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7 agosto 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Questo IV Capitolo, che si chiama La verità della certezza di se stesso, è un capitolo breve ma decisivo. Ci sono due aspetti importanti: l’uno è il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza; l’altro, invece, è il porre l’autocoscienza come un qualche cosa che si sdoppia, e cioè l’autocoscienza si rivolge a un’altra autocoscienza. Questa è la base del discorso che comincerà a fare nel capitolo successivo intorno al servo e al padrone. Infatti, la sezione successiva si chiama Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza; signoria e servitù. È un’autocoscienza duplicata. Comincia, quindi, a dire come la coscienza si volge in autocoscienza. Potete pensare così la coscienza: l’enunciato “Io sono”. Già, ma sono che cosa? È qualcosa che rimane indeterminato, non è ancora per sé, è in sé, pura percezione. L’autocoscienza, invece, dice “Io sono Io”. Vedete già in questa formulazione “Io sono Io” una sorta di doppio: Io e Io. Ma vediamo cosa ci dice Hegel. Nelle forme della certezza finora incontrate, alla coscienza il vero è qualcos’altro da essa stessa. Questo lo aveva già detto: il vero non posso trovarlo fuori dalla coscienza, sennò non lo raggiungerò mai. Ma il concetto di questo vero dilegua nell’esperienza che di esso vien fatta. Sta dicendo che l’esperienza che io faccio del vero dilegua, perché questa cosa, che io credo vera, si mostra essere non vera. L’oggetto era in sé immediatamente, e costituiva l’essente della certezza sensibile, la cosa concreta della percezione, la forza dell’intelletto; ma l’oggetto mostra piuttosto di non essere in verità così; anzi risulta che tale in sé costituisce un modo nel quale l’oggetto è solo per un Altro; il concetto di esso si supera nell’oggetto effettuale, o la prima rappresentazione immediata si supera nell’esperienza;… Prima c’è la percezione immediata e poi c’è l’esperienza della cosa. Ovviamente, l’esperienza della cosa è già un interrogare, è già un aggiungere elementi. …e nella verità andava perduta la certezza. Ero certo che la cosa era così ma, una volta raggiunta la verità, la verità è un’altra, dice che questa cosa non è così. Quindi, cerco la certezza, immaginando che la certezza corrisponda alla verità, ma quando trovo la verità perdo la certezza. Ma ormai è sorto ciò che non si attuava nelle precedenti relazioni: vale a dire una certezza eguale alla sua verità; infatti la certezza è il suo proprio oggetto a se stessa, e la coscienza è a se stessa il vero. La coscienza ha se stessa come proprio oggetto, perché io penso di una cosa che sia proprio quella e, quindi, questo oggetto lo immagino, lo suppongo essere quello che è. Quindi, è come se attribuissi all’oggetto la sua verità, cioè è vero per conto suo; mentre la verità, ci dice, appartiene alla coscienza, non all’oggetto. La coscienza quindi è bensì anche un esser-altro, vale a dire: la coscienza distingua; ma distingue qualcosa ch’è per essa, in pari tempo, un non-distinto. La coscienza distingue qualche cosa per poterla cogliere, ma questo qualcosa che distingue, in quanto tale, è un indistinto in quanto è sempre per altro, non è altro che una serie di relazioni. Se noi chiamiamo concetto il movimento del sapere,… Movimento, quindi, che giunge alla cosa e si accorge che la cosa è nella coscienza. …e oggetto il sapere come unità quieta o come Io, vediamo allora che non solo per noi, ma anche per il sapere stesso l’oggetto corrisponde al concetto. Quindi, l’oggetto non ha una vita propria, non esiste di per sé. Porre l’oggetto come concetto comporta che l’oggetto è un risultato. Le cose si pongono sempre come risultato di un lavoro dialettico: la cosa non è mai quella che è per sé - ma anche il per sé, come sappiamo, è un risultato. O, nell’altra guisa, chiamando concetto ciò che l’oggetto è in sé,… L’oggetto che è in sé, così come si mostra, è un concetto. …e oggetto ciò ch’esso è come oggetto o per un Altro… Il concetto non è altro che l’oggetto in sé. Concetto o significato. Potremo dire che l’oggetto non è altro che un significato. Poi, dice più o meno la stessa cosa: ciò ch’esso è come oggetto o per un Altro; quindi, l’oggetto è una relazione, in quanto è qualcosa che è per un Altro. …è chiaro allora che l’esser-per-sé e l’esser-per-un-altro siano lo stesso;… Infatti, questi due passaggi, questi due momenti, sono gli stessi. …infatti, lo in-sé è la coscienza; ma essa è anche ciò per cui un altro (lo in-sé) è;… Quindi, la coscienza è l’in sé, ma non soltanto, è ciò per cui un altro (lo in sé) è. L’in sé è ciò che mi appare, ma è anche ciò che mi appare qualche cosa che è per altro; quindi, è in sé ma anche per altro. …l’Io è il contenuto del rapporto, nonché il rapportare medesimo;… Vedete come insiste a porre la questione, anche se in termini mai diretti, della relazione. Ci sono sempre relazioni in Hegel. A pag. 144, Punto 2, L’autocoscienza in sé. Qui passiamo dalla coscienza all’autocoscienza, dall’“Io sono” all’“Io sono Io”. Mentre il primo, l’“Io sono”, rimane indeterminato, ancora non so cosa sono Io, cosa sono? Sono una macchina da scrivere? No, sono Io, e, quindi, a questo punto lo determino, questo “Io sono Io” è l’autocoscienza, è il per sé, è la determinazione. Con l’autocoscienza noi siamo entrati nel peculiare regno della verità. Perché lì c’è la verità. Bisogna vedere come la figura dell’autocoscienza sorge da prima. Se noi consideriamo questa nuova figura del sapere, - il sapere di se stesso, - in relazione al precedente, - il sapere di un altro, - ecco che quest’ultimo è bensì dileguato;… Cioè: il sapere di se stesso si può porre a condizione che dilegui il sapere di un altro; vale a dire, per potere dire che qualcosa è se stesso devo eliminare ciò che è altro rispetto a lui. Pensate sempre a quella cosa che faceva Severino e che abbiamo evocato mille volte: essere e non essere. Io pongo l’essere, ma se non pongo anche il non essere per poi toglierlo, questo essere rimane adiacente al non essere e, quindi, è essere ma anche non essere, e questa è una contraddizione. Quindi, devo porre il non essere per toglierlo. …ma i suoi momenti si sono tuttavia conservati… Ciò che ho tolto si conserva; se io tolgo il non essere dall’essere, sì, certo, non c’è più ma si conserva, e si conserva perché è la condizione perché l’essere sia esattamente quello che è, cioè incontraddittorio. Qualche riga dopo. Quel che sembra essere andato perduto è solo il momento principale, vale a dire il semplice, indipendente sussistere per la coscienza. È questo che sembra essere perduto: quando parlo di essere non parlo di non essere, ma per potere parlare di essere in modo incontraddittorio ci deve essere il non essere. Ma in effetto l’autocoscienza è la riflessione dall’essere del mondo sensibile e percepito, ed è essenzialmente il ritorno dall’esser-altro. Quindi, la riflessione dall’essere del mondo sensibile e percepito e, a seguire, il ritorno dall’esser-altro, cioè, perché sia quello che è occorre che ci sia l’altro da sé in quanto tolto. Autocoscienza, essa è movimento; ma poiché distingue da sé solo se stessa come se stessa, ecco che, ad essa, la differenza, immediatamente come un esser-altro, è tolta;… Solo a questa condizione l’autocoscienza è determinata: se tolgo tutto ciò che non è. A pag. 145. Quindi per essa l’esser-altro è come un essere, o come un momento distinto;… Questo essere altro non è che sia nulla, è un essere, c’è, ma è distinto. …ma, come secondo momento distinto, è per essa anche l’unità di se stessa con questo distinto. Riprendiamo l’esempio di Severino, con il quale è più facile intendere: essere e non essere. Anche questo non essere è ed è distinto dall’essere, ma costituiscono una unità; soltanto se costituiscono una unità l’essere è incontraddittorio, soltanto se, per usare le parole di Severino, è il concreto: mentre i due momenti sono gli astratti, il concreto è l’essere in quanto ritornato dal non essere in quanto tolto. Introduce, poi, la questione della concupiscenza o appetito. Per comporre questa unità è chiaro che io devo avere una sorta di appetito, cioè lo inseguo, lo desidero, verso ciò che devo togliere. Lo desidero in quanto è ciò che è necessario che ci sia per essere tolto. E conclude dicendo L’autocoscienza si presenta qui come il movimento nel quale l’opposizione viene tolta: e a lei ne diviene l’eguaglianza si se stessa con sé. Togliere l’opposizione: chiaramente, sappiamo che questa è la condizione perché io possa determinare qualcosa: togliere l’opposto. Tutta la dialettica sta qua. Una volta tolto l’opposto non è che mi rimane solo uno dei due. No, mi rimane il primo che, però, non è più quello di prima, è un’altra cosa. Dopo c’è quest’altro capitoletto, La vita. La vita per Hegel non è altro che questo movimento. L’oggetto il quale per l’autocoscienza è il negativo… Il negativo è ciò che gli si oppone. …da parte sua per noi o in sé è tuttavia ritornato altrettanto in se stesso, quanto, d’altra parte, ritornata in se stessa è anche la coscienza. Quest’oggetto, il negativo, è tornato alla coscienza, cioè, è stato accolto in quanto quell’elemento che devo negare per potere affermare il primo. Per tale riflessione in se stesso l’oggetto è divenuto vita. Questa è una nozione che, posta così, sembra abbastanza irrilevante, ma invece per Hegel la l’oggetto, le cose, sono la vita. Sono la vita perché le cose sono prese in questo continuo movimento dell’autocoscienza, cioè, prese nel continuo movimento di porre e togliere. Ciò che l’autocoscienza distingue da sé (considerandolo) come essente,… L’autocoscienza distingue da sé qualche cosa che non è autocoscienza. …in lui, in quanto è posto come essente, non ha meramente il modo della certezza sensibile e della percezione, anzi è un essere riflesso in se stesso;… Questa cosa che l’autocoscienza distingue da sé non ha meramente il modo della certezza sensibile e della percezione, è un essere riflesso in se stesso, cioè, esiste in quanto preso nella coscienza. …e dunque l’oggetto dell’immediato appetito… Ciò che io cerco per togliere. …è un vivente. Capite che qui si pone una distanza infinita da tutta la filosofia che lo ha preceduto e che pensava l’oggetto come inerte, caput mortuum, qualche cosa che è senza vita: l’oggetto, per antonomasia, è ciò che non ha vita. E, invece, no, per Hegel è la vita, l’oggetto è vivo. È vivo perché questo oggetto della percezione vive in quanto preso nel movimento della mia coscienza. Infatti lo in-sé o l’universale resultato della relazione dell’intelletto con l’interno delle cose, è il distinguere dell’indistinguibile o l’unità del distinto. È sempre questo lavoro: distinguo ciò che è l’indistinto o distinguo dall’indistinto, perché finché permane come indistinto non posso distinguere nulla, non posso percepire nulla. Devo distinguere ma distinguo l’indistinto. Ma questa unità… Alla quale punta la coscienza per distinguere. …come abbiamo visto, è altrettanto il suo respingersi da se stessa;… In quanto si mostra differente. …e questo concetto si scinde nell’opposizione dell’autocoscienza e della vita;… L’autocoscienza, cioè questo riflettersi della coscienza su di sé, è della vita; la vita non è nient’altro ciò con cui l’autocoscienza ha a che fare. …quella è l’unità per la quale è l’infinita unità delle differenze;… Queste differenze formano una unità. Questa unità è fatta di differenze. …la vita peraltro è solo questa unità stessa, per modo che tale unità non è in pari tempo per se stessa. Questa vita, le cose che vivono, è questa unità, ma, allo stesso tempo, questa unità non è per se stessa, è sempre per altro. Ricordate qui la questione che poneva Heidegger, è la stessa cosa – Heidegger ha preso tantissimo da qui: l’essere sempre per altro; la questione stessa del progetto è l’esserci che è sempre rivolto ad altro, proiettato. Quanto indipendente è dunque la coscienza, altrettanto lo è in sé il suo oggetto. È indipendente in quanto si pone come unità. Quindi, è apparentemente indipendente, anche se sappiamo che questa unità è fatta di infinite differenze. Tanto più quindi l’autocoscienza che è senz’altro per sé e che contrassegna immediatamente il suo oggetto con il carattere del negativo, o che da prima è concupiscenza, farà esperienza dell’indipendenza dell’oggetto medesimo. Faccio uno schemino: l’oggetto esiste nella coscienza, sennò non alcuna esistenza; la coscienza è un’unità, perché è qualcosa di determinato – “Io sono”; anche se non ho ancora quella determinatezza che verrà dall’autocoscienza la coscienza determina, individua, qualche cosa; quindi, essendo la coscienza apparentemente qualche cosa di indipendente, pone anche l’oggetto, che è in sé e nella coscienza, come qualcosa di indipendente. Da qui viene la supposizione che l’oggetto sia qualcosa di indipendente, perché è nella coscienza, la mia coscienza la avverto come qualcosa di indipendente e, quindi, ciò che le appartiene è altrettanto indipendente. Punto 4, poco più avanti. L’essenza è l’infinità come l’esser-tolto di tutte le differenze… Questa è l’essenza delle cose: è l’infinità di cui è fatta e che io tolgo. Se io tolgo questa infinità di cui è fatta, mi rimane l’essenza. …è il puro movimento di rotazione; è la quiete di lui stesso come infinità assolutamente inquieta; ed è anche l’indipendenza stessa nella quale son risolte le differenze del movimento, è l’essenza semplice del tempo, la quale in tale autoeguaglianza è la compatta figura dello spazio. Sta dicendo soltanto che questa infinità, di cui è fatta l’essenza, una volta tolta pone l’essenza come un qualcosa di quieto; pur essendo una quantità infinita di cose è qualcosa di quieto. A pag. 147. I membri indipendenti sono per sé; ma questo esser-per-sé è piuttosto immediatamente la loro riflessione nell’unità, proprio nello stesso modo in cui quest’unità è la scissione delle figure indipendenti. Questo essere per sé non è altro che la riflessione verso l’unità. Sappiamo che c’è l’unità e poi l’autocoscienza, ma questo essere per sé, da dove arriva? Viene dalla coscienza, l’autocoscienza viene dalla coscienza, è un movimento partito dalla coscienza, dall’in sé. Quindi, ci sta dicendo che questo essere per sé è il riflettersi di vari membri indipendenti, di cui è fatto e che sono per sé, ma, dice, questo essere per sé è la loro riflessione nell’unità. Cioè, tutti questi membri indipendenti si riflettono e si rivolgono nell’unità, diventano una unità; ma questa unità non è altro che la scissione nelle figure indipendenti. Questa unità è fatta di infinite cose, ma queste infinite cose, prese tutte assieme, sono una unità. Ciò che appare unitario, di fatto, è fatto di una infinità di elementi, e ciascuno di questi elementi è fatta sua volta di una infinità di elementi. Il che è esattamente il funzionamento del linguaggio: ogni termine che interviene, come dice già de Saussure, è in una relazione differenziale con tutti gli altri; quindi, è tutta questa infinità di cose. L’unità è scissa… È la scissione nelle figure indipendenti; quindi, è scissa, di fatto, perché non è fatta da altro che di questi elementi indipendenti. L’unità è scissa, perché è unità assolutamente negativa o unità infinita. Ed essendo essa il sussistere,… L’unità è il sussistere: questo aggeggio qui è un’unità. Ed essendo essa il sussistere, ecco che anche la differenza ha indipendenza soltanto in essa. Questa indipendenza della figura appare come qualcosa di determinato, qualcosa che è per Altro, giacché essa è uno scisso; e quindi il togliere la scissione avviene mediante un Altro. Questa unità è scissa in vari elementi. Ora, questa unità è ciò che per noi è il sussistere di qualcosa: una cosa sussiste in quanto unità. Dice che allora anche questa differenza, di cui è fatta l’unità, ha indipendenza soltanto in essa, cioè, esiste soltanto in essa. Soltanto qui appare come qualcosa di determinato, e cioè appare come qualcosa che è quello che è. Questa indipendenza della figura appare come qualcosa di determinato, qualcosa che è per Altro: perché qualcosa sia determinato, se voglio determinarlo, devo dire qualche altra cosa. La determinazione non è una semplice percezione, ma è un processo; quindi, se qualcosa è determinato è determinato per altro, cioè, c’è un’altra cosa che lo determina; così come il significato di una parola è per altro, è per altri significanti, per altre parole. Possiamo andare avanti. C’è una questione importante, e cioè come tutto questo porti alla dialettica servo-padrone. A pag. 149, Punto 71, L’Io e la concupiscenza o l’appetito. Questo è un aspetto che è fondamentale, perché se non ci fosse questo appetito, questa concupiscenza, questo qualcosa che poi verrà chiamato desiderio anche nella psicoanalisi, questo tendere verso un qualche cosa di cui un elemento necessita per potere determinarsi. Vale a dire, io ho bisogno che ci sia un qualche cosa che si opponga a ciò che io voglio porre, per potere porre esattamente quella cosa. È sempre il discorso dell’essere e del non essere. Potremmo dire che l’appetito è verso il non essere come negazione del non essere, che ha bisogno di esserci perché l’essere sia quello che è. Giacché dalla prima immediata unità si torna, attraverso i momenti della figurazione e del processo, all’unità di entrambi, e, quindi, alla primitiva sostanza semplice, ecco che quest’unità riflessa è diversa dalla prima. Si torna a questa unità di entrambi, attraverso i momenti della figurazione e del processo, ma una volta che si arriva a questa unità questi elementi non sono più quelli di prima, sono un’altra cosa. E, infatti, dice …ecco che quest’unità riflessa è diversa dalla prima. Quella che appariva. C’è una prima unità che appare, che è fatta di vari momenti differenti tra loro; poi, attraverso il processo dialettico questi momenti si ricompongono in unità, attraverso l’autocoscienza, ma quando tornano a questa unità, questa non è più l’unità di prima. Di fronte a quell’unità immediata, ossia enunciata come un essere, la seconda è l’unità universale che ha in lei tutti questi momenti come tolti. I momenti della figurazione e questo processo, tutte queste cose ci sono, devono esserci, ma in quanto tolte. Solo a questa condizione allora ci appare qualche cosa come unità universale che ha in lei tutti questi momenti come tolti. Parafrasando Severino, si torna all’essere come unità universale, ma perché tutto ciò che gli si oppone è stato posto e tolto. A pag. 150, Punto 9. Il semplice Io è questo genere o l’universale semplice, per il quale le differenze sono nulle; ma lo è, soltanto quando esso stesso Io sia l’essenza negativa dei momenti indipendenti e figurati che si son venuti formando. In questo caso parla dell’Io come oggetto ma è lo stesso discorso di prima: l’Io si pone come universale semplice a condizione che tutte le sue figure, tutto ciò di cui è fatto, e il processo, per cui ciò di cui è fatto si ricompone in un’unità, tutto questo viene tolto, perché tutte queste cose sono altro rispetto all’Io, anche se sono ciò di cui è fatto l’Io, e devono essere tolte. E l’autocoscienza quindi è certa di se stessa soltanto perché toglie questa alterità che le si presenta come vita indipendente; essa è concupiscenza o appetito. Come fa l’autocoscienza essere sicura di sé, come faccio a essere sicuro che io sono io? Come lo so? Perché ho tolto tutto ciò che è altro da me, tutto ciò che non sono io. Questa autocoscienza, questo “Io sono Io”, per potere porsi deve togliere tutto ciò che non sono io, ma come io posso stabilirmi se non in relazione ad altri? Se io fossi solo al mondo, sarei io? A questo punto, io rispetto a che? Io sono rispetto a qualche cosa. Per potere dire che io sono io è necessario che ci siano altre autocoscienze, per le quali io sono io, cioè, che mi riconoscono come io. È questo che avvia tutto il processo dialettico servo-padrone, di cui parlerà nel capitolo successivo: l’autocoscienza, per essere tale, deve porsi ma deve togliere ciò che le si oppone. Che cosa si oppone all’autocoscienza? Ciò che non è autocoscienza, ciò che non sono io, e che devo togliere. Ma se per potere dire che io sono io necessito di altri, allora è come se io dovessi porre degli altri per poterli togliere. Quindi, devo porre l’altro, scritta in minuscolo – che Hegel distingue l’Altro, che è l’essere per altro, l’Altro radicale, assoluto, dall’altro come l’altrui – quindi, devo porre un’altra autocoscienza, come opposizione a ciò che io sono, per poterla togliere. Solo a questo punto io posso stabilirmi con certezza in quanto “Io sono Io”, ma devo porla questa altra autocoscienza. Qui ci sarebbe tutto un discorso interessante da fare, che Hegel naturalmente non fa, ma, a parte il rinvio immediato alla questione della volontà di potenza, qui si fa un passaggio in più: per potere esplicarsi la volontà di potenza, se seguiamo il discorso di Hegel, deve porre l’altro per poterlo eliminare, per poterlo controllare, per poterlo dominare. Solo a questa condizione può affermarsi come autocoscienza, cioè, può affermarsi in quanto tale, come un qualche cosa che è quello che è, come verità. Posso affermarmi come verità a condizione di porre un altro da me ed eliminarlo, controllarlo, dominarlo, ecc. Questo, dicevo, è interessante perché, intanto, ci dice a che cosa serve l’altro, e anche perché in un certo senso è necessario inventarsi l’altro, costruirlo. Certo, diventa il nemico, ma un nemico creato per esserlo, perché soltanto se è nemico, se è in opposizione, allora l’autocoscienza diventa per sé, sennò è sempre per un altro. Infatti, poi lui distinguerà tra il concetto dell’autocoscienza per sé, che sarebbe il padrone, e il concetto di autocoscienza per altro, che sarebbe il servo che, sì, autocosciente, ma la sua autocoscienza è sempre per altro, non arriva a essere per sé per una serie di motivi. In questo caso il servo dovrà lavorare per potere eliminare questo altro da sé, che è il padrone.

Intervento: Questione dell’identità…

Certamente. Identità sempre in relazione ad una alterità, che deve esserci perché l’identità sia. Tutta la lettura che fa Kojève va abbastanza in questa direzione. Punto 10. L’autocoscienza, dunque, mediante il suo rapporto negativo, non è in grado di togliere l’oggetto; anzi non fa che riprodurre l’oggetto nonché l’appetito. In effetto, qualcos’altro dall’autocoscienza è l’essenza dell’appetito; e con tale esperienza alla stessa autocoscienza si è presentata una tale verità. In pari tempo tuttavia, l’autocoscienza è altrettanto assolutamente per sé, e lo è soltanto mediante il toglier l’oggetto; e gliene deve derivare il suo appagamento, perché essa è la verità. In forza dell’indipendenza dell’oggetto, l’autocoscienza può quindi giungere all’appagamento sol quando l’oggetto stesso compia in lui la sua negazione;… Deve compiere in sé questa negazione di se stesso perché in sé il negativo, ciò che esso è deve essere per l’altro: come dire che l’autocoscienza ha bisogno, per potere porsi, dell’oggetto in quanto altro da sé. Tutto ciò che è altro dall’autocoscienza deve essere tolto, ma il problema è che, per poterlo togliere, prima deve porlo e, quindi, non può fare a meno dell’oggetto, non può fare a meno dell’altro. Deve esserci questo altro per poterlo togliere, perché soltanto se lo tolgo allora io sono io; soltanto e tolgo il non essere l’essere è essere. A pag. 151. Nella vita, che è l’oggetto dell’appetito,… L’appetito si rivolge alle cose, potremmo dire, per poterle dominare. …la negazione è; o in un altro, vale a dire nell’appetito; o è come determinatezza verso un’atra figura indifferente; o è come universale natura inorganica di quella vita. Ma siffatta indipendente natura universale, nella quale la negazione sta come negazione assoluta, è il genere come tale, ossia è l’autocoscienza. L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza. Cioè: ha bisogno dell’oggetto per poterlo togliere, così come l’essere ha bisogno del non essere per potere essere “essere”. Qui, come vedete, si incomincia a porre l’autocoscienza e l’altra autocoscienza. Dice L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento, toglie ciò che le impedisce di essere quella che è, di essere per sé; solo in un’altra autocoscienza, perché soltanto togliendo l’altra autocoscienza, la prima rimane quella che è; ma quest’altra deve esserci per potere essere tolta. L’altro, l’altrui, devo costruirlo per poterlo togliere. Il che è esattamente quello che Severino dice rispetto all’essere, né più né meno. Individua tre momenti in cui viene a compiersi il concetto dell’autocoscienza. a) puro Io indistinto è il suo primo immediato oggetto;… L’autocoscienza è coscienza di sé, in prima istanza, coscienza dell’Io. Infatti, io sono io, intanto. b) Ma questa immediatezza è anch’essa assoluta mediazione,… Ogni volta che qualcosa è immediatezza è anche mediazione e ogni volta che è mediazione deve anche essere immediatezza. Questo è il movimento continuo. …essa è solo come togliere l’oggetto indipendente, o essa è l’appetito. Che cosa fa l’immediatezza? Toglie l’oggetto indipendente; solo così è immediatezza, solo così è percezione di qualche cosa, cioè, toglie tutto ciò che deve togliere. L’appagamento dell’appetito è bensì la riflessione dell’autocoscienza in se stessa… Appagamento dell’appetito significa: avere tolto ciò che si oppone. L’appetito – da prendere nel senso latino, ad petere, volgersi verso qualche cosa - è verso ciò che si oppone. …o è la certezza diventata verità. Riflessione dell’autocoscienza in se stessa: ma per riflettersi in se stessa, e quindi determinarsi, deve togliere tutto ciò che autocoscienza non è, tutto ciò che le si oppone. c) ma la verità di quella certezza è piuttosto la riflessione duplicata, è la duplicazione dell’autocoscienza. Se io devo togliere tutto ciò che non è autocoscienza, che cosa devo porre? Devo porre un’altra autocoscienza per poterla togliere e stabilire così la mia. Quest’oggetto per l’autocoscienza è un’altra autocoscienza, cioè, è un qualcosa che mi si oppone in quanto autocoscienza. lo diceva prima: l’autocoscienza pone se stessa come oggetto della coscienza. È questo l’oggetto che deve togliere l’autocoscienza: deve togliere un’altra autocoscienza, perché l’autocoscienza ha posto se stessa come oggetto della coscienza; quindi, questa coscienza si ritrova di fronte un oggetto che è l’autocoscienza che, sì, si è riflessa in se stessa, ma per potersi riflettere in se stessa, cioè essere per sé, deve togliere questo oggetto che le si oppone. Il fatto è che questo oggetto che per la coscienza le si oppone è un’altra autocoscienza. Punto 12. Questa è un’autocoscienza per una autocoscienza¸ e soltanto così essa in effetto è; ché soltanto così divien per lei l’unità di se stessa nel suo esser-altro. Io che è l’oggetto del suo concetto, in effetto non è oggetto; ma l’oggetto dell’appetito è soltanto indipendente: esso è infatti l’incancellabile sostanza universale,… Conclude, a pag. 152. Quel che per la coscienza si viene istituendo, è l’esperienza di ciò che lo spirito è questa sostanza assoluta la quale, nella perfetta libertà e indipendenza della propria opposizione, ossia di autocoscienze diverse per sé essenti, costituisce l’unità loro: Io che è Noi, e Noi che è Io. L’autocoscienza ha bisogno, deve creare altre autocoscienze, per poterle togliere, per potere compiere quel lavoro dialettico che porterà l’autocoscienza ad essere per sé, perché ha colto l’oggetto che le si oppone, e l’oggetto che le si oppone è un’altra autocoscienza. Ed è il lavoro che fa il lavoratore per acquisire la sua coscienza “eliminando” il padrone. Il lavoro del popolo - questo è Marx – per giungere alla coscienza di classe; per Hegel, per giungere all’autocoscienza per sé. Ma questa autocoscienza per sé non è che può eliminare l’altra autocoscienza. Certo, deve toglierla per potersi porre come per sé, ma alla fine, come molti hanno inteso, tutto ciò che le si oppone, e che toglie, diventa Sapere Assoluto, per cui non ha più nulla che le si oppone. Questo come punto di arrivo. E, invece, no, questo è solo il punto di partenza.