terminate e possiedono ciascuno una sua forma. E va bene. Facciamo un salto in davanti, a pagina 815, poi magari torniamo indietro. Egli infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un’altra cosa. Ma l’Essere così generato si volge a lui, e tosto ne è riempito... Trabocca, quindi, va fuori. Ma se è tutto, non può andare fuori, come fa allora a traboccare questa cosa? Dove va quando trabocca? Se l’Uno è tutto, quindi, anche tutto lo spazio, ovviamente, dove va? C’è un altro spazio? Se c’è un altro spazio, allora manca di qualcosa, quindi, non è uno. A pag. 809. Più tardi Aristotele pensò l’Uno separato e intelligibile, ma dicendo che Egli pensa se stesso; non lo fa primo nemmeno lui… E perché avrebbe dovuto? …ammettendo poi molti altri esseri intelligibili, e cioè tutti quanti sono le sfere celesti; affinché ciascuna sfera abbia il suo motore, egli parla del mondo intelligibile diversamente da Platone, poiché non potendo allegare la necessità apodittica ricorre al verosimile. Questa è l’accusa che Plotino rivolge ad Aristotele, esattamente questo: non potendo allegare la necessità apodittica, che non può essere altrimenti, ricorre al verosimile. Questo è il crimine che Plotino non gli perdona. Aristotele si accorge che non c’è verità epistemica, che non si possono fare affermazioni apodittiche, e quindi si accorge che ogni affermazione ha come fondamento la doxa. E questo è il crimine intollerabile per Plotino, perché ovviamente gli scombina tutto il suo progetto delle ipostasi. L’ipostasi è una verità apodittica, una verità indiscutibile, incontrovertibile, direbbe Severino. E perché incontrovertibile? Perché non puoi contro argomentare; questo è sfuggito a Severino. A pag. 811. Se la parte ragionante dell’anima si occupa dunque di cose giuste e belle e si chiede se un’azione sia giusta e un’altra bella, essa non può non possedere ben stabile, qualcosa di giusto, da cui nasca poi nell’anima anche la riflessione; altrimenti, come rifletterebbe? Se l’anima in queste cose qualche volta riflette e qualche volta no, è necessario che ci sia in noi l’Intelligenza, la quale non calcoli sul giusto, ma lo possegga sempre in sé: perciò deve esistere anche il principio dell’Intelligenza, una sua causa, un dio, ma senza che si divida… Questo ci tiene a sottolinearlo: senza che si divida. Insomma, il giusto è una cosa che si sente, anche il bello: io giudico una cosa bella perché ho dentro di me l’idea del bello. E questo è Platone. A pag. 815. L’Uno è tutte le cose e non è nessuna di esse: infatti il principio di tutto non è il Tutto. Egli è il tutto, in quanto il Tutto ritorna a Lui; e cioè nell’Uno non si trova ancora, ma vi si troverà. Dice che il Tutto ritorna a Lui. Quand’è che se n’era andato? Qui non lo dice, dice soltanto che Lui non è il Tutto. Non è il Tutto, però, dice anche che è il Tutto: non è il Tutto, ma è anche il Tutto, in quanto il Tutto ritorna a Lui.
Intervento: Dice che non si trova ancora, ma vi si troverà.
Sì, lui rimedia così, è potenza. È il discorso che facevamo prima: tutte le cose sono tutte in Dio, perché Dio non può mancare di nulla, ma le cose sono nel momento in cui le pensa; in questo senso ritorna. Però, rimane un problema. Ma come il Tutto può derivare dal semplice Uno, dal momento che in questo non si può manifestare nessuna varietà e molteplicità? Ora, proprio perché è in Lui, affinché l’Essere sia. Egli per questo non è essere, ma soltanto il genitore dell’Essere, e questa che chiamerò genitura è prima. Egli infatti è perfetto, perché nulla cerca e di nulla ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un’altra cosa. Che non si sa dove sia, perché se tutto è nell’Uno, anche traboccando, è sempre l’Uno; quindi, non trabocca, di fatto. Ma l’Essere così generato si volge a Lui e tosto ne è riempito, e una volta nato, guarda a se stesso, e questa è l’Intelligenza. Il suo orientarsi verso l’Uno genera l’Essere: lo sguardo rivolto a se stesso genera Intelligenza. L’Intelligenza guarda a se stessa, se è pensiero pensante è Intelligenza, se è pensiero pensato è Essere. Il pensiero pensato si pone come altro. Ma poiché l’Intelligenza per contemplarsi deve persistere in se stessa, diviene insieme Intelligenza ed Essere. E così l’Essere, essendo simile a Lui, genera ciò che gli è affine, rilassando fuori la grande potenza; ma anche questa è un’immagine di Colui che, prima di lui, manifestò la sua potenza. Questa forza che procede dall’Essere è l’Anima, ma questa diviene, mentre l’Intelligenza è immobile, poiché anche l’Intelligenza nacque mentre Colui che è prima di lei persiste nella sua immortalità.
Intervento: Quasi a dire che le spiegazioni che lui fornisce al suo uditorio non sono altro che metafore, che è costretto ad adoperare perché noi, in quanto esseri materiali, non possiamo capire. Quindi, non si prodiga più di tanto, perché non possono capire.
Infatti, dice “trabocca” e accontentatevi. È come il sentimento che uno ha dentro di sé: non può spiegarlo. Se mi viene acidità di stomaco, io non posso spiegare quello che sento esattamente; certo, posso dire delle cose, ma quello che sento io, tu non lo puoi sentire.
Intervento: Le Enneadi non possono essere lette teoreticamente…
Teoricamente no, crollerebbe tutto quanto. Retoricamente sì, retoricamente continua a reggere ancora oggi.